Come è noto, la paura della sostituzione etnica viene alimentata dalla tesi secondo la quale gli immigrati sottraggono occasioni di lavoro ai nativi. Si tratta di un effetto esistente, ma marginale, perché riguarda solo quel segmento del mercato del lavoro nel quale le competenze richieste sono eccezionalmente basse e associate al lavoro manuale o di cura. Si stima che l’occupazione immigrata extracomunitaria con contratti di lavoro regolari è occupata per circa il 20% in agricoltura e per oltre il 60% nel comparto dei servizi alle famiglie, a fronte del fatto che la forza-lavoro nativa ha tassi di scolarizzazione mediamente più alti, che la rende non candidata a queste mansioni, e che tende a utilizzate all’estero le sue competenze. Gli immigrati extracomunitari potrebbero concorrere con i nativi per qualifiche più alte se il riconoscimento dei loro titoli di studio acquisiti nei Paesi d’origine non fosse complicato da una normativa ipertrofica. Inoltre, nel caso italiano, l’effetto di sostituzione degli immigrati rispetto ai nativi è reso ancora meno rilevante dal fatto che il nostro Paese è, fra quelli europei, quello che accoglie meno immigrati in rapporto alla popolazione residente.
L’approccio securitario e repressivo della gestione dei flussi migratori è miope e contraddittorio. È miope dal momento che non tiene conto dell’inevitabilità degli spostamenti di masse dal Sud al Nord del pianeta. L’inevitabilità deriva fondamentalmente dai processi di crescente impoverimento delle aree periferiche del capitalismo e crescente relativo arricchimento dei Paesi ricchi, che dipendono dal modo in cui si sono storicamente strutturate le relazioni commerciali fra le due macro-aree. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che, come documentato da un’ampia letteratura nell’ambito dell’economia dello sviluppo, i rapporti di scambio fra centri e periferie si svolgono, per l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, in modo tale da produrre benefici crescenti e cumulativi nel tempo ai primi.
Tre sono i meccanismi che alimentano queste spirali perverse. In primo luogo, lo scambio ineguale si realizza perché i beni esportati dai Paesi poveri – prevalentemente materie prime e beni agricoli prodotti in regime di concorrenza – hanno prezzi sistematicamente più bassi di quelli dei beni industriali prodotti in regime di oligopolio o monopolio che importano. Ciò dà luogo all’inevitabile deterioramento delle ragioni di scambio a danno dei Paesi poveri e periferici e a rapporti di dipendenza. In secondo luogo, data l’ampia disponibilità di manodopera nei Paesi poveri, sono bassi i salari, bassi i costi di produzione e relativamente bassi i prezzi dei beni esportati rispetto a quelli dei beni importati, i cui costi di produzione sono determinati dai salari più alti che percepiscono i lavoratori dei Paesi più ricchi. In terzo luogo, le aree periferiche sono luoghi di decentramento produttivo (si pensi alla filiera agroalimentare e a quella del lusso) e, in quelle aree, la produzione per conto terzi si esercita, di norma, nella totale assenza di regolamentazione del mercato del lavoro. La globalizzazione – come mostra un’ampia evidenza empirica – e, dunque, l’apertura agli scambi internazionali anche da parte dei Paesi poveri, dall’inizio degli anni Novanta a oggi ha considerevolmente aumentato la povertà dei Paesi africani. I Millennium Development Goals, programma delle Nazioni Unite del 2000 per sradicare la povertà assoluta su scala globale entro il 2015, si sono rivelati in larga misura fallimentari, dal momento che il numero di residenti di quelle aree che vive in condizioni di povertà estreme è aumentato da 273 a 413 milioni fra il 1990 e il 2015. Si calcola che la povertà assoluta nel mondo, nella fase della globalizzazione avviatasi a partire dagli anni Novanta, è aumentata, se si esclude dal calcolo l’eccezionale crescita economica della Cina nel periodo considerato (l’inclusione della Cina nel calcolo della diffusione della povertà estrema mondiale tiene statisticamente elevati i valori medi del reddito pro capite mondiale per effetto del fatto che in quel Paese risiede circa il 18% dell’intera popolazione mondiale: (https://www.project-syndicate.org/…/african-poverty…).
L’esperienza storica insegna che non c’è molto da confidare nella concessione di aiuti ai Paesi poveri, se l’obiettivo è spezzare i rapporti di dipendenza fra questi e i Paesi maggiormente sviluppati. In molti casi, infatti, i trasferimenti monetari dai Paesi ricchi ai Paesi poveri vengono gestiti alle classi dirigenti di questi ultimi che li usano per consumi opulenti, imitando gli stili di vita delle classi agiate dei primi. Inoltre, le risorse stanziate per questo obiettivo sono irrisorie, se si considera il caso italiano: il “Piano Mattei”, rinnovato nel 2024, stanzia solo 5.5 miliardi per interventi nei Paesi africani, non aggiuntivi, ma detratti dal fondo per il clima. Le misure securitarie di questo Governo generano costi rilevanti a carico del bilancio pubblico. Si stima, a riguardo, che il costo annuo a carico delle finanze pubbliche derivanti dal complesso delle misure di repressione e di contrasto all’immigrazione extra-comunitaria è aumentato dagli 840 milioni di euro del 2011 ai circa 5 miliardi attuali (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Effetti…). Una politica di integrazione produrrebbe almeno due benefici macroeconomici, nelle condizioni date: renderebbe maggiormente sostenibile il sistema pensionistico (a condizione che l’occupazione degli extra-comunitari sia regolare e che il Governo potenzi l’ispettorato del lavoro) e attenuerebbe il problema della carenza di personale per le imprese italiane. Incidentalmente, si può osservare che quest’ultimo problema potrebbe essere alleviato aumentando i salari e agendo sulla struttura produttiva per orientare la domanda di lavoro verso occupazioni con maggiore qualificazione, limitando le emigrazioni di giovani laureati dal Sud al Nord del Paese e dall’Italia all’estero.
Quando la paura dell’immigrato spinge il Governo a traghettare in Albania sette immigrati, sostenendo una spesa esorbitante rispetto a un risultato irrilevante se non controproducente, l’analisi economica cessa di esprimersi e la parola passa alla psichiatria.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 3 dicembre 2024]