Invano, dapprima Dante ha riconosciuto i segni dell’antica fiamma. Come nell’episodio di Casella sulla spiaggeta dell’Antipurgatorio (Purg., II), così anche qui non è lecito abbandonarsi alla dolcezza del ricordo. Beatrice col tono duro delle sue parole non concede neppure un attimo di pausa, di sospensione, poiché in esso potrebbe insinuarsi ed ancora farsi valere l’urgenza non mai sopita del ricordo; ella non impedisce il recupero memoriale, ma lo dirige, con uno spietato j’accuse, e volgendo poi altrove l’attenzione dell’amante (“A ben far l’incuora”). Altrettanto brusco era stato il guardiano della sacra montagna, Catone, quando aveva messo in fuga le anime appena giunte sulla spiaggetta dell’antipurgatorio, ma meno sollecito nell’intervenire, se aveva dato modo a Casella di cantare un canto profano, Amor che ne la mente mi ragiona, il canto dell’amore e dell’oblio. E qui l’Alighieri ci avverte, col solo riferimento a Eneide IV, 23 (Agnosco veteris vestigia flammae), a Didone innamorata, e d’un amore che è passione straziante dell’animo, subita fino al suicidio, che il pericolo di perdersi nelle lusinghe del ricordo è sempre in agguato, e che ora più che mai occorre sventarlo in modo risoluto e senza tentennamenti. Beatrice ha appunto questa funzione, e se inevitabilmente richiama alla mente il passato, ciò accade solo nella misura in cui Dante dovrà confessare il peccato, e pienamente pentirsi. L’autorità e, direi, l’imponenza della persona (“Quasi ammiraglio…”), la severità e la secchezza del richiamo (“Dante…”), la misura altera e sdegnosa del gesto (“regalmente ne l’atto ancor proterva”) cooperano alla rappresentazione d’un’atmosfera in cui l’inappellabilità del giudizio divino – di cui Beatrice è interprete e portavoce – non lascia spazio a deroghe o ripensamenti, poiché il prosieguo del cammino è subordinato alla confessione piena e al sincero pentimento del protagonista. Finché quest’atto di contrizione non sia stato compiuto, il distacco tra i due antichi amanti deve rimanere totale. Si noti che tra i due scorre un fiume, il Letè, il fiume dell’oblio, e che Beatrice, proprio per sottolineare questo distacco, preferisce parlare agli angeli, sia pure perché “m’intenda colui che di là piagne”, cioè Dante. A Beatrice l’Alighieri delega la citazione della vita nova
(“questi fu tal ne la sua vita nova,
virtualmente, ch’ogni abito destro
fatto avrebbe in lui mirabil prova”.
(115-117))
il cui significato ambivalente non può sfuggire. Qui si parla senza dubbio della giovinezza di Dante, ma soprattutto del libello giovanile in cui dapprima la vita dell’Alighieri trovò espressione letteraria[4]. E si noti il giudizio che l’autore dà di quella vicenda per bocca di Beatrice, con ciò facendo valere il punto di vista escatologico, divino, che – non lo si dimentichi mai -, nella Divina Commedia è assoluto e totalizzante. Dante – dice Beatrice – avrebbe potuto volgere ogni sua disposizione naturale al bene; tanto maggiore è, allora, la colpa, perché
“tanto più maligno e più silvestro
si fa ‘l terren col mal seme e non culto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro”
(118-120).
Beatrice ricorda di aver sostenuto e guidato Dante per “alcun tempo”, fino a quando, lei morta, “diessi altrui”, “scilicet”, commenta Benvenuto “aliis mulieribus”: interpretazione, per quanto vaga, coerente con il significato altrettanto vago dell’emistichio dantesco, e, dunque, esaustiva. Insomma, v’è qui il rimprovero d’un tradimento, consumato, data l’ambiguità semantica dell’ “altrui”, con una o più donne. Ora, il critico che voglia o che cerchi di attribuire dei connotati e delle fattezze a costei o a costoro, imbocca per ciò stesso un vicolo cieco, poiché nulla si sa in materia. Ma l’opera non parla di questo, non dice nulla delle reali vicissitudini dell’Alighieri; “e diessi altrui”: così Beatrice, e non aggiunge altro; e giustamente, diciamo noi, poiché altrimenti meschina, da operetta e non da tragedia, sarebbe stata la sua requisitoria. Il personaggio-Dante è reso colpevole con tre parole, cui non vale aggiungere nulla. A fondare la drammaticità della situazione basta difatti questa colpevolezza, da intendere, pur nella sua vaghezza e malgrado la sua carica allusiva, come funzione fondamentale dell’opera.
Se i dati biografici non offrono appigli (a cui – se anche ne avessimo in abbondanza – sarebbe inutile comunque aggrapparsi), ovvio risulta invece il riferimento a V.N. XXXV-XXXVII, in cui l’Alighieri aveva narrato la vicenda della donna pietosa e gentile, intervenuta a consolare l’amante prostrato dall’amara perdita di Beatrice, divenuta poi, nel Convivio, l’allegoria della Filosofia. È indubitabile che, chi indaghi l’opera dell’Alighieri, non possa eludere il riferimento a questo episodio, riesumato con ogni evidenza dalle parole di Beatrice. Che l’intenzione dell’autore sia stata proprio di fare riferimento alla V.N., pure questo sembra un fatto difficilmente confutabile. Scrive il Singleton:
“Beatrice ripercorre i fatti del passato, leggendoli nel Libro della Memoria (Dignus es accipere librum, et aperire signacula eius). Qui la Commedia accoglie entro di sé l’esperienza della Vita Nuova: viene costruendosi, si potrebbe dire, sopra quell’opera giovanile”[5]
L’Alighieri, già lo sappiamo, è autore che torna spesso sui suoi passi, e rielabora, reinterpreta, riscrive. Pertanto, il compito del critico che voglia intendere il significato del riferimento ad un’opera scritta molti anni prima della composizione del Purgatorio, e che voglia intendere come ora questa venga accolta nella nuova cornice oltremondana, è proprio nella ricerca del modo in cui le strutture fabulistiche della V. N. (ma naturalmente non si può escludere l’opera della prima maturità dell’Alighieri, il Convivio) agiscono nella D. C..
In effetti, tra V. N. e D.C. v’è tutta la distanza che separa l’anonima “cittade” del libello giovanile dalla scena ultraterrena descritta nel poema della maturità. In quel mondo tardo comunale si era consumata, senza trovare alcuna soluzione, la dialettica amore terreno-amore celeste, che tuttavia fondava la drammaticità del libello giovanile. Alla rappresentazione del mondo ultraterreno, e dunque ad una nuova concezione dell’amore, l’Alighieri è giunto dopo una lunga elaborazione intellettuale durata non un sol giorno. La teoria e la pratica allegorica, comportanti la reinterpretazione del precedente mondo poetico, il “comento” alla propria poesia, così come si può leggere nel Convivio, ha avuto la funzione di trait d’union, consentendo all’autore, una volta esaurita la tensione verso il divino implicita nella teoria allegorica, di approdare alla finzione escatologica cristiana, che nel Convivio, proprio a causa dell’ambivalenza dello statuto dell’allegoria, rimaneva mero fine a cui tendere. La incompiutezza del Convivio è spiegabile non con fatti esterni, che avrebbero impedito la piena realizzazione dell’ambizioso progetto (quindici trattati, ma ben più ambizioso è il piano realizzato della Commedia!), bensì attraverso la comprensione della sua genesi, e delle possibilità intrinseche all’opera in fieri. Nella D.C. l’Alighieri ha ormai chiaramente coscienza che soltanto la dimensione escatologica consente l’adozione di un nuovo punto di vista che superi le contraddizioni delle opere giovanili e della prima maturità. Da queste considerazioni preliminari ed imprescindibili occorre prendere le mosse per capire l’ambivalenza dell’autocitazione del v. 115 (“vita nova”) e l’emistichio al v. 126 (“e diessi altrui”). L’autocitazione del libello giovanile (“Incipit vita nova”) fissa l’antecedente più significativo rispetto all’esperienza fabulistica in atto, ma agli occhi dell’interprete segna innanzitutto l’enorme distanza, e quindi l’irrecuperabilità di fatto di quell’antica vicenda, poiché essa è chiaramente avvertita come esaurita e conclusa in un tempo ormai lontano; sicché la preoccupazione maggiore di chi non voglia fermarsi a questo stadio di comprensione, è proprio nella costatazione della forzatura cui l’Alighieri volontariamente ha sottoposto, all’altezza del Purgatorio, la vicenda narrata nell’opera giovanile e della prima maturità, col recuperarne la coscienza tragica del peccato da noi individuata nella Vita Nuova (l’episodio della donna gentile e pietosa è il più significativo), qui attribuita al personaggio Dante, e sottacendo il significato che nel Convivio egli aveva attribuito alla donna gentile e pietosa trasformata nell’allegoria della Filosofia. Un silenzio tanto più significativo in quanto in esso è implicito il riconoscimento del fallimento cui è approdata la sperimentazione dantesca del Convivio (si ricordi che il quarto trattato segnava la fine dell’interpretazione allegorica). Facile e gratuito risulterebbe ipotizzare che la mente ordinatrice dell’Alighieri, nel ricondurre ad unità d’intenti l’intera sua opera volgare, abbia voluto escluderne il Convivio, che così tante fatiche gli era costato. In realtà, proprio nel Convivio si era consumata la dialettica irrisolta nell’opera giovanile, proprio nel Convivio l’Alighieri aveva teorizzato l’interpretazione allegorica della poesia, mettendone in pratica i risultati, che per la natura posticcia ed intellettualistica di tale operazione, non potevano che essere, come si è detto, fallimentari.
S’intenda bene: Dante non ripudia nulla, ma riutilizza nella Commedia solo tutto ciò che può essergli utile per dare coerenza e organicità alla sua rinnovata finzione autobiografica, per nutrire il nuovo mondo poetico, che è sempre uno, pur nella varietà delle sue manifestazioni, dalla V.N. al Conv. alla Commedia. Nel rimprovero di Beatrice è possibile cogliere, coerente allo stadio fabulistico della Commedia, non il rifiuto dell’esperienza giovanile e della prima maturità dantesca, bensì il riconoscimento dell’Alighieri che la teoria e la pratica allegorica avevano coperto, starei per dire represso, il dissidio dell’opera giovanile, ma non lo avevano risolto. Nella nuova fabula, nella nuova dimensione escatologica, la lezione della Vita Nuova e del Convivio è così assimilata: da quelle opere deriva il protagonista, l’attore che, in quanto amante-poeta (gabbato e frainteso), ha diritto a parlare di sé per difendersi da ogni accusa, ed esercita questo diritto (mediante la funzione del narratore). E dunque, il ruolo di Filosofia è ripensato a fondo, oltre l’allegoria, ed è rappresentato nella Commedia col personaggio di Virgilio, guida a Beatrice, la teologia, che, come si ricorderà, rimaneva espressamente esclusa dal Convivio.
Ebbene, è possibile identificare l'”altrui” con la donna gentile e pietosa della V.N.? Noi crediamo, conseguentemente a quanto detto in precedenza, di poter rispondere affermativamente; crediamo, cioè, che l’Alighieri, come fa riferimento all'”incipit vita nova” al v. 115, così fa riferimento all’episodio della donna gentile e pietosa del “libello” e del Convivio coll’emistichio al v. 126 “e diessi altrui”. Con queste parole l’Alighieri ha voluto sintetizzare l’atto d’accusa di Beatrice, che, per quanto vago ed indefinito, non richiede aggiunte o nomi propri, poiché esso rientra, in questa forma vaga, nella strategia testuale della Commedia, fondata sul riconoscimento iniziale dello stato di peccatore del pellegrino, su cui ormai non vale la pena insistere. L’anonimità del riferimento è coerente con la spersonalizzazione del dato autobiografico, che deve garantire ai fatti narrati un valore universale. Il dato personale non importa a nessuno, se non per il significato didascalico che se ne può desumere, di exemplum, che proietta il parlare di sé (si ricordi la teoria del parlare di sé esposta in Convivio II, i) nel mondo dell’assoluto. La vaghezza dell’accusa di Beatrice conferisce validità universale ad una vicenda individuale. E come è vaga l’accusa di tradimento, così, vago, era lo stato d’animo, il sentimento del peccato del protagonista smarrito nella selva oscura, all’inizio della Commedia, episodio che trova proprio in questo canto il proprio pendant strutturale[6].
Pertanto tre sono i livelli che occorre tenere presenti nella lettura della finzione autobiografica dantesca. In primo luogo, la donna gentile e pietosa della Vita Nuova (dove, pur non essendoci alcuna allegoria, di questa si deve rinvenire la genesi); in secondo luogo, nel Convivio, la Filosofia, allegoria della donna gentile e pietosa ; in terzo luogo, nella Commedia, l'”altrui” , termine svuotato d’ogni connotazione, vago e allusivo quant’altri mai, congruo però all’accusa vaga ed allusiva di Beatrice. Per usare una metafora, che può rendere bene il modo di operare dantesco, il suo laboratorio, il pittore non cancella la figura precedente, ma dopo avervi passato sopra uno strato sottile di intonaco, la ridipinge, secondo le esigenze dell’opera in atto, con lo stesso pennello, la stessa mano, ma entro un disegno complessivo più vasto. In sede filologica, dunque, vale accertare le diverse figurazioni dei vari strati di intonaco, e compararle, non confonderle, e mescolare colori, tinte, spezzare e ricomporre a proprio arbitrio o capriccio le linee che l’Alighieri tirò in tempi diversi della propria vita intellettuale. Sia dunque sobrio il commento, come sobrio è il dettato dantesco.
Note
[1] Cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 370: “Dante nella sua timidezza e nel suo scoramento sente che manca a lui la dolce guida, si vede troppo piccolo, si vede troppo incerto e meschino e non pensa che a chiudersi nella solitudine del ricordo. Si rinnova in un certo senso, la solitudine della Vita Nuova“.
[2] E. Sanguineti, Il canto XXX del Purgatorio, in Letture dantesche, a cura di G. Getto, cit., p. 1278.
[3] E. Sanguineti, Il canto XXX del Purgatorio, in Letture dantesche, a cura di G. Getto, cit., p. 1279.
[4] Cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 637: “C’è qui un fondo di fatti e di vicende realmente accaduti: quelli, incontestabili, della Vita Nuova, e quelli strettamente congiunti del post Vita Nuova (…)”.
[5] Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, il Mulino, Bologna 1978, p. 79.
[6] Molto a proposito E. Sanguineti, Il canto XXX del Purgatorio, in Letture dantesche, a cura di G. Getto, cit., p. 1282 scrive: “La “divina foresta” veramente vive del tacito rapporto che costitutivamente la congiunge alla “selva selvaggia””.
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