Quelli che partono sono tutti soldati del 21° Reggimento del Genio diretti in Libia,
precisamente a Bengasi (Cirenaica), dove il fascismo mussoliniano intendeva colonizzarla.
Ma di coloni si parla un po’ in tutta la prima parte del romanzo: coloni laziali, veneti, venuti in Puglia (Capo di Leuca) per bonificare le paludi; altri coloni ancora. Il regime colonizza, o vuole colonizzare, non solo all’estero (Libia, Abissinia, Etiopia, Somalia) ma anche all’interno dell’Italia.
Lungo la traversata i soldati ammirano le coste che passano davanti ai loro occhi. Molto
sorpresa per le coste della Sicilia. Sulla nave, ascoltano racconti, leggende, esperienze di vita delle varie famiglie che vanno verso i luoghi da colonizzare. Vittorio vede per la prima volta dalla balaustra della nave la città di Tripoli. Egli non deve scendere in quel porto, ma in quello di Bengasi. Tuttavia le autorità navali permettono a lui e agli altri genieri di scendere per poche ore e visitare la città che, a quell’epoca, veniva indicata come la capitale della “quarta sponda”. Effettivamente Tripoli, a quel tempo, era già una bella città con magnifici palazzi ed altre architetture moderne come, ad esempio, il Palazzo del governatore.
Vittorio e gli altri commilitoni genieri, tornarono per tempo sulla nave che, puntualmente,
ripartì facendo rotta per Bengasi. In quella situazione, Vittorio cominciò a scrivere alla
moglie Giulia. Arrivati a destinazione, si accorsero che Bengasi, come Tripoli, era anch’essa una bella città moderna e piena di vita. Furono acquartierati nella caserma “Moccagatta”. Occorre dire non molto moderna. Ma si dovettero accontentare. Bisognava quanto prima mettersi a studiare per apprendere l’arte del radio-telegrafista che, per Vittorio, non dovette essere molto difficoltosa date le sue conoscenze di elettricista. La principale nozione che i genieri dovevano imparare era quella di scrivere al Morse “Viva l’Italia”, “Viva il Re”, “Viva il Duce Benito Mussolini”. Non ci volle molto per imparare il Morse. Come pure, dato che si era portato dietro una macchinetta fotografica, a cominciare a fare degli scatti fotografici. Gli piaceva riprendere la realtà che lo circondava.
Lì, a Bengasi, per questi soldati cominciava ora tutta un’altra vita. Soprattutto per Vittorio, il quale non finiva mai di pensare a San Donato di Lecce, alla propria casa, agli amici che aveva lasciato in paese. Pensava a Giulia, alla figlia piccoletta Maria, ai parenti, ai compaesani.
Una delle prime esperienze, Vittorio e i suoi commilitoni genieri la fecero recandosi in
missione nei villaggi autoctoni (Baracca, Maddalena, Oberdan, D’Annunzio, Beda Littoria,
Cesare Battisti, Berta, Luigi di Savoia, Gioda, tutti nomi italiani come aveva voluto
Mussolini), dove conobbero da vicino il popolo libico, ma anche gli stessi coloni italiani, che già si erano insediati. Per loro le escursioni nel deserto furono sorprese affascinanti, ma anche colme d’incognite. Arrivò il tempo delle lettere.
Commovente la prima lettera che Vittorio scrisse alla moglie, dove le racconta della sua vita a Bengasi. Nella lettera molto si sofferma sulla richiesta di sapere se tutti i suoi cari stanno bene in salute.
Era l’anno 1938 e Hitler aveva già cominciato a invadere e occupare la Cecoslovacchia,
mentre contemporaneamente Mussolini occupava l’Albania. Di fatto è l’inizio della seconda guerra mondiale. La vita a Bengasi continuava così tra adunanze, uscite dalla caserma, esercitazioni fino a che un giorno l’ufficiale lo chiama e gli comunica che dall’Italia era giunta una notizia tremenda: sua figlia Maria era morta. L’ufficiale responsabile della caserma gli concesse così una licenza per recarsi in Italia. Per Vittorio fu triste il viaggio di ritorno in Italia, che fece riattraversando il percorso per via mare. Tristissimo fu pure il suo breve soggiorno a San Donato di Lecce per onorare la memoria della povera figlia Maria.
Ecco. Questa sopra descritta è la prima parte di questo robusto romanzo di memorie
salentine, imperniate sul soldato geniere.
La seconda parte, più corposa, narra le vicende che Vittorio e i suoi commilitoni dovranno
affrontare in terra d’Africa in un momento in cui la guerra in Europa è già scoppiata.
Ovviamente, quello che accade da questa parte del Mediterraneo non può che riverberarsi
nella cosiddetta “quarta sponda”. Occorre pensare soprattutto alla difesa delle postazioni
dell’esercito italiano, occorre tutelare i coloni, occorre evitare inutili spargimenti di sangue.
Ad un certo punto, Vittorio e i suoi amici genieri vengono presi prigionieri dagli inglesi.
Dopo la morte di Italo Balbo, Tobruk è il primo campo di prigionia. Di lager inglesi ne
esperimentarono tanti, ad iniziare dal campo di Alessandria d’Egitto, dove le sofferenze
subite si aggiunsero ad altre umiliazioni. Tutto ciò finché non giunse il giorno in cui Vittorio sentì la necessità di scrivere una seconda lettera alla moglie Giulia, dove le raccontò dei patimenti e delle sofferenze.
Il terzo campo di prigionia fu quello di Geneifa e da qui la partenza per il Sudafrica in quel
momento occupato dagli inglesi. Un altro campo ancora fu quello di Zonderwater (1941),
che lasciarono nel 1942. Quando ancora Vittorio era prigioniero in questo campo gli giunse
un’accorata lettera della moglie che gli chiedeva notizie dei suoi spostamenti.
La terza parte del romanzo inizia con una lunga navigazione che porta Vittorio e i suoi amici commilitoni in Gran Bretagna, dove, sotto il duro comando degli inglesi subirono non poche vessazioni. Nel 1943 Vittorio continuava ancora la sua vita di prigioniero degli inglesi. Ormai erano passati cinque anni da quando egli era partito per l’Africa. Il 1943 fu l’anno fatidico che tutti si aspettavano. L’8 settembre ci fu l’armistizio con gli Alleati e il nuovo governo italiano (il fascismo era caduto il 25 luglio) fu affidato a Badoglio. Lo sbarco degli Alleati in Normandia determinò la fine della guerra. Ci furono ancora momenti cruenti, come ad esempio, il bombardamento da parte tedesca del porto di Bari con migliaia di morti.
Come si evince da questa breve narrazione, si tratta di un romanzo di memorie, imperniato soprattutto sulla seconda guerra mondiale che, per tanti versi appare inedito, proprio perché scritto sulla base degli appunti di un soldato geniere (Vittorio Manno) che per fortuna seppe conservare e la figlia Marisa Manno seppe recuperare.
C’è una riga molto bella, che sta in fondo al romanzo. Questa: «Era il 1° giugno 1946 e
l’avventura militare era finalmente conclusa». Il geniere Vittorio rimase, tra guerra e prigionia, sei anni lontano da casa. Tuttavia egli fu fortunato, perché ritornò e, per lui, cominciò un’altra storia, quella di emigrante in Belgio a lavorare nelle miniere di carbone. Ma ora il soldato geniere, che era partito per «terre assai lontane» era felice perché accano a lui c’era la moglie Giulia.
Ecco. In guerra con Tale è un romanzo robusto, leggibile, per tanti versi ricco di eventi inediti nel complesso della storia della seconda guerra mondiale. L’autrice, che non dobbiamo dimenticare, è Marisa Manno, figlia di quel Vittorio Manno che, per amore della narrazione, ha scritto le sue memorie senza sapere se mai sarebbero state pubblicate. L’amore di figlia per il proprio padre ha compiuto un evento straordinario: oggi, In guerra con Tale è un libro che i sandonatesi, i salentini ed anche altre comunità potranno leggere scoprendo la bellezza della Storia.
[“Il pensiero meridiano” del 10 dicembre 2024]