Ma, se questo è l’esito attuale della storia, l’uomo greco del periodo arcaico ebbe necessità di immaginare – anche l’immaginazione, infatti, ha una sua necessità – una divinità gelosa del proprio status, pronta ad intervenire nelle vicende umane per ristabilire l’ordine cosmico, che nessun mortale ha il diritto di cambiare. Perché, dunque, l’uomo greco ha immaginato questo? Quale vantaggio ne poteva trarre? La risposta non può che essere politica ovvero riguarda i rapporti tra gli uomini, che sarebbero stati guastati – come infinite volte in realtà lo furono – dalla mancata equa distribuzione dei doni della “felicità”. La potenza di Serse, la ricchezza smisurata di Creso, il potere tirannico di Policrate, la ribellione di Prometeo, “la buona fama oltre misura” (Eschilo, Eumenidi, v. 468) di Agamennone, conseguente alla vittoria della guerra di Troia, sono i miti fondativi di una concezione della vita che stigmatizza l’eccesso, la dismisura, ovvero l’infrazione dell’ordine cosmico, di una misura che gli dèi con la loro invidia preservano. A noi tutto questo appare come una chiara sublimazione della più prosaica invidia degli uomini che plaude alla irreparabile catastrofe che non lascia scampo a chi ha infranto quell’ordine e riporta un principio di giustizia tra gli uomini.
Agisce ancora nelle profondità della psiche umana dell’uomo contemporaneo l’invidia degli uomini sublimata in invidia degli dèi? Questa è la domanda che mi sono fatto leggendo il libro di Dino Baldi, convinto che le vicende degli antichi Greci possano ancora gettare una luce sul nostro modo di pensare. Non c’è che dire: nella nostra vita quotidiana noi siamo invidiosi, per esempio del vicino che ha acquistato un’auto di lusso e può permettersi di vivere una vita più dispendiosa della nostra oppure di un amico che ha fatto carriera, ecc.; siamo invidiosi, ma non lo ammettiamo, neanche a noi stessi, perché la nostra ipocrisia ce lo vieta, e così coviamo dentro di noi l’invidia. Se non ci permettiamo di invidiare i superricchi alla Elon Musk è perché li vediamo troppo lontani da noi: la vista è fondamentale nell’in-vidia, dal lat. in video, che implica lo sguardo contro qualcuno (donde deriva il malocchio). E ci sono poi i fan, che altro non sono che invidiosi che hanno sublimato la loro passione triste in ammirazione verso i vip. In proposito, consiglio di vedere il film Misery non deve morire di Bob Reiner del 1991, tratto dal romanzo Misery di Stephen King.
Non invochiamo l’invidia degli dèi perché per noi Iddio non può essere malvagio e anche davanti alla maggiori catastrofi che travolgono gli innocenti, noi ci diciamo che non possiamo intenderne gli imperscrutabili piani. A noi non riesce più quel processo di sublimazione che mettevano in atto in modo così fantastico i rozzi greci delle origini. Ma poi la violenza dei fatti di cronaca ci mostra le conseguenze dell’invidia che serpeggia nella società e che spesso si scatena in un’aggressione, in un furto, in un assassinio, in una strage.
Con i loro racconti i Greci antichi invocavano la misura, “il rifiuto del “troppo”, dell’atto sovrumano e violento, che sconvolge un equilibrio” (p. 198). Ed io non posso fare a meno di pensare a ciò che avviene in Ucraina, a Gaza, in Libano, in Siria, ossia l’assenza di ogni misura e la tracotanza (la hybris) che dilaga e sembra che nessun dio sia in grado di fermare.
In un’epoca in cui la terza guerra mondiale a pezzi sta sconvolgendo ogni equilibrio nel mondo, non era quello dei Greci un ideale di saggezza?