Dopo quella volta smise di sognare la maturità, le maschere, quell’uomo che gli ripeteva Pirandello sono io.
Dopo quella volta si sentì finalmente diplomato.
La storia degli esami di maturità comincia da lontano, da più di un secolo fa. Dal Regio decreto 1054 del 1923, che tutti conoscono come la Riforma Gentile. Quella riforma del filosofo ministro stabiliva che all’ultimo anno del liceo classico e del liceo scientifico si sostenessero esami di maturità. Dopo quegli esami, chi aveva frequentato il classico poteva iscriversi a qualsiasi facoltà, chi aveva fatto lo scientifico soltanto alla facoltà di scienze e di medicina.
Molti sognano la maturità, anche a distanza di anni. Tanti altri ci ritornano spesso con il pensiero, anche senza un motivo, un consapevole riferimento. Perché è un’esperienza che resta dentro e che riaffiora come memoria a volte dolce, a volte amara, a volte dolceamara. Resta dentro, ora come allora. Perché rappresenta una soglia, un confine, un passaggio da una condizione esistenziale ad un’altra, dall’adolescenza matura alla giovinezza ancora acerba.
Cambiano i tempi e le generazioni, però le ansie sono sempre quelle, restano gli stessi batticuori, i sudori caldi che si mescolano coi freddi. Resta l’inquietudine, l’insonnia di certe notti affollate di immaginarie fisionomie di commissari; restano gli interrogativi sugli argomenti delle prove scritte, il rovello di formulare ipotesi, il travaglio che viene da ogni situazione d’incognita, d’incertezza.
Anche se talvolta si simulano indifferenze, si ostenta qualche falsa noncuranza, per quella straordinaria leggerezza che la gioventù regala. Non si chiama più maturità, ed è giusto. Si chiama esame di Stato.
Che arriva e passa.
Si cresce nel tempo di un’estate. All’improvviso maturano pensieri mai comparsi prima. Quei compagni, quelle compagne, con cui si è vissuto per cinque anni, con i quali si credeva che si fossero creati vincoli indissolubili, si trasformano lentamente in tenere figure della memoria.
Un giorno li incontri per caso e non li riconosci, e non ti riconoscono. Hanno capelli bianchi o non ne hanno, hanno le rughe sul volto un po’ stanco, sono ingrassati. Però li guardi, ti guardano, come se dietro di loro, dietro di te, ci fosse l’ombra di un’altra figura che ricordi bene, che loro ricordano bene, così ti avvicini, si avvicinano, ci si chiede …per caso tu sei… e si pronuncia un nome, e allora si risponde di sì…per caso io sono …, proprio per caso io sono, e l’ombra sostituisce la persona, polverizza tutti gli anni che sono passati.
I compagni di scuola. Quelli con cui hai condiviso ansie e panini con la mortadella e la provola, compiti copiati, la gita dell’ultimo anno senza dormire neppure un minuto, le interrogazioni disperate, i veglioni di carnevale, e poi c’è lei di cui eri innamorato che ti sembrava d’impazzire se un giorno l’influenza la teneva in casa, che era innamorata di te e ti passava i bigliettini durante l’ora di matematica o di latino, c’è lei con i capelli di un altro colore e le occhiaie ingannate con la cipria, con tutta la sua vita che va così e così, esattamente come la tua che va così e così, che avresti potuto riconoscerla anche in mezzo a una folla di facce tutte uguali se soltanto avessi guardato i suoi occhi. Quegli occhi che hanno brillato nel tuo ricordo per tutti questi anni.
I compagni di scuola. Quelli che erano geniali e quelli che tiravano il cinque a fatica. Quelli che hanno vinto tutto e quelli che non hanno vinto niente. Quelli che sono arrivati e quelli che non sono neanche partiti, e quegli altri, quelli che si sono fermati proprio quando la strada sembrava che non fosse in salita.
Li guardi e si trasformano in uno specchio in cui ti vedi come sei stato e come sei. A volte quello che sei rassomiglia straordinariamente a quello che sei stato. A volte non rassomiglia per niente.
I compagni di scuola. Quelli con cui ci si dice ho sentito parlare spesso di te in questi anni, ho chiesto di te a quello e a quell’altro, te lo ricordi quello? Te lo ricordi quell’altro?, non hai idea di com’è cambiato, e allora tu pensi che anche tu sei cambiato e non te ne sei accorto, che anche di te hanno detto non hai idea di come è cambiato.
I compagni di scuola. Quelli simpatici, quelli antipatici, che sono rimasti proprio com’erano, quelli che erano umili, quelli che se la tiravano, quelli tutti firmati, quelli che usavano le robe del fratello più grande, quelli che si facevano a pezzi per passarti la versione e che adesso fanno volontariato, quelli che non te la passavano nemmeno a pregarli in ginocchio e che adesso non prestano la macchina ai figli.
Forse il tempo ci cambia fuori. Dentro, no. Forse, dentro, si resta esattamente come si è stati. L’ombra che abbiamo dietro le spalle è un’identità. E’ proprio in una classe di scuola che uno diventa come sarà. E’ proprio in una classe di scuola che si profila il destino.
Si chiama esame di Stato. La maturità è tutta un’altra storia, arriva con esami completamente diversi. Qualche volta arriva che si è ancora bambini; qualche volta non arriva nemmeno quando si è vecchi. Non bastano le prove scritte e il colloquio; si affrontano prove innumerevoli, minuto per minuto, oppure una prova sola, in un minuto solo che vale tutta la vita. Non c’è una commissione a giudicare. Si deve giudicare se stessi, da soli con se stessi. Non si può inventare niente, non si possono fingere dimenticanze, meno che mai si può sperare che arrivi la brezza di un suggerimento. Forse, in qualche circostanza, si può improvvisare. Ma bisogna conoscere bene il gioco, la parte che si recita.
Poi, quando quell’esperienza si conclude, vengono istanti di felicità, qualcuno sente un dolore, come accade sempre in ogni tempo della vita. Si va oltre quell’età, oltre i primi amori, i primi turbamenti, gli astratti furori, oltre quelle passioni che induriscono le ossa e inteneriscono il cuore. Si diventa un po’ più uomini, un po’ più donne. Dopo quell’età, quelle che vengono passano più in fretta. Molto più in fretta.
Poi, quando si sta per salutarsi, uno dice: te lo ricordi cosa diceva la Iaffei dopo che aveva messo due meno meno alla versione? L’altro dice sì che me lo ricordo. Diceva quella cosa di Virgilio: Forsan et haec olim meminisse iuvabit. Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 1 dicembre 2024]