E Bodini accese in sequenza nell’oscura trasparenza dell’astronero la mappa labirintica del mare e dei naufragi come l’aveva immaginata, chiamandola Solitudini, don Luis de Góngora y Argote, la Venere nello specchio di Velázquez, i vastissimi patios dentro i quali si tengono a seccare le foglie del tabacco, i sogni e le magie di Rafael Alberti, le visioni d’amore di Pedro Salinas
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Come in una bottega d’architettore il poeta visionario accese in sequenza nella luminosa trasparenza dell’astrobianco i progetti assonometrici, gli spaccati, le piante, le proiezioni ortogonali di Santa Croce e di Palazzo Adorni, di San Matteo e del Convento degli Olivetani
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Scrisse:
livello di un’assenza a cui sole si sporgono capre o spettri di capre morte da secoli che brucano le amare giade dell’insonnia.
La luna dei Borboni era una spugna intrisa della distanza incolmabile tra la storia e il Salento, un tenace amore spagnolo, una città di giardini nascosti alla vista, piazzette con un palmizio altissimo a impigliare la chioma nelle nuvole.
Scrisse:
viviamo in un incantesimo tra palazzi di tufo in una grande pianura.
E:
sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute – o macchie che la luna ripercuote nell’aria – socchiudono pupille d’una astratta durezza dai palmi delle mani aperte pietre sui grembi.
Rialzatosi in piedi, detergendosi il collo con un fazzoletto contadino, s’incamminò verso la città (il suo destino) lo sapeva bene. Molto bene.