Parole, parole, parole 38. Cambiano i tempi, la lingua si adegua

«Negri» è la parola italiana con cui nella prima traduzione italiana del romanzo (1937) è resa la parola «nigger» dell’originale anglo-americano.  Oggi «negro» è giustamente considerata parola offensiva, ma tale non da tutti veniva giudicata, ancora fino a non molti decenni fa. Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg racconta la storia di una famiglia torinese ebraica e antifascista, i Levi, tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. Nel racconto le strade della memoria passano attraverso il ricordo di frasi, di modi di dire, di espressioni gergali che caratterizzano per decenni la vita dell’intero gruppo: parole ed espressioni sentite e ripetute tante volte consolidano i rapporti interni alla famiglia e la connotano all’esterno. Il padre, professore universitario, socialista, inoffensivo, buono, un po’ burbero, rimproverava spesso i figli così: «Non siate dei negri! Non fate delle negrigure!». «Negro» era per lui chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non conosceva le lingue straniere. Anche la gamma delle «negrigure» (parola da lui inventata, che non trovereste in un vocabolario) era straordinariamente grande: indossare scarpette inadatte nelle gite in montagna, attaccare discorso in treno con viaggiatori sconosciuti, levarsi le scarpe in salotto, portare in gita cibi cotti e unti che sporcano le dita, ecc. Se agli ospiti che venivano in visita non si offrivano tè e biscotti si lamentava dicendo che non si può ricever la gente senza offrire un tè, «non si può fare delle negrigure». E dunque il colore della pelle non c’entrava con quelle scelte lessicali, erano parole senza nessuna implicazione razzista.

E invece le parole hanno un peso. Nella nuova traduzione italiana di Via col vento uscita pochi anni fa, le traduttrici hanno affrontato la questione, sostituendo a «negri» la parola «neri», non connotata razzisticamente e facendo giustizia di una serie di rese traduttive ormai improponibili. La governante di Scarlett, «Mammy» (non più «Mami»), non risponde più con il grottesco «Sì, badrona» ma dice «Sissignora», non usa più i verbi all’infinito («io fare», «io dire») ma è in grado di utilizzare la corretta flessione dei modi verbali. Cambia radicalmente il modo di parlare degli schiavi che, nelle versioni italiane precedenti, sia il romanzo sia il film, sfiorava il ridicolo. Viene inoltre abbandonata la scelta di italianizzare i nomi propri dei personaggi, quindi Scarlett e non Rossella (anche se al film e alla prima traduzione del romanzo sarà dovuta la moda di dare il nome Rossella a molte bimbe italiane negli anni negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso).

La scelta di italianizzare i nomi e perfino i cognomi stranieri era dovuta a una precisa indicazione del regime fascista, che pensava  di salvaguardare con la traduzione la specificità nazionale. Ottenendo anche risultati involontariamente comici, come quando vennero modificati il nome e cognome del grandissimo cantante jazz nero Louis Armstrong in Luigi Braccioforte. Ignorando probabilmente la parziale omonimia con il cosiddetto Quadrarco di Braccioforte, oratorio che si trova a Ravenna accanto alla tomba di Dante, che deve il nome alla leggenda di due persone che invocarono il “Braccio forte” del Salvatore come garante del loro contratto; e con Andrea Fortebraccio, vissuto fra Trecento e Quattrocento, controverso condottiero e capitano di ventura, ricordato da Manzoni nel Conte di Carmagnola.

Cambiano i tempi, la lingua si adegua: è il politicamente corretto. Ma non è tutto semplice, come vedremo la prossima settimana.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 29 novembre 2024]

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