Intervista a Pupi Avati: la mia pace parlare con i morti

di Adele Errico

Nell’ultimo romanzo di Pupi Avati, “L’orto americano” (Solferino 2024), la vicenda ha inizio da uno sguardo nella bottega di un barbiere. Un giovane che sogna di diventare scrittore incrocia lo sguardo di un’ausiliaria americana. “Archetipo di tutti gli sguardi”, quello che fa innamorare. “Così comincia l’amore di un ventenne nella Bologna appena liberata dagli alleati”. Con addosso le voci dei morti che non lo abbandonano mai, l’aspirante scrittore, pochi anni dopo quello sguardo, partirà per l’America e la sua avventura si intingerà dei colori del gotico.

Come accade con il suo ultimo film, “L’orto americano”, ha spesso legato la scrittura di un romanzo alla produzione cinematografica. Qual è, nel suo lavoro, il rapporto tra scrittura e cinema?

Credo che sia un passaggio logico perché in realtà tutto il cinema narrativo che faccio parte da un racconto. Voglio che assomigli a qualcosa che dovrebbe avere un’origine orale e non scritta, qualcosa che possa essere raccontato come una favola. Nella scrittura è possibile indugiare su aspetti che nel film verranno solo dedotti e non scritti, i pensieri dei personaggi ad esempio. Scrivere un romanzo significa avere la possibilità di dilatare il racconto anche oltre i limiti del budget, che non sempre consente di mettere in scena quanto scritto: il cinema si confronta continuamente col denaro, invece la scrittura non ha budget, è la fantasia che la alimenta. Il potere di disporre di un romanzo da poter consegnare agli interpreti e a tutti coloro che collaborano alla produzione di un film mi esenta dal dover spiegare troppo, perché il romanzo contiene tutto quello che la sceneggiatura non può contenere e l’interprete ha a disposizione tutte le informazioni di cui ha bisogno. C’è qualcosa che va oltre.

Nell’orto americano c’è una vecchia madre. Mi viene in mente l’ultimo ricordo che John Fante diceva di avere della propria, ovvero “il ciabattare di mia madre verso la cucina”. Che ricordo ha di sua madre? Qual è l’immagine di lei che ricorre più spesso nella sua memoria?

L’ultima immagine che mia madre mi ha lasciato appartiene, probabilmente, alla volontà di stigmatizzare se stessa. Mia madre stava soffrendo molto, era malata. L’avevano dimessa definendola guarita, eppure continuava a soffrire. Ed era arrabbiata, perché aveva la convinzione di morire. Si intuiva dal fatto che era rancorosa perché sapeva che se ne sarebbe andata. Allora la ricordo così: io ero seduto su una poltrona di fronte a lei e le tenevo braccia e mani. Lei si è assopita e poi si è svegliata all’improvviso, mi ha guardato e mi ha fatto un sorriso che mi ha totalmente tranquillizzato. Poi ha chiuso gli occhi ed è morta. Era come se volesse riservare a me solo quel sorriso, in quell’ultimo istante. Voleva che io la ricordassi così.

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