Il Paese cambiava fisionomia. Cambiava identità.
Quella mutazione antropologica vaticinata da Pier Paolo Pasolini portava a
compimento il suo processo. Cambiava la
politica, l’economia, il linguaggio; cambiava il senso delle storie e delle
cose, il modo di pensare, i valori di riferimento. Cambiava il secolo e il
millennio. Il nostro modo di pensare, le preoccupazioni e le speranze, quello che
accadeva intorno, quello che accadeva dentro, diventavano completamente diversi. Di quello che c’era non rimaneva quasi
niente. Se non Sanremo. Al festival sono stati alzati altari e poi quegli
altari sono stati abbattuti. E’ stato assunto a simbolo della retorica,
dell’ipocrisia, della pruderie perbenista, dell’Italia qualunquista,
disimpegnata, piccolo borghese. E’ stato caricato di significati ideologici che
non aveva e non voleva avere. Forse Sanremo voleva solo cantare. Non voleva
fare altro che cantare. Nel Duemiladodici, sul Corriere della Sera, Aldo Grasso
scrisse che Sanremo è una grande
festa sgangherata e insieme una fiction che ogni anno racconta lo stato di
salute del Paese, senza l’ambizione di rispecchiarlo. È una memoria che tutte
le volte celebra il suo perpetuarsi. Avere paura del Festival di Sanremo
significa avere paura della propria ombra: ombra di un rito fondativo, di una
canterina sventatezza nazionale, di una coscienza identitaria. Se, pur fra
mille polemiche, Sanremo resiste, qualcosa significherà pure.
Sanremo resisteva anche alle tragedie.
Nella notte tra il 26 e il 27 di gennaio del Sessantasette, dalla stanza 219 dell’hotel Savoy di Sanremo, si alzò l’urlo silenzioso di Luigi Tenco.
Un colpo alla tempia e un biglietto incastrato nella cornice dello specchio del camerino sul quale c’erano scritte queste parole: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda in finale “Io, tu e le rose” e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
Così il festival si ritrovò con un morto che proprio non ci voleva fra tutti quei fiori.
Pochi capiscono quel messaggio.
Uno dei pochi che penetra il significato del gesto è Salvatore Quasimodo, il quale pochi giorni dopo sostiene che Tenco ha voluto colpire a morte il sonno mentale dell’italiano medio.
Ma l’italiano medio si strinse nelle spalle. Non poteva farci niente.
Ancora Quasimodo: “La sua ribellione, però, ha ancora una volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza ad una canzone, non può capire il significato di una morte”.
La statura di Tenco si scopre dopo la morte. Accade sempre così.
In Italia diventa uno dei simboli degli anni Sessanta, insieme ai Beatles, Kennedy e Luther King.
Al suo funerale, a Ricaldone, dal festival, dalla città dei fiori, non arrivò neppure un fiore. Dei cantanti c’erano soltanto Fabrizio De Andrè e Michele.
L’anno dopo, un giornale chiese a De Andrè di commentare il festival. Il pigro Fabrizio protestò, sostenne di non esserne capace, poi si lasciò convincere da Cesare G. Romana. In uno dei tre pezzi scrisse che Sanremo era l’ultima deriva degli antichi giochi gladiatori, dove dei proletari si sventravano a vicenda per divertire la plebe e l’imperatore.
Molte cose cominciavano, cambiavano, finivano mentre il festival restava identico a se stesso. Come una figura sulla facciata di una chiesa barocca. Bella o brutta secondo il gusto di chi la guarda. Immobile, indifferente a tutto quello che accade e che passa. Bella o brutta, ma alla quale comunque si rivolge uno sguardo, con la consapevolezza che si tratta di qualcosa che appartiene al passato, che non vuol dire in alcun modo che poi sia necessariamente peggiore di qualcosa che appartiene al presente.
Forse si potrebbe anche pensare che il festival non ha mai voluto essere attuale. Forse ha sempre voluto essere soltanto una grande evasione, come dice il titolo di un libro di Gianni Borgna.
Sanremo cantava. Era questa la sua funzione. Anche nei termini di una contraddizione rispetto ai contenuti e agli scenari sociali. Una coerente contraddizione. Ha vissuto cinquant’anni di Novecento, di quel secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, fatto di bonacce e di tempeste, che ha entusiasmato e spaventato, poi è entrato nel secolo che corre, che sembra poggiare su di un terreno in continuo smottamento, senza lasciarsi accarezzare da nessuna interferenza.
Sanremo cantava. Perché è questa la sua funzione. (Nell’Ottantaquattro, duemila operai dell’Italsider di Genova si radunano davanti all’Ariston per protesta contro un piano di licenziamenti. Pippo Baudo ne invita sedici sul palco e uno di loro legge un comunicato. Applausi. Probabilmente i più sinceri di tutto il festival.)
Sanremo Cantava. Guardava ogni cosa che arrivava e si diceva: anche questa passerà, e quella passava, e il festival continuava a cantare i suoi malinconici amori.
Ma probabilmente la salvezza del festival è stata proprio il disimpegno, che lo ha tenuto al riparo da qualsiasi turbolenza. Ha voluto concedere all’eroico italiano medio la soddisfazione di mettersi in poltrona, stendere le gambe e ascoltare le canzoni fino all’assopimento. (Al principio degli anni Sessanta, nei piccoli paesi, il televisore era uno soltanto in tutta la via, e ci si raccoglieva in quella casa, con le ragazzine incantate dai cantanti e i bambini seduti a terra tutti avanti, con le gambe incrociate e gli occhi sgranati.)
Non voleva e non vuole essere attuale, Sanremo. Voleva e vuole essere una contraddizione della storia. Quello che succede fino all’istante in cui si accendono le luci, appartiene ad un altro universo ribollente. Però, chissà se l’eroico italiano medio, quell’italiano che ha fatto l’Italia e che continua a farla ancora adesso, non abbia proprio desiderio del disimpegno, per qualche ora di qualche giorno l’anno.
La messa in scena del disimpegno, probabilmente soddisfa un desiderio meravigliosamente umano, antico e consapevole: il desiderio della tranquillità. Semplice. Domestica. Quotidiana. Che a volte rassomiglia alla felicità.
Perché quell’eroico italiano medio, il mondo che c’è se lo sente ogni minuto dentro, addosso, e a volte ha l’impressione che lo sovrasti, che non lo faccia respirare. L’eroico italiano medio vuole la tranquillità di Sanremo a dispetto di certa presunzione intellettuale che intende ricondurre tutto in una dimensione rigorosamente razionale, coerente, coesa.
A volte può anche fare comodo – certo, banalmente comodo – una contraddizione. Come quella di Sanremo. Che se ne frega di cosa accade nel mondo vicino e lontano, e continua con le sue canzoni, con i sorrisi fatti a forza, con il suo essere fuori dalla Storia. Così riesce a svagare, riesce a spensierare l’eroico italiano medio che tutto il giorno si sbatte e si risbatte per portare il pane a casa. Ma anche per mantenere in piedi quest’Italia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 8 dicembre 2024]