Epitafio per sé stesso
Molto lontano mi trovo dalla terra
d’Italia e da Taranto, mia patria –
cosa per me più amara della morte.
Così è la vita non-vita dei profughi – ma le Muse
mi amarono e in cambio delle mie sventure
posseggo la dolcezza del miele.
Il nome di Leonida non è morto: proprio i doni
delle Muse mi dànno fama un giorno dopo l’altro.
Povertà di Leonida
Fuggite dal mio tugurio, topi notturni: la misera
madia di Leonida non sa nutrire neppure un ratto.
Un vecchio basta a sé stesso se ha sale e due pani d’orzo
(questo vivere imparai dai padri).
Perché scavi in quest’angolo, ghiottone,
visto che non troverai neppure gli avanzi del mio pasto?
Vattene in casa d’altri (povere cose le mie)
dove ti procurerai più abbondanti provviste!
Fragilità
Infinito fu il tempo, uomo, prima che tu venissi
alla luce – infinito quello dell’Ade.
Quale parte di vita ti spetta o uguale
a un punto e (se ci fosse) ancora più piccola di un punto?
Breve la tua vita e limitata, né
dolce, ma più triste dell’orrenda morte.
Da una simile impalcatura d’ossa gli umani
tentano di sollevarsi nell’aria, tra le nubi –
uomo, sai che tutto è vano poiché alla fine del filo
un verme, vivendo, divora la non tessuta tela.
Simile a membrana sottilissima, fragilissima,
sei più orribile dello scheletro d’un ragno.
Giorno dopo giorno cercando forza, o uomo,
sforzati di vivere nella semplicità,
ricordando sempre, finché avrai commercio
con i viventi, di quali fuscelli sei fatto.
Tomba di Tharsys
Giaccio sepolto e in mare e sulla terra: destino singolare
voluta dalle Moire s’ebbe Tharsys figlio di Carmide.
Infatti m’ero gettato nello Ionio in cerca dell’àncora pesante
e scendendo nell’acqua l’avevo recuperata.
Ma risalendo dall’abisso a metà
(già allungando le mani agli altri marinai)
fui divorato: un mostro marino orribile enorme
venne, mi mangiò fino all’ombelico.
I marinai sollevarono, gelido peso, una metà di me,
una metà la portò via il pescecane.
O tu che passi, su questa spiaggia seppellirono
i miseri resti di Tharsys: non tornai mai più in patria.
La filatrice Plattide
Spesso scacciava il sonno serale e quello mattutino
l’anziana Plattide per difendersi dalla povertà:
e alla conocchia e al fuso suo compagno di mestiere
cantava, sulla soglia della vecchiezza
– e appresso al telaio fino all’aurora percorreva,
insieme con le Grazie, il lungo sentiero di Atena.
Con mano rugosa sopra il ginocchio rugoso
dipanava, amabile, la trama del tessuto.
Ottantenne vide l’Acheronte
la bella Plattide che così bene aveva tessuto.
Tomba di Ipponatte
Passate in silenzio oltre la mia tomba per non svegliare
la vespa pungente che riposa nel sonno.
L’ira d’Ipponatte che osò scatenarsi contro i genitori,
quell’ira ora dorme in pace.
Ma fate attenzione: le infuocate parole
di lui potrebbero divampare anche nell’Ade.
Offerta votiva
Fresca acqua che scorri dalla roccia spaccata,
salve! e voi, statuette pastorali delle Ninfe e voi,
conche delle fonti! e salve, o fanciulle, alle vostre
immagini spruzzate d’acqua –
io Aristocle, viandante, vi offro
questo corno che immersi per dissetarmi.
Tempo di primavera
Il tempo è bello: e infatti già stride la rondine,
Zefiro soffia propizio;
i prati fioriscono, tace il mare (non schiuma più,
né s’ode il rombo dei venti).
Leva l’àncora e sciogli le gomene,
o marinaio, e naviga a vele spiegate.
Questo ti ordino io, Priapo, dio dei porti:
mettiti in mare, dirigiti verso ogni emporio.