Barocco leccese (quattro prose)

GIUSEPPE CINO

«Mi ricorderanno per pozzi conformati a leggiadro cestino di frutta (come dargli torto?)

Il mio barocco era però gioco a nascondere.

Mai lo dissi al Capitolo che approvava i progetti, naturalmente, ma dietro le ghirlande di pietra scalpellata c’è il silenzio di Dio. Proprio dietro la facciata del Seminario c’è il silenzio di Dio. Nel pozzo al centro del cortile c’è quel silenzio.

Dio tace il proprio silenzio. Tacendo egli piange e io, l’ultimo degli architetti, ne ascolto le lacrime.

Volute e riccioli di pietra nascondono il volto muto di chi ha smesso di parlare; il volo dei cherubini di tufo mente, mente il rigoglio del fogliame di pietra.

L’orgoglio della città è teatro di cartapesta.

A sera mi basta una minestra d’orzo e i miei disegni (che presto distruggerò) raffigurano nicchie vuote».

GIUSEPPE ZÍMBALO

Ma il guscio di mattoni e imposte tremola nell’aria trasparente della scrittura – addensatisi gli anni su scrittoi e cappelliere.

Rimasta lei, ultima doganiera che non chiede ma paga il pedaggio della memoria barocca, lei città di pietra e d’immaginazione sollecita stretta attorno alla casa dello Zímbalo dove i progetti arrotolàti e classificati con ordine baluginano carta e inchiostri tra i quali ripercorrere gli spazi orchestrati del divenire.

GIUSEPPE CINO

Ti sottrai: giochi con l’ombra: ti occulti: diventi fronde attorcigliata pietra: tu sei l’ideologia d’una città tutta sguardo – per questo ingannevole.

Quando c’è troppo da vedere sfugge quello che non si dà a vedere: per esempio il vuoto.

C’è sempre vuoto tra foglia e foglia.

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