Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Sull’imperfezione della natura umana si fonda questa antica leggenda, che assume a tratti il sapore di certe favole, che nascondono grandi verità.

Alla nostra amata nonna Anna, che ce la raccontava in un dialetto incrociato galatino-soglianese, l’aveva raccontata, in un vernacolo molto arcaico (del quale, personalmente, ricordo soltanto il curioso vocabolo muccaluru, ossia fazzoletto) il vecchissimo ziu Dunatu, il quale, a sua volta, l’aveva acquisita da un compagno d’armi durante il servizio militare. Leggiamola insieme.

Seduto alla Porta della città di Otranto, ai tempi lontani della sua potenza di capitale del Salento, c’era un mendicante cieco, che viveva di carità, ed aveva fama di essere  un grande sapiente. Un giorno gli si avvicinò un giovane, che gli diede una moneta, e gli domandò: «Vengo da lontano, e vorrei stabilirmi qui. Tu che nulla vedi ma tutto sai, puoi dirmi come sono le persone di questa città?». «Com’erano le persone del luogo che hai lasciato?», gli chiese, a sua volta, il cieco. «Egoiste, prepotenti e cattive – rispose il giovane – E per questo motivo, sono contento di essermene andato via da lì».

«Allo stesso modo sono gli abitanti di questo luogo», sentenziò il mendicante. E il giovane, pur pensieroso, entrò comunque a Otranto di buon passo.

Poco dopo arrivò un altro giovane, fece anch’egli la carità di una moneta al mendicante, e gli pose la stessa domanda: «Non sono mai stato qui: puoi dirmi come sono le persone di questa città?». E l’uomo rifece la solita domanda: «Com’erano le persone del luogo che hai lasciato?». «Cordiali, generose, oneste e di buon umore – rispose il giovane – E ho fatto molta fatica ad andarmene da lì».

«Allo stesso modo sono gli abitanti di questo luogo», sentenziò nuovamente il mendico. E anche il secondo giovane entrò a Otranto di buon passo.

«E no! – borbottò un contadino, intento a zappare il suo piccolo orto, ma che aveva seguito entrambe le conversazioni, rimproverando il cieco – Come puoi dare due risposte del tutto differenti e opposte alla stessa domanda che ti hanno posto quei due giovani?».

«Ognuno porta nel proprio cuore ciò che egli stesso è – commentò il vecchio -. Chi non ha trovato nulla di buono in passato, non lo troverà neanche qui da noi. E chi, invece, aveva amici fedeli e leali nel posto che ha lasciato, li troverà certamente anche qui. Un po’ come quel proverbio che dice: “Paru cerca paru, e paru pija”».

Ci sono leggende che non sono ancora nate. O forse dormono ancora il loro sonno quieto fra le mura dei castelli, delle chiese, o nel silenzio delle torri assediate dai  misteri, o negli aviti palazzi di principi e baroni… Sicché, può succedere, come a me è accaduto, di sentir parlare di un misterioso Palazzo del Muto a Galatina, la mia città, del quale racconterò la storia, che ancora non conosco: una storia inverosimile, forse sognata, forse inventata, attinta alle sorgenti della fantasia.

Quello che la storia dice è che nell’antica città di San Pietro in Galatina, in un solenne Palazzo di epoca tardo-cinquecentesca, ancora oggi ammirabile nella via Umberto I che dalla Torre dell’Orologio porta fino alla gloriosa Basilica di santa Caterina d’Alessandria, visse anche, nella prima metà del Settecento, Giuseppe Maria il Muto, rampollo della gentilizia famiglia Gorgoni, che annoverò importanti personaggi, fra cui il letterato Angelo, gli avvocati Filippo e Giustiniano, e Agostino Tommaso, che fu vescovo di Castro alla fine del XVIII secolo.

È certo che mio nonno paterno Paolino, e i suoi fratelli Donato e Leonardo, conoscessero la famiglia Gorgoni. Come anche mio padre, e soprattutto zio Nino, il mio idolo sportivo per i suoi trascorsi di eroico portiere di calcio della Pro Italia fra gli anni ’20 e ’30, nonché artefice della gloriosa Casa del Cacciatore, in Corso Re d’Italia, sede informale e feconda di un ‘cenacolo’ intellettuale di belli spiriti, amanti anche del gioco della dama e degli scacchi.

Forse è proprio lì che ho ascoltato questa storia per la prima volta.

Con immaginabile angoscia della famiglia Gorgoni di cui si racconta, il piccolo Giuseppe Maria nacque sordomuto. Si dice, però, che per sua stessa puntigliosa volontà, stimolata e sorretta dalle cure e sperimentazioni dei medici di famiglia, quand’era un giovanetto di tredici anni, fosse riuscito ad articolare con una certa frequenza alcune parole chiaramente comprensibili, fin quasi ad esprimersi del tutto con brevi frasi di senso compiuto. Tanto che di notte, dalla porta della sua camera, non era raro percepire un misterioso chiacchiericcio, come se il Muto parlasse davvero con qualcuno.

Proprio zio Nino, in gran segreto, un giorno mi confidò che il ragazzo si era innamorato di una Fata bellissima, vestita di fiori come la Primavera del Botticelli, che andava a trovarlo in sogno tutte le notti, conversando con reciproca gioia. A patto, però, che egli non avrebbe dovuto mai rivelare a nessuno di quelle visite, pena la fine dell’incantesimo.

Così, per evitare di tradirsi, Giuseppe Maria di giorno non proferiva parola con nessuno, mentre di notte si dice che fosse arrivato perfino a declamare alla sua bellissima Fata alcune deliziose poesie, di propria produzione. Quando l’amore può tutto.

In una delle masserie-castello più grandi e antiche dell’agro di Taranto, sulla via Appia, quasi alle porte della Città dei due mari, si dice che in pieno inverno non sia raro intravvedere una figura di giovane donna su per le scale che portano alla torre di vedetta, per poi passeggiare fino all’alba intorno alle mura, avvolta da lievi musiche e canti.

La fanciulla non ha mai avuto un nome. O, per meglio dire, ne ha fin troppi. Ognuno, infatti, la chiama come più gradisce. I nomi più ricorrenti sono Aurora, Vanessa, Rebecca, Veronica, e più di tutti l’esotico Fatima, trattandosi di una principessa mora, rimasta all’età di dodici anni senza genitori e senza regno, dopo una sanguinosa rivolta nel suo paese.

Agli inizi dell’anno 1500, il vecchio conte Ludovico, nobile proprietario della masseria, ebbe modo di barattarla in Tunisia, al mercato degli schiavi, in cambio di tre barili d’olio e tre di vino. Aveva dieci figli, il conte: tutti maschi, e aveva ‘comprato’ quella principessina per dare alla moglie la desiderata femminuccia che non aveva avuto la gioia di partorire.

Fatima – la chiameremo anche noi così -, con la sua grazia, il portamento, la fierezza dello sguardo, e un senso gioioso di libertà, aveva presto innamorato tutti. E più di tutti il coetaneo Ferdinandino, ultimogenito della devotissima signora di casa donna Matilde, avviato alla carriera religiosa nel Seminario di Lecce.

Specialmente d’estate, quando Ferdinandino ritornava per le vacanze, i due fanciulli giocavano sempre insieme, e facevano lunghe corse a sfinirsi fra i campi di ulivi e di vigne: un paradiso terrestre, che dividevano spesso con Bracco, il cane del massaro, quand’era libero dagli impegni di caccia col padrone.

Avevano sedici anni quando Ferdinandino le diede il primo bacio. Sfiniti dall’ennesima corsa, s’erano sdraiati al fresco sotto il carrubo grande, e gli occhi di lei brillavano tanto da trapassare il fogliame e gareggiare col sole. Poi aveva ‘sentito’ lo sguardo e il desiderio di Ferdinandino, e con sorridente naturalezza s’era voltata verso di lui.

Così, da allora, ogni corsa finiva sotto il carrubo grande.

L’inverno fu freddo e piovoso più del solito, quell’anno. E forse, proprio per questo, sul finire di febbraio, Ferdinandino fu richiamato a casa dal seminario.

Per la prima volta, giungendo in carrozza alla masseria, non trovò nessuno ad accoglierlo. Neanche Bracco, che sempre gli correva incontro per primo. 

Accompagnato dal cocchiere, il giovane traversò a passo svelto il cortile, e finalmente entrò in casa. Vide che erano tutti in piedi nella sala grande, avvolti in un brusio di preghiera. Al centro, su un letto alto circondato di fiori, la principessa Fatima giaceva immobile, e sembrava sorridere.

Forse sognava di essere distesa sotto il carrubo grande. Forse ‘sentiva’ che il suo Ferdinandino la stava ancora baciando. Forse sperava che quell’ attacco furioso e maligno di febbre malarica sarebbe stato superato, e che i bravi cerusici e i medici sapienti sarebbero riusciti a salvarla dal freddo abbraccio della Signora vestita di nero.

Forse.

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