A proposito di vecchiaia

Quando nell’antica Roma il tempio di Giano era chiuso infatti era tempo di pace, mentre quando si apriva significava che si era in guerra. Ebbene, è così anche per la vecchiaia quand’essa si prolunghi oltremisura. Può andar bene e allora per i parenti, figli, nipoti e pronipoti, è una benedizione, ma può andar male e allora sì che sono dolori. Anche per i finti giovani di oggi ci sono dei mutamenti che non sono immediatamente percettibili all’osservatore superficiale ma che condizionano la vita dell’anziano e soprattutto dei suoi cari. Si tratta di modificazioni che attengono al carattere, che si tende spesso a sottovalutare ma che possono incidere profondamente in un menage famigliare anche quando l’anziano si mantenga in ottima forma psico fisica. C’è sempre qualcosa che non va, insomma. Il carattere di un uomo avanti con gli anni subisce dei contraccolpi, quando sopraggiunge la senilità, diventa più spigoloso o al contrario più morbido a seconda della predisposizione congenita della persona. Per rifarci alla teoria dei quattro umori di Ippocrate, potremmo dire che l’incidenza di uno degli umori in una persona determina oltre che la sua salute, anche il temperamento[1]. Dunque, una prevalenza della bile nera, che ha sede nella milza, secondo il padre della medicina, porterebbe ad un carattere melanconico; una prevalenza della bile gialla, con sede nel fegato, darebbe vita ad un carattere collerico; la prevalenza dell’acqua, che ha sede nella testa, ad un carattere flemmatico; quella del sangue, la cui sede è il cuore, ad un carattere sanguigno (passionale, diremmo oggi). E le cause delle malattie deriverebbero proprio dai quattro umori: alla bile gialla corrisponde il caldo, al flegma o catarro corrisponde il freddo, al sangue l’umido, alla bile nera il secco[2]. L’altro grande medico dell’antichità, Galeno di Pergamo, perfezionò la teoria eziologica ippocratea e giunse a definire le caratteristiche psicosomatiche dei quattro caratteri: quindi, il malinconico, con eccesso di bile nera, è magro, debole, pallido, avaro, triste; il collerico, con eccesso di bile gialla, è magro, asciutto, di un bel colorito, irascibile, permaloso, furbo, generoso e superbo; il flemmatico, con eccesso di flegma, lento, pigro, sereno e talentuoso; il sanguigno, con eccesso di sangue, è rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito al sesso[3]. Galeno basava la parte clinica del suo pensiero medico proprio sulla dottrina dei temperamenti, per cui il corpo è composto dai quattro elementi della terra /solido, acqua /liquido, aria /freddo, fuoco/caldo. Secondo Ippocrate, questi quattro umori sono soggetti a prevalere o a diminuire a seconda della stagione, primavera, estate, autunno o inverno, nelle varie età. Ma, a differenza di quanto sosteneva il medico greco, le cui teorie oggi sono superate, appare chiaro che essi tutti aumentano o diminuiscono in una sola età, cioè nella vecchiezza. Dunque, se un uomo è stato soggetto alla tristezza tutta la vita, col passare degli anni potrebbe anche essere propenso alla depressione e quella forma di melanconia sfociare in una grave patologia. Se un anziano da giovane è stato collerico, con l’età avanzata può diventare ancor più irascibile e guai a chi si mette di traverso perché egli può rendere la vita davvero difficile alla moglie e ai congiunti, per non parlare degli amici, almeno quei pochi che abbia conservato. Se è stato un uomo passionale, da vecchio lo diventa ancor più, prendendo fuoco per qualsiasi cosa che gli susciti un’emozione, un empito che non riesca a trattenere. Perdendo poi in parte i freni inibitori, i vecchi prorompono in affermazioni perentorie, eclatanti, destabilizzando gli equilibri creati negli anni. Poiché si sentono ormai sciolti da qualsiasi ipocrisia o da doveri di carattere lavorativo ed economico, si esprimono liberamente e sinceramente, esponendo con estrema audacia il proprio pensiero anche quando questo urti la sensibilità dei presenti, tranciando giudizi, emettendo sentenze, con una franchezza che, quando gli rode troppo il fegato, sfiora l’offesa; il loro tono è spesso sfottente, infastidente, insultante. Se poi sono litigiosi e concionano di proposito, il tono è addirittura urticante. Quando a prevalere in vita è stata la flemma, i vecchi diventano ancora più pigri, non necessariamente degli irresoluti o degli inetti come il protagonista del romanzo di Italo Svevo, Senilità, ma in qualche modo si lasciano andare, vengono sopraffatti dall’inerzia per cui rimangono volentieri a casa perché si sentono più al sicuro fra le loro quattro mura (specie, se ipocondriaci, per paura delle malattie), non fanno vita sociale e annullano tutti i rapporti interpersonali.

Ovviamente le persone agè, anche quelle in ottima salute, sono più vulnerabili e più facilmente aggredibili dalle malattie e da disturbi vari poiché il loro sistema immunitario è alquanto deficitario. In particolar modo essi vanno soggetti ad osteoporosi, a problemi di vista ed udito, hanno una ridotta capacità mnemonica, hanno problemi dentali e soprattutto digestivi, per cui un anziano si alimenta e beve in misura minore rispetto ad un giovane. Inoltre, in caso di influenze e raffreddori di stagione, febbri, dismenorree, infezioni varie, essi hanno tempi di ripresa molto più lunghi. In età avanzata, si riduce o si annulla del tutto l’attività sessuale, non si può più praticare lo sport come un tempo, la pelle perde di elasticità e si riempie di rughe, i dolori reumatici sono quasi costanti durante l’anno. Ma si tratta di quelli che comunemente vengono chiamati “acciacchi”, ergo piccoli dolori, cronici, coi quali si convive e che non rendono la vita un inferno come quando sono presenti gravi patologie.

Insomma, gira che ti rigira, la vecchiaia è una iattura. Che la grana sia fisica o psicologica “l’è un bel problem!”, non solo per i “pratici”, lavoratori manuali, muratori, operai, scaricatori di porto, ma anche per gli animi più sensibili, gli studiosi, gli scienziati, gli artisti, per tutti coloro che hanno esercitato professioni intellettuali, checché ne dicesse Cicerone nel De Senectute. Si legga il Libellus de malo senectutis di Boncompagno da Signa (1240)[4].

Il libro, Un manuale duecentesco sulla vecchiaia, è uno spassoso pamphlet sui mali ed i fastidi che l’età avanzata comporta, opera di un prolifico scrittore e giureconsulto bolognese del Duecento, Boncompagno da Signa (1170 c.ca. 1250). In seguito alla sua professione, viaggiò fra Bologna, Roma, Ancona, Vicenza, Venezia, Padova, Firenze e Reggio Emilia. Fu maestro di grammatica e retorica e riuscì ad affermarsi per l’originalità del magistero e la sua forte personalità[5]

Il De malo è l’ultima opera di Boncompagno, pubblicata approssimativamente nel 1240, dopo le V Tabulae salutationum (1194-1195), la Rota Veneris (1195), il Tractatus virtutum (1197), le Notulae auree (1197), la Palma (1198), l’Oliva (1198), il Cedrus (1201) e la Mirra (1201). Più o meno negli stessi anni compose il Liber de obsidione Ancone e l’Amicitia. Al 1204 risale anche l’Ysagoge. Bologna gli conferì la corona d’alloro. La sua opera maggiore è il Boncompagnus (prima redazione nel 1215, seconda nel 1226). Fra le ultime opere, la Rhetorica novissima, 1235. Il De malo si pone in continuità e al tempo stesso in polemica con la celebre opera dell’antichità classica De Senectute di Cicerone. “Scritto da Boncompagno al tramonto di una vita spesa accanitamente ad indagare il mondo e a sperimentare il potere della parola”, il trattatello De malo “assolutamente originale e unico nella letteratura medievale sulla vecchiaia, è il condensato purissimo dell’alchimia delle diverse inclinazioni ed esperienze del suo autore”[6]

Dato il suo grande interesse per le scienze naturali, Boncompagno[7] ricorre a spiegazioni fisiologiche per descrivere la vecchiaia. Divide la vita in cinque età: l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, la vecchiaia e la decrepitezza[8]. La cultura medica è molto seguita da Boncompagno tanto che nelle sue opere sono disseminate notazioni di carattere medico, che rimandano alla probabile frequentazione da parte dell’autore della curia pontificia romana e dell’Università di Bologna, che erano i centri propulsori degli studi di medicina in Italia insieme alla Scuola di Salerno e alla corte di Federico II. Oltre alle note mediche, le fonti del suo trattato sono le Sacre Scritture, cita infatti numerosi passi biblici, ed i classici greci e latini. Come detto, il trattatello di Boncompagno si pone alla stregua di un controcanto rispetto al Cato Maior De Senectute di Cicerone, l’opera filosofica, scritta nel 44 a. C., in cui l’arpinate, attraverso la figura idealizzata di Catone il Vecchio, esaltava la maturità e la saggezza della vecchiaia. L’opera di Cicerone è al tempo stesso fonte di ispirazione retorica e morale; Boncompagno cioè non può fare a meno di confrontarsi con quel precedente letterario illustre tanto che, più di un “anticiceronianesimo” in lui, si è parlato di un “ciceronianesimo conflittuale”[9]. “Boncompagno ingaggia una disputa con il De amicitia e con il De senectute, con cui si misura per antifrasi, implicitamente nell’uno, esplicitamente nell’altro, rovesciando l’ottimismo ciceroniano con uno sguardo sul mondo che da irenico si fa ironico”[10]. Suoi punti di riferimento sono i satirici latini, Massimiano e Giovenale. Opera di grande versatilità e profonda invenzione, fin dall’esordio, nella dedica al Vescovo Ardingo, il Libellus de malo senectutis ci strappa un sorriso, quando Boncompagno dice: “dopo che cominciai ad essere aggravato dai pesi della vecchiaia, ho scritto un libro sul male della vecchiaia e della decrepitezza […] affinché coloro che giungono al martirio della vecchiaia e all’irrisione delle decrepitezza possano in questo libro trovare una qualche consolazione ristoratrice, dato che chiunque, attraverso il tormento e la pena degli altri vecchi, potrà vedere la propria condizione infelice come in uno specchio, e in ciò gli sembrerà di avere un rimedio consolante, giacché è di conforto per gli infelici avere compagni di sventura”[11]. A proposito dell’opera di Cicerone, Boncompagno si chiede che bene ci possa essere nella vecchiaia, dopo i settant’anni, l’età che egli pone come discrimine fra vecchiaia e decrepitezza, quest’ultima definita “l’irrisione e la putrefazione dell’uomo”[12]. Quale l’utilità di questa età, si chiede polemicamente Boncompagno, se non quella di potersi finalmente mondare dei peccati commessi e di potere allontanare i vizi e la corruzione, dando forse qualche consiglio salutare a chi poco capisce? Per il resto, la vecchiaia è fatta di pene e miseria. “La pena è una sofferenza fisica aggravata dalla povertà. La miseria è un doloroso tormento dello spirito e del corpo sotto il peso della malattia e dell’indigenza”[13]. Quante pene e quanta miseria, tante che nemmeno si possono enumerare, si lamenta Boncompagno. Una delle pene per i vecchi è quando iniziano a non piacere a sé stessi ed “espellono umori viscosi e catarro dalla bocca e muco dal naso”. Poi “la vergogna di comparire davanti ai signori e agli amici di casa”. Ai vecchi si arrossano gli occhi, si offusca la vista, cadono i denti, si ammalano le gengive da cui promana una sgradevole alitosi. I giovani li scansano perché non amano la loro compagnia e sono quasi disgustati dalla loro vista. Alcuni emettono peti, molti sono incontinenti. Certi vecchi sono curvi e piegati su sé stessi. Altri non riescono a parlar bene per la mancanza di denti e hanno gambe gonfie e piedi gonfi. Inoltre sono avari. “Ho visto un vecchio che, giunto in fin di vita, prese una cassetta e vi pose bisanti e pietre preziose e questa cassetta, dopo la sua morte, fu trovata appesa sotto la sua ascella. Un avaro prima di morire si legò a una coscia la chiave del suo tesoro e così dopo la sua dipartita, la chiave fu trovata legata accanto ai genitali”[14]. I vecchi ciechi e sordi inoltre sono più sospettosi e da senescenti diventano come bambini. Il testo si fa davvero spassoso quando si occupa dei vecchi che hanno belle mogli. “Le loro mogli provano disgusto e ripugnanza quando essi provano ad abbracciarle e a dar loro baci bavosi. Notte e giorno i vecchi hanno paura che nei loro orti venga piantata una zucca, e anche se ciò non avviene, tutt’intorno si chiacchiera ugualmente. Se hanno dei figli, la paternità non si attribuisce a loro, ma alla bontà dei vicini”[15]. I vecchi, per Boncompagno, sono detestati dalle mogli, offesi dai figli, abbandonati dagli amici e diventano per giunta ridicoli quando si rimbambiscono e, parlando, divengono lo zimbello della gente. Occorre dire che fra i ricchi ed i poveri, questi ultimi sono più sfortunati perché a causa delle ristrettezze e della dura fatica dimostrano tutta la loro età mentre i ricchi grazie ad indumenti e cosmesi possono in qualche modo sembrare più giovani. Ma chi camuffa la propria età, per il Nostro, colorando i capelli e la barba, è ancora più derisibile; peggio se sono le donne che si scorticano la faccia con creme ed unguenti per apparire lisce e levigate. Insomma, afferma Boncompagno in conclusione che tutti coloro che sono decrepiti possono definirsi miseri. E così, tanto misero è l’uomo di cui si attende ormai solo la morte che il vecchione, sembrerebbe intendere l’autore, farebbe bene a preparare la zappa, scavarsi da solo la fossa e buttarcisi dentro. Il quadro non è idilliaco ma anzi dipinto dall’autore con iperrealismo.

Oggi, che la vita media si è allungata, la situazione si complica ulteriormente, vieppiù per chi, sentendosi ancora pimpante e pieno di energie, vorrebbe provarsi in dimostrazioni fisiche e mentali che metterebbero a duro cimento un giovane. E sì, non è facile invecchiare bene. Come scrissi in un precedente pezzo, “l’Italia è il paese in cui chi occupa un posto di prestigio lo mantiene per tutta la vita, nel mondo dello spettacolo, in politica, nell’alta finanza. Chi detiene il potere non vorrebbe mai lasciarlo, salvo esservi costretto dalla magistratura o dal furore del popolo. Accettare l’ineluttabilità del destino è talmente straziante che artisti e attori sul viale del tramonto preferiscono dare in escandescenze, commettere gesti inconsulti, occupando così la ribalta per un’ultima volta, in occasione del loro atto estremo. A volte, non ci si ritira nemmeno nella disgrazia e si continua a lavorare esponendosi al pubblico ludibrio. Nessun senso del ridicolo è più forte della brama di potere, del presenzialismo, della smania di continuare a contare. E nonostante i cattivi auspici, si imbroglia e non si risparmiano scorrettezze e tradimenti per mantenere il potere”. Purtroppo non tutti i vegliardi riescono a mantenere un alto profilo fino all’ultimo giorno. Potrei citare come esempi nel mondo della cultura il prof. Mario Marti, illustre italianista che superò brillantemente i cento anni, oppure l’On. Giacinto Urso, più volte parlamentare, che è arrivato a cento anni con garbo ed equilibrio. Ma si tratta di merce rara. I più si rincoglioniscono, sbandano, sparlano. Pensiamo, per fare degli esempi molto noti, ad Ornella Vanoni, a Gino Paoli, a Renato Pozzetto. Che pena vederli del tutto rincitrulliti ancora in tv. Di più: “Personaggi pubblici che hanno avuto una sfolgorante carriera, terminano i loro giorni nell’insuccesso o nella miseria, serbando rancore, astio, oppure si rendono protagonisti di episodi di cronaca nera. E ciò perché non seppero abbandonare il comando al momento opportuno, guadagnando una onorevole uscita di scena. Avevano iniziato fra gli osanna, gli evviva, fra le ovazioni di amici e cortigiani, e finiscono fra le imprecazioni, gli abbasso, i fischi e i fiaschi, i pomodori e le uova marce da parte di nemici ed ex beneficati. Dalle stelle alle stalle”[16].  Non resta che concludere come ho aperto il pezzo, con le parole di mio nonno Uccio: “la vecchiaia è una brutta bestia”.


[1] Ad Ippocrate, primo grande medico dell’antichità, vengono attribuite moltissime opere che compongono il cosiddetto Corpus hippocraticum, la maggiore collezione di testi antichi di medicina (circa settanta trattati). In realtà non di tutte è certa la paternità. Per esempio, l’influenza della corrente biologica di derivazione da Empedocle ebbe vasta eco in tutta la scuola di Cos per cui la teoria dei quattro umori da alcuni studiosi invece che ad Ippocrate viene attribuita a Polibo, genero di Ippocrate stesso. Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi, Filosofie e società, Bologna, Zanichelli Editore, 1986, p. 65.

[2] Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi, Filosofie e società, cit., pp. 23-25, 28-29. Su Ippocrate (460-377 a. C. c.ca), tra gli altri:Ippocrate, Opere, a cura di Mario Vegetti, Torino, Utet, 3ª ed., 1996; Ippocrate, Scritti scelti, Torriana (Fo), Orsa Maggiore Editrice,1993.

[3] Su Galeno (129-216 d.C., c.ca), autore di opere di anatomia, fisiologia, clinica e terapeutica, filosofia, logica, metodologia medica, e sulla sua straordinaria figura, nella vasta bibliografia presente: Galeno, Trattato sulla bile nera, a cura di Franco Voltaggio, Nino Aragno Editore, 2003; Galeno, Opere scelte, I, Torino, Utet, 1978.

[4] Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii, Edizione critica e traduzione a cura di Paolo Garbini, Firenze, Sismel- Edizioni del Galuzzo, 2004.

[5] Su Boncompagno, fra le altre fonti: C. Sutter, Aus Leben und Schriften des  Magister Boncompagno, Ein Beitrag zur italienischen Kukturgeschichte im dreizehnten Jahrhundert, Freiburg i-B- Leipzig, 1894; A. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da Buoncompagno a Bene di Lucca, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano», n. XIV, 1895, pp. 90-118; F. Novati, L’influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana del Medio Evo, Milano,1899, pp. 101ss., 222, 248; G. Bertoni, Il Duecento, Milano, 1939, pp. 80, 202, 254-257, 359; A. Sorbelli, Storia della Università di Bologna, I, Bologna, 1940, ad Indicem; G. Vecchi, Il magistero delle “artes” latine a Bologna nel Medioevo, Bologna, 1958, pp. 14, 21, 24-25; G. Saitta, Tra i dettatori bolognesi: Boncompagno da Signa, in Prospettive storiche e problemi attuali dell’educazione, Firenze, 1960, pp. 16-27; G. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca Trivigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma, 1963, pp. 86-89, 91-93, 157-160, 165-167; G. Vecchi, Musica e scuola delle Artes a Bologna nell’opera di Boncompagno da Signa (sec. XIII), in Festschrift BrunoStäblein, Basel, 1967, pp. 266-273; Boncompagno Da Signa, a cura di V. Pini, in Dizionario biografico degli Italiani, Treccani, Volume 11, 1969 (on line); J. K. Hyde, La prima scuola di storici accademici, da Boncompagno da Signa a Rolandino da Padova, in Storia e cultura a Padova nell’età di Sant’Antonio. Convegno internazionale di studi 1-4 ottobre 1981, Padova-Monselice, Padova, 1985, pp. 305-323; P. Garbini, I «mirabilia urbis Romae» di Boncompagno di Signa, in «Studi Romani», n. 47, 1991, pp. 13-24; Idem, Tra sé e sé: l’eteronimo di Boncompgano da Signa «Buchimenon» e un suo sconosciuto trattato «de transumptionibus», in «Res Publica Litterarum», n. 22, 1999, pp. 66-72; G. Fasoli, Cicerone e Boncompagno da Signa: amicizia e vecchiaia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, I, Spoleto, 1994, pp. 317-330; E. Artifoni, Boncompagno da Signa, i maestri di retorica e le città comunali nella prima metà del Duecento, in Artifoni- Garbini- Giansante-Goldini-Pini-Saitta, Il pensiero e l’opera di Boncompagno da Signa. Atti del Primo Congresso Nazionale (Signa 23-24 febbraio 2001), a cura di M. Baldini, Greve in Chianti (Fi), 2002, pp. 23.26; M. Giansante, Boncompagno da Signa e l’autonomia comunale, Ivi, pp. 45-46; P. Garbini, Boncompgano da Signa e la vecchiaia, Ivi, pp. 37-44. Per una bibliografia completa, cfr. Bibliografia, in Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii, a cura di Paolo Garbini, cit., pp. LXXIII-LXXVIII.

[6] Sinossi, in Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii, a cura di P. Garbini, cit.

[7] È inserito anche da Francesco Tateo nell’Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970 (on line).

[8] Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii, cit., p. XLV.

 [9] Ivi, p. LIII.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, pp. 3-6.

[12] Ivi, p. 9.

[13] Ivi, p. 11.

[14] Ivi, p. 13.

[15] Ivi, p. 15.

[16] Paolo Vincenti, La sindrome di Totti, in Italieni, Nardò, Besa, 2017, pp. 31-33.

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