La dubbia efficacia delle agevolazioni fiscali per le imprese del Mezzogiorno

Nelle regioni meridionali, alla perdita di rilevanza della grande impresa non ha fatto seguito, diversamente da quanto accaduto soprattutto nell’Italia centrale (Toscana, Emilia-Romagna) il cosiddetto “quarto capitalismo”, se non per alcuni casi che restano sostanzialmente marginali. Si tratta di un assetto caratterizzato da un tessuto di PMI che diventano competitive proprio attraverso la piccola dimensione sfruttandone il principale, se non unico vantaggio, ovvero l’elevata flessibilità organizzativa. L’ultimo censimento ISTAT (2023) rileva la diffusa presenza, nel Mezzogiorno, di microimprese (3-9 dipendenti in organico, circa l’8% del totale delle imprese residenti nelle otto regioni del Sud) e la pressoché assoluta inesistenza di macroimprese (con un numero di addetti superiore ai 250) di proprietà di residenti al Sud. Peraltro, questa quota è irrisoria per l’Italia nel suo complesso, pari a solo il 2.2.% delle imprese censite dall’ISTAT. Questa struttura produttiva – che ha ovviamente le sue eccezioni (localizzate soprattutto nelle aree circostanti alle metropoli di maggiore dimensione nel Mezzogiorno) – costituisce un freno alla crescita per una duplice motivazione:

a) Una di natura tecnica, che attiene alla relazione che intercorre fra dimensione d’impresa e costi di produzione. Le imprese di piccole dimensioni non possono sfruttare economie di scala (la condizione per la quale al crescere delle dimensioni i costi si riducono) e, dunque, fanno registrare livelli di produttività del lavoro sistematicamente e significativamente più bassi di quelli propri delle imprese di più grandi dimensioni. A ciò si aggiunge la carenza di capacità manageriali, che costituisce una caratteristica ricorrente dell’imprenditorialità nelle aree periferiche.

b) Una che attiene ai canali di finanziamento degli investimenti. Le imprese di piccole dimensioni hanno pochi fondi interni e operano in un contesto di razionamento del credito che viene, di norma, imputato all’elevato rischio di fallimento e alla presenza di criminalità organizzata. Inoltre, ed è questa una specificità italiana, non esistendo un mercato finanziario sviluppato, è per loro sostanzialmente impossibile finanziare gli investimenti mediante il ricorso all’emissione di titoli. A ciò si aggiunge il dato, rilevato dall’ISTAT, stando al quale al ridursi delle dimensioni medie d’impresa, la produttività del lavoro decrescere anche a ragione dei minori rapporti di collaborazione produttiva fra imprese. Le piccole dimensioni aziendali unite a una specializzazione produttiva orientata verso settori a basso valore aggiunto determina la spontanea tendenza di un’economia di mercato in un’area periferica al sotto-investimento, al diffuso utilizzo del lavoro precario e alla bassa intensità tecnologica delle produzioni. In questo scenario, occorre chiedersi se le politiche messe in atto negli ultimi anni per stimolare la crescita degli investimenti al Sud, sotto forma di uno spettro ampio e variegato di sconti fiscali alle imprese, sia e sia stato efficace per l’aumento dell’occupazione nel breve periodo e come misura di stimolo all’innovazione nel settore privato.

Per inquadrare correttamente il problema, sono necessarie tre premesse:

1) La prassi di sussidiare le imprese confligge con l’impostazione teorica liberista che il Governo Meloni dichiara di voler perseguire, dal momento che gli sconti fiscali producono effetti distorsivi della concorrenza e dal momento che, nella prospettiva teorica e politica nella quale l’Esecutivo dichiara di volersi muovere, le imprese meno efficienti dovrebbero essere lasciate fallire, attenendosi al meccanismo della selezione naturale operata dal mercato. Uno degli effetti distorsivi generati dagli incentivi fiscali è stato recentemente rilevato da uno studio dell’INAPP. Gli autori trovano che, nel caso di Decontribuzione Sud, l’incentivo fiscale spinge le imprese che ne beneficiano a a ridurre le spese per la formazione dei loro dipendenti, dal momento che gli sgravi fiscali consentono di recuperare competitività attraverso la riduzione dei costi (gli oneri fiscali appunto), disincentivando le spese che potrebbero produrre incrementi di produttività.

2) Le agevolazioni fiscali costituiscono, di fatto, una forma di protezionismo occulto, che viene praticato nell’assenza di politica industriale. La previsione di aumento dei dazi da parte degli Stati Uniti, combinata con il rispetto della disciplina di bilancio disposta dal Patto di Stabilità e Crescita, rischia, stando a questa interpretazione, di generare una spirale perversa fatta di aumento degli sconti alle imprese – per preservarne la competitività – contestuale compressione della spesa pubblica e, dunque, della domanda interna e del tasso di crescita della produttività del lavoro.

Non esiste, al momento, e ne sarebbe auspicabile, l’istituzione di una commissione tecnica di monitoraggio degli effetti dell’insieme delle agevolazioni. Esistono esclusivamente analisi condotte da singole Istituzioni e singoli ricercatori, su specifiche misure, per brevi intervalli di tempo. L’evidenza empirica disponibile, che si ricava da questi studi, mostra che gli sconti fiscali alle imprese sono molto costosi e non sempre efficaci.

Le conclusioni di questi studi sono fondamentalmente due. In primo luogo, le agevolazioni sono eccessivamente numerose e risentono di un forte grado di dispersione degli interventi: sarebbe di gran lunga più efficace agire su pochi gruppi specifici di imprese e lavoratori in condizioni di particolare svantaggio. In secondo luogo, la spesa pubblica per incentivi alle imprese è molto differenziata su basi territoriali e va a beneficio prevalentemente di imprese manifatturiere che operano nel Centro-Nord del Paese. L’Ufficio Valutazione del Senato, nel 2021, ha rilevato (ed è l’ultima stima ufficiale disponibile) una perdita di gettito fiscale derivante dalle agevolazioni fiscali alle imprese pari a circa il 4% del Pil (https://www.senato.it/4746?dossier=37321).Queste considerazioni inducono a considerare la necessità di razionalizzare questi interventi: vi sono spazi, infatti, per recuperare gettito fiscale, utile per finanziare misure di contrasto alla frammentazione produttiva dell’imprenditoria meridionale e per agire sull’ampliamento della base industriale nelle aree meno sviluppate del Paese.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno“, 25 novembre 2024]

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