Siamo sulla spiaggetta dell’antipurgatorio, in limine del regno della Grazia, in un paesaggio insolito ed inusitato, al centro di un mondo sconosciuto, mai prima da nessun vivo percorso, ove risplendono alte nel cielo “le quattro luci sante” “non viste mai fuor ch’a la prima gente” (Purg. I, 24); un mondo reso appena meno inquietante dai termini di riferimento noti che l’autore si premura già nell’incipit del canto II di indicare con tre terzine della dotta perifrasi iniziale:
Già era ‘l sole all’orizzonte giunto
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’i’ era, de la bella Aurora
per troppa etade divenivan rance.
Versi che hanno sì valore esornativo, ma nel contempo ci illuminano sulla dislocazione della montagna del purgatorio che il personaggio-Dante sta per salire. E poiché è necessario iniziare il cammino, e non si sa ancora dove andare, l’animo è preso da un senso di straniamento, di inadeguatezza, di insicurezza. Dante e Virgilio, dice l’Alighieri con un bel chiasmo, sono nello stato d’animo di colui
che va col corpo e col cuore dimora. (v. 12)
Né questo sentimento cessa al sopraggiungere dell’angelo nocchiero, cui si deve timore reverenziale. Le anime dei penitenti che l’angelo ha trasportato sul suo vascello “snelletto e leggero” sono altrettanto ignare ed inesperte del luogo, e divengono facile preda della “maraviglia”, quando si accorgono, “per lo spirare”, che Dante è ancora vivo:
L’anime che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
vv. 67-69
Non è solo l’eccezionalità della condizione di Dante, vivo tra i morti, a “maravigliare” le anime penitenti, come sovente accade nell’oltremondo, quanto la possibilità, che fino ad allora esse credevano esclusa, di “udir novelle”, partecipando (invano) alla vita terrena ormai abbandonata, e a cui conviene non pensare più, se non per pentirsi. Ignari della buona sorte che Dio ha riservato loro, “anime fortunate tutte quante” (v. 74), e per questo negligenti, dimenticano, o “quasi”, “d’ire a farsi belle”. Dante è per questo gruppo di penitenti ciò che Casella sarà di qui a poco per lui; difatti, come Dante con la sua presenza di vivo distoglie le anime dal cammino faticoso della purificazione, così Casella, intonando Amor che ne la mente mi ragiona, fa indugiare più del dovuto Dante, Virgilio e la turba delle anime sulla spiaggia dell’antipurgatorio. In questo modo l’Alighieri stringe in una medesima situazione psicologica tutti coloro che calcano la scena, protagonisti e comparse, modulando il tempo del colloquio secondo il ritmo delle battute di dialogo che, anche dove i versi ricoprono l’ufficio strumentale di note informative sulla topografia purgatoriale e sulla dinamica del passaggio delle anime dal mondo dei vivi a quello dei morti, dalla foce di “Tevero” alla spiaggia del purgatorio (vv. 100-105), serve a ricreare un’atmosfera di familiarità, di affinità, di “dolcezza”, e poi a richiamare vaghi ricordi del passato, che presto verranno spazzati via dall’intervento brusco di Catone. Si preciserà a quel punto la forza dialettica del canto, la sua interna “drammaticità”, così bene messa in luce da M. Marti[4].
“Grande” è l’affetto di Casella, egli comincia a parlare “soavemente”, “soave” e “dolce” sarà sempre la sua parola, la sua dizione[5]. Palesi sono le manifestazioni d’amore reciproco, che fanno dell’incontro tra Dante e Casella, come ebbe a dire il Foscolo, “la più gentile fra le scene del Purgatorio“[6]; si ascolti la vibrazione dell’emistichio “Casella mio”, ove il possessivo, nella sua insensatezza in questo mondo così remoto dove il possesso non conta più, racconta l’antico affetto e la pronta e vana volontà di recuperarlo nell’esperienza presente. Il viaggio subisce qui un’interruzione, una pausa imprevista e non consentita dalla dura legge dell’espiazione, una sospensione pericolosa perché in essa si corre il rischio di perdersi, affascinati e confusi dall’aura d’incanto dell’alba purgatoriale (“dolce color d’oriental zaffiro” (Purg. I, 13)). In questa pausa, che – ripetiamo – è un’infrazione, una deroga alla legge della sacra montagna, in cui “gioca la suggestione dell’orecchio”[7], a causa della quale i penitenti saranno aspramente rimproverati dal severo Catone[8], il lettore avverte mille risonanze interne, mille segnali che meritano di essere decifrati e capiti, che fanno di questo canto un punto nodale della Commedia e dell’intera opera dantesca.
Nella gestualità che caratterizza il momento iniziale dell’incontro tra Casella e Dante, segnato dal riferimento a Eneide VI, 700-701, già notato da Pietro di Dante[9], l’autore riassume, al di là della precipua finalità di mostrare l’inconsistenza fisica delle anime, il senso dell’intero colloquio tra i due:
Oi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
vv. 79-81
Se questo è il canto del ricordo e dell’oblio dialetticamente intesi, dove l’uno riaffiora dal passato e l’altro minaccia di annullare l’urgenza della situazione presente, e se Casella rispetto a Dante funge da promotore, da agente di questo ricordo, è giusto che Dante si dipinga di “maraviglia” per aver abbracciato una pura apparenza, il nulla, proprio come le anime alla vista di Dante “maravigliando divetaro smorte” (v. 69): perché il ricordo è questa apparenza che inganna, che ostacola il pentimento e ritarda la salvezza. Ma il musico è tanto saggio da sorridere dell’insistenza di Dante, e ritrarsi, ristabilendo la distanza, consentendo così il dialogo, e il ritorno e l’espressione dei vecchi affetti. E l’uno chiede notizie all’altro, quasi interrompendo l’altro, come bene interpretò il Pistelli[10], per conoscerne la sorte oltremondana; ma si capisce che non è in ciò il significato essenziale dell’incontro, e che le loro domande e risposte preparano uno sviluppo del canto ben più ricco di risonanze affettive e di risvolti metanarrativi. Il presente è qui dimenticato, quando invece esso dovrebbe pervadere le anime penitenti; e quest’oblio del presente è condizione necessaria perché la memoria del passato possa esercitare il suo ruolo, perché poi emerga chiaramente la natura del luogo purgatoriale e il dovere delle anime, perché infine l’Alighieri stabilisca la differenza tra passato e presente ed affermi un nuovo modo di intendere e vedere le cose. La vicenda narrata nel II canto del Purgatorio, infatti, possiede tutti i requisiti per fungere all’esame critico da banco di prova dell’evoluzione, ed anzi, diremmo, del salto di qualità a cui l’Alighieri ha sottoposto la propria finzione autobiografica nata molti anni prima con la prosa della Vita Nuova ed educata nei versi delle canzoni allegoriche e nelle pagine del Convivio.
L’autore concede al protagonista di indugiare alle soglie dell’Antipurgatorio, coinvolgendo in questo tratto di sospensione e di licenza anche Virgilio[11], cui sarà grave il rimorso per questo “picciol fallo” (Purg. III, 9). Ma leggiamo subito la richiesta di Dante a Casella:
E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”
vv. 106-111
“Memoria o uso”: Dante qui è esplicito; spera, cioè, che l’amico possa esercitare ancora la sua memoria e spera che nulla, in quel nuovo mondo, gli vieti l'”uso”, ossia la facoltà di cantare le parole d’amore che solevano in passato confortarlo nei momenti di pena, quando la passione d’amore poteva essere lenita solo dalla melodia di versi “soavemente” modulati. Dante implicitamente equipara il tormento d’amore provato in gioventù all’affanno che gli è derivato dal viaggio infernale appena terminato. E Casella, richiamando l’attenzione di tutti gli astanti:
“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
vv.112-114
Conviene riflettere ancora su questa terzina, non solo perché siamo in presenza di un’autocitazione dantesca (Amor che ne la mente mi ragiona è la seconda canzone premessa al terzo trattato del Convivio), in sé cosa molto significativa, ma perché qui l’Alighieri dà espressione e all’azione del protagonista che ascolta rapito il “dolce” canto di Casella, e al narratore che sente risuonare “ancor” dentro di sé quella “dolcezza”. E non si dimentichi che “dolcemente”, “dolcezza” sono “termini chiave a caratterizzare la qualità di quella intonazione musicale ma anche del testo poetico”[12]. Avvertiva, infatti, il Momigliano con la sua consueta finesse: “Nota come il verbo – suona – concreti quella dolcezza: mentre scrive, Dante non ha solo la memoria di quella dolcezza, ma la sensazione (…)”[13]. In verità l’autore instaura una equivalenza (avente come termine comune la “dolcezza”) tra il narratore che rievoca le varie fasi del suo viaggio, avendolo già portato a termine (“ancor”), e l’attore che sta viaggiando nell’oltretomba (“allor”). Narratore e attore, in due situazioni e tempi diversi, sono accomunati (grazie ai due avverbi temporali) da questa sensazione uditiva: la “dolcezza”. Vada per l’attore la cui salvezza egli dovrà conquistare a caro prezzo, quel che fa specie è il narratore che, giunto ormai alla fine della propria esperienza oltremondana, sembra non avere altro punto di vista per giudicare il canto “soave” di Casella, cioè la canzone allegorica, che questo (la “dolcezza”), fondato su una sensazione allettatrice, per ciò stesso priva di verità, di quella verità morale ed escatologica che è il fondamento del giudizio su fatti e persone nella Divina commedia. C’è in effetti di che stupire! Stupisce la spregiudicatezza con cui l’Alighieri conduce il suo gioco allusivo, mettendo in crisi il vecchio mondo allegorico col rivelarne la vera natura di costruzione intellettualistica, artificiale, posticcia, costruita com’è l’allegoria su una “littera” che, costituendone il senso primo e indubitabile, rimanda ad un significato “altro” da sé, come l’autore ha spiegato in Convivio II, I. E che questo canto sia un “amoroso canto” non è dato incerto, in quanto la definizione è delegata dall’Alighieri alla propria proiezione autobiografica, al personaggio Dante. Né ci sembra possibile che sia messo in discussione un altro fatto indubitabile, e cioè che quel canto fu scritto dall’Alighieri per la donna gentile molti anni prima, “non molto dopo il 1294”[14], per la donna di cui, sul finire della Vita Nuova si dice che consolò Dante addolorato per la morte di Beatrice, e che nel Convivio l’autore trasfigurò nella “bellissima e onestissima figlia de lo Imperatore de lo universo, a la quale Pittagora puose nome Filosofia” (Convivio, II, xv, 12), secondo il senso allegorico. Sicché, ad intendere bene la situazione che si viene a creare nel II del Purgatorio, occorre avere chiaramente presente la dialettica sviluppatasi nelle opere giovanili e della prima maturità dantesca, da cui trae vigore la finzione della Commedia, e che solo nel “sacrato poema” giunge a soluzione.
Tanta è la “dolcezza” “che ancor dentro mi suona”, dice il narratore della Commedia, riconoscendo dignità all'”amoroso canto”, come già aveva fatto l’Alighieri nel De vulgari eloquentia (I, X, 2) teorizzando la poetica del dulcius subtiliusque poetari; e che l’Alighieri sia capace di poetare oltreché dolcemente anche sottilmente, non c’è da dubitarne, dal momento che conduce tutto il racconto con una maestrìa davvero ineguagliabile, lasciando il giudizio del lettore all’evidenza espressiva dei fatti narrati ed esimendone, in quanto parte in causa, il narratore che “ancor” gode della “dolcezza” del canto di Casella. Ma si capisce bene che quel godimento di natura estetica (nel senso medievale del termine) è rifiutato dall’Alighieri che altro ufficio ha destinato alla poesia. Pertanto, questo caso può essere portato come esempio della divergenza d’intenti e di funzione tra narratore, attore e autore, poiché il narratore dice cose sulle quali l’autore non concorda, come non concorda col suo attore, poiché attore e narratore sono irretiti nel lusus musicale di Casella, ovvero nella finzione escatologica che l’Alighieri ha ideato per salvaguardare la verosimiglianza dell’opera. La Divina commedia richiede che il canto di Casella sia condannato senza appello in quanto moralmente riprovevole; il narratore, invece, si astiene da questo giudizio e solidarizza con l’attore (entrambi subiscono acriticamente la “dolcezza” della voce del musico); in questo modo l’Alighieri consegue un duplice fine: da una parte salva quanto di valido v’era stato nell’esperienza stilnovistica e tardo-stilnovistica (le canzoni allegoriche), e cioè la tensione verso il mondo ultraterreno, frustrata dalla dialettica irrisolta delle opere giovanili e della prima maturità dantesca; e dall’altra indica con chiarezza il nuovo punto di vista escatologico, l’unico che può valere nell’oltremondo. La memoria urge “ancor” a tal punto che attore e narratore sembrano aver dimenticato rispettivamente lo scopo del viaggio e la dura legge del purgatorio che vieta ogni licenza[15]. Varrà dunque qui, nei limiti proposti, ciò che il De Sanctis diceva in generale della seconda Cantica:
“La ricordanza tiene in sé chiusi due momenti, il passato ed il presente; il passato non quale apparve nel momento che avvenne, ma quale appare ora ai cangiati occhi dell’uomo pentito. La poesia dunque qui consta di due elementi, del fatto passato e della impressione presente”[16]
In realtà, il processo di pentimento e di purificazione dell’attore qui deve ancora cominciare. Lungi dal riprovare l’esperienza passata, nell'”ancor” riferito al narratore, l’Alighieri esprime l’apprezzamento di cui crede degna la poesia amoroso-allegorica, ma allo stesso tempo, in quanto autore, e cioè in quanto unico garante della moralità dell’opera, colloca quella poesia in un passato remoto che solo per poco – e con tutti i rischi del caso – può essere rievocato. Il passato e il presente, cioè, per continuare la definizione del De Sanctis, hanno un senso solo se sono sentiti vissuti utilizzati in funzione di un futuro di espiazione (il che qui accade solo dopo l’intervento di Catone).
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessuno toccasse altro la mente.
vv. 115-117
L’ “amoroso canto” ha intorpidito le coscienze, ha annebbiato le menti, impedisce di pensare ad “altro”, cioè alla via che occorre trovare per iniziare il cammino della purificazione. Ecco allora la coscienza critica dell’Alighieri, il freno dell’arte, Catone, questa “prosopopea della coscienza morale nella pienezza della libertà raggiunta”[17], irrompere sulla scena ed interrompere bruscamente il canto del musico, e destare dal sonno le anime purgatoriali:
Noi eravan tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: “Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”.
vv. 118-123
Il rimprovero di Catone si sovrappone e schiaccia le note della vecchia canzone del Convivio, Amor che ne la mente mi ragiona, ed è così autorevole e imperioso che Casella ammutolisce all’istante, e tutte le anime, disperdendosi, vanno alla ricerca della loro via. Starebbe nel falso chi non volesse accorgersi che qui l’Alighieri, pur non misconoscendo l’esperienza della poesia amorosa ed allegorica (perché l’una non può stare senza l’altra), e nell’atto di collocarla storicamente in un preciso momento in sé concluso della propria vita intellettuale (il Convivio), richiamando alla mente la “dolcezza” di quella poesia che ne era appunto la cifra distintiva, con l’intervento di Catone, la considera come poesia profana, proprio a causa della “dolcezza” allettatrice dei sensi ed ingannatrice delle anime che devono invece raggiungere Dio. Che nella prospettiva escatologica cristiana della Commedia la canzone cantata da Casella debba essere considerata come poesia profana, lo suggerisce anche l'”osservazione generale” di F. Flora, secondo cui “questo di Casella è il solo canto che vale per se stesso, per la sua musica: il solo che non sia oltrepassato per diventare un mezzo che serva un rito, come i salmi e le preghiere, nel Purgatorio e nel Paradiso“[18]; e questo è percepito come un fatto peccaminoso, poiché per l’uomo del Medioevo “le cose esistono per essere usate, e non perché in esse ci si acquieti”[19].
Ne risulta peraltro convalidata la tesi, secondo cui il racconto del canto II del Purgatorio si presta all’indagine metanarrativa proprio perché in esso l’autore, sospendendo il viaggio, ed introducendo il suo personaggio in una zona franca dove si può, anche se per poco, azzardare una deroga alla ferrea legge purgatoriale, fa i conti con se stesso (“in modi da netta autocritica d’autore”[20]), col proprio passato, e sembra voler valutare tutta la portata della propria rinnovata finzione autobiografica. “L’esperienza intellettuale e artistica del Convivio e della Vita Nuova“, dice V. Russo, “si ripropone ora alla coscienza di Dante per una nuova valutazione e una nuova sistemazione all’interno della propria storia spirituale”[21]. Occorre, pertanto, stabilire precisamente il senso di questa operazione, ricercarne le motivazioni, e le tecniche usate dall’Alighieri per raggiungere il suo scopo, che è sì d’ordine dottrinale, ma in primo luogo d’ordine rappresentativo, drammatico.
L’autore non rinnega nulla, ma recupera la vecchia poesia al fine di darne una definitiva sistemazione storica, mostrando dunque come essa debba essere, e sia in effetti, superata (l’intervento di Catone). Di più, ci fa comprendere chiaramente la vera natura della poesia amoroso-allegorica, considerata in un luogo e da un punto di vista tali che il giudizio su di essa non può essere messo in dubbio, cioè rispettivamente nell’oltremondo, da un personaggio che agisce secondo la volontà divina, Catone. La poesia amoroso-allegorica è poesia tutt’altro che sacra, poiché l’allegoria s’innesta su una “littera” che parla d’amore secondo lo stile della “dolcezza”, quello stile che già fu abbandonato – lo si rammenti – al termine del Convivio:
Le dolci rime d’amor, ch’i’ solia
cercar ne’ miei pensieri,
convien ch’io lasci…
Conv. IV, iii, vv. 1-3.
Se lo stile della “dolcezza” si adattava bene al canto d’amore, sia pure amore inteso come studium (cfr. Convivio, III, XII 2), ora ben altra deve essere la materia, ben altro lo stile (non invano è stato già scritto l’Inferno), ben altro l’impegno morale della Commedia. Catone col suo brusco rimprovero reagisce alla “dolcezza” del canto di Casella, rivelando quanto di artificioso e intellettualistico vi sia nella poesia amoroso-allegorica dantesca, e, dunque, la vera genesi della poesia allegorica come è intesa dall’autore all’altezza della Divina commedia.
Il contrasto Casella-Catone, se si bada al conflitto delle funzioni di cui sono promotori i personaggi, è intrinseco all’intera finzione della Commedia, ed anzi ne costituisce la struttura portante. Senza voler esaurire l’argomento, che però in altra sede varrebbe la pena approfondire per capire bene la complessità della finzione autobiografica dantesca nel “sacrato poema”, facciamo solo riferimento allo statuto del personaggio Dante che, peccatore, dopo essersi smarrito nella selva oscura, deve affrontare un lungo e laborioso cammino fatto di espiazione e di pentimento, prima di ascendere, sotto la guida di Beatrice, ai cieli dell’empireo. Da questo punto di vista, felicissima è l’intuizione critica di S. Pasquazi che collega l’episodio di Casella-Catone a quello degli ultimi canti del Purgatorio, e vede in Purg. II, “la premessa del rimprovero ultimo di Beatrice”[22]. In effetti, Catone sta a Casella come Beatrice sta a Dante. Ma mentre il primo rapporto è collocato all’inizio della cantica a significare l’urgenza di iniziare il processo di purgazione, il secondo è collocato alla fine, suggella quel processo e rende possibile l’ascesa di Dante nei cieli dell’empireo.
Si ritorni ora alla scena dell’arrivo dell’angelo nocchiero sulla spiaggia della sacra montagna:
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto;
e più di cento spirti entro sediero.
In exitu Israel de Aegypto
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
vv. 43-48
Siamo lungi ancora dal cuore drammatico del canto, eppure l’Alighieri sta qui ponendo le premesse perché poi la dialettica del canto si imponga alla nostra attenzione. L’angelo nocchiero non ha alcuna intenzione di interrompere il canto delle anime penitenti, come farà Catone interrompendo il canto di Casella, sembra anzi dirigerlo “da poppa” come un corista in una chiesa medievale. Si tratta, infatti, di poesia sacra, l’unica consentita nel regno della Grazia, dove anche i poeti, starei per dire, soprattutto i poeti (Sordello, Guinizzelli, Bonagiunta, Arnaldo Daniello, Stazio) devono purificarsi. Si precisa meglio, pertanto, la dialettica di questo canto individuata dal Sanguineti nel contrasto poesia sacra-poesia profana[23], e il nuovo punto di vista da cui l’Alighieri guarda alla sua poesia precedente (precedente l’Inferno). Catone è certamente la coscienza critica dell’autore, il personaggio cui è delegato il ruolo di liberare le anime dalle lusinghe (proprio lui con cui “non c’è mestier lusinghe” (Purg. I, 92)) del canto e della memoria. La finzione dantesca ancora una volta ha la meglio, nel senso che l’Alighieri riesce a superare il conflitto irrisolto delle opere giovanili e della sua prima maturità, puntando tutto sulla visione oltremondana della Commedia, della quale interprete e protagonista nel canto II del Purgatorio è appunto Catone.
Abbiamo già detto che la canzone rievocata nel canto II del Purgatorio, Amor che ne la mente mi ragiona, è stata scritta per celebrare la donna gentile e pietosa, che compare per la prima volta nella Vita Nuova come consolatrice di Dante afflitto per la morte di Beatrice, e che nel Convivio assume le sembianze di Filosofia, previa teorizzazione del tema allegorico. Di questa operazione già notammo tutta la precarietà, oltreché la sua genesi strumentale e la natura di aggiunta posticcia, intellettualistica. Nel canto II del Purgatorio l’Alighieri riconosce il carattere profano della canzone modulata da Casella nell’aura mattutina purgatoriale. Non ci resta che dare ragione a G. Gorni che rinviene nell’episodio di Casella l’ultima eco dell’antica vicenda della donna gentile. Egli scrive: “Questo evento realizza altresì un simbolico “contrapasso” tra purgatio animi e poesia amorosa dantesca segnando la liquidazione del ciclo della “donna gentile”, alla quale, per espressa dichiarazione d’autore, la canzone era rivolta”. E ancora: “Prima di giungere a Beatrice, che rinfaccerà a Dante, in Purgatorio XXX, questo traviamento, Dante ha inteso ripudiare e mettere a tacere, per fermo intervento di Catone, l’esperienza poetica della donna gentile”[24]. Senza dubbio sorprende il fatto che l’Alighieri faccia riferimento dopo molti anni ad un personaggio e a un episodio della propria vicenda intellettuale ormai trascorsa, sia pure evocandoli nell’autocitazione di un solo verso, quando invece il lettore potrebbe averli dimenticati del tutto. In realtà l’Alighieri non allude a un personaggio né a un episodio particolare, se non per richiamare il senso complessivo della sua poesia amoroso-allegorica. Ci si è chiesti se l’autore abbia voluto ricontestualizzare la canzone del Convivio, mettendo da parte il proposito allegorico ed intendendola solo come “amoroso canto”, o ancora se non abbia citato quel verso soltanto per la sua musicalità. In un caso e nell’altro si fa violenza alla volontà dell’Alighieri che ha semplicemente sottoposto a dura e severa critica, con l’unico strumento che un poeta può usare, cioè la rappresentazione plastica di una certa situazione, la poesia amorosa e allegorica, mostrandone tutta l’ambiguità. In realtà, il canto di Casella è proprio la canzone amoroso-allegorica d’apertura del III trattato del Convivio, ed il suo stile è proprio quello della “dolcezza”, quella “dolcezza” nella quale Dante identificherà la poesia del Guinizzelli, il “padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre” (Purg. XXVI, 97-99; ma vedi anche il v. 112). Come il Guinizzelli, riconosciuta dall’Alighieri la sua grandezza poetica ed il suo ruolo di caposcuola del dolce stil nuovo, è collocato per giudizio insindacabile divino nella cornice dei lussuriosi, così qui l’Alighieri, fissata la dignità artistica della poesia amoroso-allegorica della sua prima maturità, ha cura di mostrarne il limite, indicando la via seguita nel superamento. L’allegoria è da considerare non come elemento estraneo alla poesia, ma come necessario anello di congiunzione tra la terrena tensione verso il divino della poesia giovanile (in particolare Rime e Vita Nuova) e la divina trasfigurazione del mondo della Divina commedia. L’allegoria del Convivio, di cui s’era rinvenuta la genesi nei segnali anticipatori di Vita Nuova, XXV (“l’aprire per prosa”, il conseguimento del “verace intendimento” della poesia), e che nel II del Purgatorio viene sottoposta a critica e superata definitivamente, deve essere intesa come un tentativo dell’Alighieri di conseguire la finzione escatologica della Commedia, un tentativo destinato al fallimento (s’intenda, limitatamente al Convivio) a causa dell’ambivalenza e della contraddizione insite nella natura dell’allegoria. In questa, infatti, il significante rimanda al suo significato così come questo rimanda a quello, vale a dire che il senso “litterale” rimanda sì ad un senso allegorico, ma questo non può stare senza quello. Questa, e non altra è la natura dell’allegoria. Di qui l’oscillazione a cui è sottoposto il senso dell’allegoria, e dunque la poesia amoroso-allegorica, che è ben altra cosa rispetto al salto qualitativo che l’Alighieri imprime alla Commedia, la cui fabula si colloca per intero nell’oltremondo, dove, come si è già detto, il punto di vista da cui si guarda ai fatti del mondo è quello di Dio, e come tale è certo stabile immutabile. Secondo la finzione della Commedia, la condizione di dannati, peccatori e beati solo da questo punto di vista privilegiato ed assoluto è considerata. Ed è da questo punto di vista che ora l’Alighieri giudica l'”amoroso canto” di Casella: Catone irrompendo sulla scena idillica non ha dubbi: queste anime sono negligenti, sono “spiriti lenti”, tardano a spogliarsi “lo scoglio”. Neppure accenna alla canzone di Casella, solo vi allude nelle prime parole del suo rimprovero “Che è ciò…” in cui il pronome interrogativo ripreso dal dimostrativo significa e suona come severa censura del guardiano che non nomina neppure l’indegno oggetto del peccato; e così anche al v. 121: “qual negligenza, quale stare è questo?” avvertiamo nella ripetizione dell’aggettivo interrogativo “qual” una doppia preterizione, la volontà determinata di passare sotto silenzio ciò che del tutto si disdegna, e, pertanto, non si vuol neppure nominare. E noi lettori desumiamo proprio ex-silentio la condanna di Catone. Nessun recupero dell’esperienza stilnovistica, dunque, come vuole una parte della critica[25], o, se recupero v’è, esso è finalizzato alla rappresentazione di un mondo ideale e all’affermazione di una concezione della poesia del tutto diversa rispetto a quella della poesia amoroso-allegorica. Da questo contrasto nasce la forza drammatica del canto che ha in Casella e in Catone (si noti come siano dissonanti finanche i nomi) i protagonisti. L’Alighieri non giudica né teorizza, bensì rappresenta, e nella rappresentazione è implicito il giudizio – dal solo punto di vista che qui conta – sulla poesia della prima maturità dantesca, che, per la natura dell’allegoria, è allegorica in quanto è amorosa, sebbene valga sempre il contrario. E se il narratore per un attimo (nello spazio che intercorre tra i due avverbi dei vv. 113-114: “allor” e “ancor”) è stato solidale con l’attore, ora egli prosegue sollecito il suo racconto, come sollecita, anzi “subitana” è la “fuga” di Dante, di Virgilio e delle altre anime dinanzi all’incalzare di Catone:
così vid’io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e gire in ver la costa,
com’uom che va, né sa dove riesca:
né la nostra partita fu men tosta.
vv.130-133.
La conclusione del canto, adorna di una bella similitudine in tre terzine, vero pendant strutturale rispetto all’incipit, rende bene lo stato d’animo dei penitenti (“Come quando, cogliendo biado o loglio…”) e riconduce appunto le anime negligenti alla situazione iniziale, quando la turba, giunta sulla spiaggia del purgatorio, “selvaggia / parea del loco”, sigillando l’episodio in un circuito chiuso in cui pare si sia perso solo del tempo, in deroga alla legge purgatoriale, a causa del ricordo, della bella memoria del tempo passato, dell'”amoroso canto”. Ma, come sempre nell’Alighieri, anche questo episodio serve a porre una pietra in più per la costruzione del grande edificio della Commedia. Si sono regolati i conti col passato, si è mostrato l’esito ultimo della vicenda autobiografica dantesca nell’abbandono dell'”amoroso canto” (le anime in conclusione “lasciar lo canto”) e della teoria allegorica, e nell’assunzione della prospettiva escatologica cristiana come punto di vista giudicante.
Si ritorni ancora al v. 46, si riascolti ancora il salmo CXIII In exitu Israel de Aegypto, questo corale “introibo nel mondo dell’esaltazione della penitenza”[26], e si rammenti quanto dicemmo sulla contrapposizione poesia sacra – poesia profana e sull’esaurirsi della funzione della teoria allegorica del Convivio nella Commedia. A chi obiettasse che questo verso “con quanto di quel salmo è poscia scripto” ha il significato allegorico già fornito dall’Alighieri in Convivio II, i 7 come esempio del senso anagogico[27], e cioè la liberazione dell’anima dalla schiavitù del corpo e del peccato, risponderemmo che ciò è vero, ma che comunque non si deve perdere di vista l’ufficio particolare e diverso che l’allegoria è esplicitamente chiamata a ricoprire nelle due opere. Deve essere chiaro che, mentre nella Commedia l’allegoria, per dirla con A. Vallone, “esercita una spinta nel dare energia ed evidenza soprannaturale alla verità”[28], e, nello specifico, l’interpretazione allegorica del v. 46 ben si addice a significare la condizione delle anime che si devono purgare, al contrario, l’interpretazione allegorica del Convivio, così come l’autore l’ha teorizzata ed usata per “aprire per prosa” le proprie canzoni, ha valore solo ed esclusivamente strumentale. Nella Commedia l’allegoria è un modo della rappresentazione, nel Convivio è strumento fondamentale d’interpretazione (almeno nel II e III trattato), previsto dalla finzione autobiografica dantesca, ed ha in questa finzione la propria genesi e la propria spiegazione.
In conclusione, il canto II del Purgatorio, punto nodale dell’intera opera dantesca, ci appare come un momento di chiarificazione interiore, di stasi, di sosta necessaria a ritemprare le forze prima di riprendere il cammino che richiede un più vigoroso slancio verso l’eterno, un momento di riflessione, di raccoglimento, un tirare le somme prima dell’ascesa sulla montagna del purgatorio; ma un momento, anche, in cui l’Alighieri esprime in modo icasticamente compiuto, rappresenta in immagini oggettive sul cui senso assoluto, oltre l’umano, non è dato equivocare, l’esito ultimo e definitivo della sua finzione poetica, del suo modo esemplare di guardare alle vicende mondane (da cui nasce il significato universale della Divina commedia), dove il mondo, appunto, è fatto salvo, ma soltanto perché è recuperato nell’ottica escatologica di una realtà che infinitamente lo trascende.
Note
[1] F. Flora, Il II canto del Purgatorio, in Letture dantesche, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni, 1962, p. 716.
[2] A. Momigliano, commento al Purgatorio, Firenze, Sansoni, 1966, p. 273.
[3] M. Marti, Dolcezza di memorie ed assoluto etico nel canto di Casella (Purg.II), in Studi danteschi, Galatina, Congedo, 1984, pp. 86-87-88.
[4] M. Marti, Dolcezza di memorie ed assoluto etico nel canto di Casella (Purg. II), in Studi danteschi, cit., p. 94: “(…) indubbiamente drammatico s’è presentato alla nostra analisi il contrasto tra l’amoroso canto di Casella e l’intervento aspro di Catone”. A p. 90 leggiamo: “L’episodio di Casella non racchiude nel rapimento musicale tutt’intero ed autonomo il proprio significato; né lo rivela solo nelle famose parole di Dante (“l’ amoroso canto, – che mi solea quetar tutte mie voglie”), che quel rapimento preparano e giustificano; ma lo trae anche, e vorremmo dire soprattutto, dall’irrompere improvviso del solenne vegliardo, dalle sue parole di aspro rimprovero e di severa esortazione, che ci riportano al costante carattere dell’ispirazione dantesca. All’ansia dell’assoluto, perseguito nell’oblio e nello smarrimento e nell’incertezza, fa riscontro e contrasto la coscienza, la certezza dell’assoluto; anzi l’assoluto stesso. A Casella, Catone. E Casella e Catone sono come i due termini fondamentali del canto II del Purgatorio: quello dello stupefatto smarrimento, dell’incertezza un po’ lenta e nebbiosa, e l’altro dell’indiscutibile e assoluta sicurezza, della certezza salda ed infallibile”.
[5]Si legga in proposito il suggestivo (tutto in chiave lirico-musicale) commento al Purgatorio di A. Momigliano, cit., p. 274: “(…) “soavemente” disse ch’io posasse”. L’avverbio messo in principio del verso smorza così la scena che precede come quella che viene dopo, ed è il primo accordo della melodia: è una parola rivelatrice: “Allor conobbi chi era”; solo Casella poteva parlare così soavemente; Dante non lo riconosce all’aspetto ma alla voce: la personalità di Casella è tutta nella voce, nella sua anima musicale”. A monte, ma con intento per nulla estetizzante sta Benvenuto: “Hic poeta ostendit quomodo recognoverit istum spiritum ad loquelam dicens: “et illa anima soavemente“, sicut habuerat suavem vocem in loquendo et canendo” (in N. Sapegno, commento al Purgatorio, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 19853, p. 21).
[6] U. Foscolo, Discorso sul testo della Divina Commedia, in Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Edizione Nazionale delle Opere, vol. IX, parte prima, Le Monnier, Firenze 1979, p. 399. Ma leggi anche il Secondo articolo della Edinburg review (settembre 1818), in op. cit., p. 111.
[7] L’accenno è in A. Vallone, Purgatorio IV, in Strutture e modulazioni nella Divina commedia, Firenze, Olschki, 1990, p. 83. Si veda inoltre quanto scrive F. Flora, Il II canto del Purgatorio, in Letture dantesche, cit., p. 695: “E come dal dolce color d’oriental zaffiro cominciò il diletto dell’occhio, così dal canto ricomincerà il diletto dell’orecchio. Si direbbe che nell’Antipurgatorio Dante debba rinnovare i suoi sensi terrestri, dopo l’orrore d’inferno: e non è lontana la valletta con la soavità di mille odori e l’incognito indistinto. E’ un processo di liberazione: e qui i sensi si purificano e anzitutto il corpo terreno di Dante acquista levità e si spiritualizza all’estremo consentito per la materia che cinge uno spirito”.
[8]Cfr. M. Marti, Dolcezza di memorie ed assoluto etico nel canto di Casella (Purg. II), in Studi su Dante, cit., p. 90: “L’intervento della coscienza morale implica la presenza dell’illecito, se non del peccaminoso”.
[9] Cfr. il commento di N. Sapegno al Purgatorio, cit., p. 21.
[10] E. Pistelli, Il Canto di Casella (per nozze Bosshard-Baldi), Firenze 1907, p. 30: “Nulla potrebbe esprimere l’interesse scambievole dei due amici meglio di queste due domande rotte, rapide, quasi affannose (…). Dove i ma interrompono un altro discorso incominciato e significano ambedue le volte: ma lasciamo quel che riguarda me: parlami di te, ché questo solo mi preme”.
[11] Cfr. quanto scrive V. Russo, Il canto II del Purgatorio (1968), in Esperienze e/di letture dantesche, Liguori, Napoli, 1971, p. 66, secondo cui il comportamento di Virgilio in questo canto è “il primo segno del mutarsi e del graduale affievolirsi della funzione di Virgilio come guida unica e assoluta di Dante durante l’ascesa verso la sommità del Sacro Monte”.
[12] Cfr. il commento al Purgatorio di A. Vallone e L. Scorrano, Ferraro, Napoli 1986, p. 65.
[13] Cfr il suo commento al Purgatorio, cit., p. 276.
[14] Cfr. il commento al Purgatorio di T. Casini, a cura di S. A. Barbi (sesta edizione rinnovata e accresciuta), G.C. Sansoni Editore, Firenze, 1963, p. 357.
[15] Non è vero, dunque, come scrive E. Sanguineti, Canzone sacra e canzone profana, (1980) in Dante reazionario, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 157 che “questo Dante del Purgatorio è un narratore moralizzato e moralizzante, molto lontano da un qualsiasi cedimento indifeso alla seduzione di quelle “note”, e molto lontano, insomma, ormai, da quel personaggio che si rappresenta nel racconto”; occorre a nostro avviso distinguere sottilmente tra le funzioni del narratore e dell’autore, tenere presente che “questo” narratore, di “questo” II canto del Purgatorio appare correo del personaggio Dante, correità coerentemente voluta dalla strategia affabulatoria dell’autore. Del resto lo stesso Sanguineti sembra esserne persuaso quando, sulle orme del Fubini, ricorda che l’ “ancòra” del v. 114 segna “la tenace, l’inesauribile persistenza delle supreme emozioni” (ibidem). Il che deve essere attribuito a colui che narra, non a colui che ha agito.
[16] F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Einaudi, Torino 1955, p. 329.
[17] Cfr. M. Marti, Dolcezza di memorie ed assoluto etico nel canto di Casella (Purg. II), in Studi su Dante, cit., p. 89.
[18] Cfr. F. Flora, Il II canto del Purgatorio, in Letture dantesche, cit., p. 716.
[19] Ch. S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina commedia, cit., p. 48 con queste parole commenta il brusco intervento di Catone che interrompe il canto di Casella. L’irriducibile visione in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 503 il critico considera l’incontro con Casella come una delle “tentazioni” che ostacolano il ritorno all’Eden del protagonista, “in corrispondenza alle fiere della scena-prologo” della Commedia; “i nuovi “peregrini””, egli dice, “dimenticano la “terra promessa”, dimenticano di essere pellegrini”.
[20] E. Sanguineti, Canzone sacra e canzone profana, (1980) in Dante reazionario, cit., p. 158.
[21] V. Russo, Il canto II del Purgatorio, in Esperienze e/di letture dantesche, cit., p. 94.
[22] S. Pasquazi, All’eterno dal tempo. Studi danteschi, Roma, Bulzoni, 19853, p. 192. E aggiunge: “Questa [Beatrice] affermerà in modo esplicito il valore incomparabilmente più alto delle cose divine rispetto a quelle terrestri, ma tale affermazione non sarebbe sufficientemente preparata, se Catone non avesse rilevato fermamente e duramente l’insufficienza, il disvalore di quelle dolci cose terrestri rispetto alla più profonda e urgente esigenza di aprire le vie alla Grazia mediante la purgazione (…)”. Cfr. in proposito V. Russo, Il II canto del Purgatorio in Esperienze e/di letture dantesche, cit., pp. 96-98 e E. Sanguineti, Canzone sacra e canzone profana, (1980) in Dante reazionario, cit., pp. 158-159: “(…) con l’episodio di Casella è avviata quella più radicale autocritica che culminerà, nel paradiso terrestre, in cima alla montagna, con il pentimento e con il pianto di Dante, dinanzi alla ritrovata Beatrice”.
[23] E. Sanguineti, Canzone sacra e canzone profana, (1980) in Dante reazionario, cit., p. 154: “Ed è questa polarità di base, tra l’uno e l’altro evento musicale, quella che regge e governa l’intero tratto narrativo”.
[24] G. Gorni, La nuova legge del Purgatorio, in Lettera numero nove. L’ordine delle cose in Dante, Le Lettere, Firenze 1990, p. 209.
[25] Cfr. ad esempio l’interpretazione di V. Russo, Il canto II del Purgatorio, in Esperienze e/di letture dantesche, cit., pp. 94-95, secondo cui “l'”età fervida e passionata” della Vita Nuova, l’esperienza amorosa e lirica della giovinezza si rivela via via alla coscienza e alla memoria di Dante con una sua validità allora non percepita, e come la prima esperienza mistica del suo spirito, come l’età innocente e felice perduta, come il suo Eden smarrito, a cui può ora ritornare l’anima pellegrina”. Noi crediamo, come abbiamo tentato di dimostrare, che molto più duro e per nulla idillico sia il rapporto tra l’Alighieri maturo e la sua esperienza lirica giovanile, sottomessa in questo canto (ma non solo) a indubitabile, ferma, severa critica.
[26] Cfr. M. Marti, Dolcezza di memorie ed assoluto etico nel canto di Casella (Purg. II), in Studi su Dante, cit., p. 96: “Sulla coralità del Purgatorio dantesco ha scritto indimenticabili e forse insuperabili pagine, come tutti sanno, Francesco De Sanctis. A noi si permetta di insistere sul suo carattere ecclesiastico, liturgico, gregoriano. Tutta la montagna del Purgatorio ci appare come un’immensa basilica affollata di riti e risuonante dei canti e delle preghiere dei fedeli. “In exitu Israel de Aegypto” è come l’introibo nel mondo dell’esaltazione della penitenza; è come l’antifona di un lungo ufficio divino, di cui gli angeli sono in certo senso gli officianti, a partire dalla prima benedizione dell’Angelo traghettatore”.
[27] Ma si veda anche Epistola, XIII, 21. Cfr. Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divima Commedia, cit., p. 121: “Il versetto della Scrittura che dice “In exitu Israel de Aegypto” ha il suo primo significato in quanto denota un evento storico reale e ha il suo secondo significato perché quello stesso evento storico, essendone Dio l’Autore, può significare un altro evento ancora: la nostra Redenzione per Cristo. Il primo è un significato in verbis; il secondo è un significato in facto, contenuto nell’evento stesso. Le parole hanno un significato reale in quanto indicano un evento reale; l’evento ha a sua volta significato perché gli eventi (che sono opera di Dio) danno anch’essi, come le parole, un significato, un senso superiore e spirituale”.
[28] A. Vallone, Dante, Milano-Padova, Vallardi-Piccin, 19812, p. 526.