di Antonio Errico
Quando raccontava questa storia aveva quarant’anni. Da ventidue sognava con una frequenza costante, quasi una volta al mese, quel tema da fare su Pirandello e i significati delle sue maschere. Che cosa significassero le maschere per Pirandello lui l’aveva studiato, lo sapeva bene. Però se ne stava lì, con lo sguardo sprofondato nel vuoto del deserto sterminato e bianco del foglio a righe, mentre una folla di maschere prendevano forma nella sua testa, e tra quelle maschere c’era il suo volto: dilatato, deformato, come in un dipinto di James Ensor.
Davanti a lui, dietro di lui, accanto a lui, gli altri scrivevano, scrivevano, senza alzare la testa dal banco, e ogni tanto, nel sogno, chiedevano un foglio, ancora un altro foglio, e poi un altro, e i fogli cadevano per terra, si accumulavano tra le due file di banchi e poi un uomo si alzava da una cattedra all’inizio del corridoio, del corridoio lungo e stretto, del corridoio senza una finestra, un uomo stempiato, con il pizzo grigio, si alzava dalla cattedra e si avvicinava al suo banco, gli diceva Pirandello sono io, perché non scrivi, guardami, perché non scrivi, Pirandello sono io.
A quel punto si svegliava, con il respiro affannoso, madido di sudore.
Una mattina, dopo aver fatto il sogno, si alzò, telefonò in amministrazione, prese un giorno di ferie, uscì, dal tabaccaio comprò sei fogli usobollo, tornò a casa, si mise alla scrivania. In testa al foglio scrisse: Pirandello e i significati delle sue maschere.
Cominciò a scrivere. In sei ore precise fece il tema. Otto facciate, un rigo sì e uno no, direttamente in bella. Uno spettacolo di tema.