Peculiarità di Roma è che essa viene di nuovo fondata ogni volta che menti dagli sguardi avidi di bellezza la guardano. Menti accese di pensiero quelle di Mario Mafai e di Antonietta Raphael e di Scipione, vedevano Roma e la violenza incombente, Roma e l’orlo commosso delle demolizioni.
Scipione scriveva che
il giorno è andato lontano
e io mi sento un uomo di grande statura:
non c’è ombra attorno al mio corpo,
io vedo i monti, io sento il fiume.
Se una femmina cantasse…
Gli odori colpiscono le narici,
le mani s’alzano a cercare
per toccare le cose create.
Fiammeggiavano le cose create, poteva essere una sirena in esilio sul fondo oceanico dell’aria canicolare la femmina dalla voce materica come l’argilla e l’artista giganteggiava nell’estate inarcata sopra la campagna romana.
La terra è secca, ha sete
e si spezza.
Sui labbri dei crepacci
le lucertole arroventate
corrono in fiamme.
Le stelle cadono accese
per bruciare il mondo,
ma nessuno tende le mani per abbracciarle
e si smorzano,
tuffandosi nel buio
aggiunse nel suo taccuino. Poi nella notte densa di menta selvatica al Portico d’Ottavia il fantasma di Catullo, quel beffardo giovinastro rosso di capelli, graffiò con un coccio d’orcio sberleffi contro Cesare, ma le camicie nere, ubriache di pessimo vino, non videro nulla.
E divorava la vita il giovane Scipione respirandola con la bocca, usando l’anima come fosse una tela, disegnandosi sui polsi accelerati dall’emozione di vivere i nomi degli amici, ben sapendo che non bastano i giorni, né gli anni (in un soffio già passati e c’è ancora così tanto da scrivere, da dipingere); Antonietta e Mario leggevano Breton ed Éluard, compivano sopralluoghi nei cantieri dove il regime sventrava e abbatteva vecchi edifici per far posto al Nuovo Ambiguo, al Propagandato Nuovo, al Magnifico e Progressivo.