L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo X. La nuova finzione autobiografica dantesca della “Divina Commedia”

Nella Commedia l’Alighieri riprende il personaggio autobiografico, il narratore che in prima persona racconta la vicenda di cui è stato protagonista, un personaggio che ha, dunque, le stesse funzioni individuate nella Vita Nuova e nel Convivio; ma ora egli è l’umile peccatore smarrito, alla ricerca d’una via di salvezza, sullo sfondo d’una scena paurosa che bene ne riassume lo stato d’animo (la selva oscura). A chi ci chiedesse dove noi collochiamo questa selva oscura, poiché sull’argomento l’Alighieri tace, risponderemo che essa è dentro la coscienza del pellegrino, ottenebrata dal peccato, – “un peccato intellettuale”, “dal significato ideale, non biografico”[3] – che aspira alla salvezza spirituale simboleggiata dal dilettoso colle illuminato dalla luce divina.

L’Alighieri riconosce così, nel traviamento morale del protagonista, che pure è animato da un intenso anelito per la verità, l’antica tragica colpa del poeta-amante delle opere giovanili e della prima maturità. S’intenda: qui, col termine colpa, non si vuol fare riferimento a un preciso fatto biografico che abbia turbato la vita dell’autore, bensì a una funzione narrativa di cui è interprete il personaggio-Dante, fondamentale per tutta l’architettura dell’opera, senza la quale il viaggio dantesco nell’oltretomba non avrebbe la sua motivazione. Ricordiamo che nella Vita Nuova e nel Convivio la finzione consisteva proprio nella dialettica tra passione terrena e aspirazione celeste, tra colpa e redenzione, tanto che il poeta-amante era stato a lungo censurato dal commentatore; e che da questa finzione era scaturita la frattura tra senso “litterale” e senso allegorico, tra poesia e prosa, tra poeta e commentatore. Tutto ciò ora è negletto, altra è la storia. E tuttavia, se è vero che il poema comincia “in medias res”, in omaggio “al procedimento lodato da Aristotele nell’autore dell’Iliade”, necessariamente “le “res prime” di quel cammino” devono essere individuate nella vicenda giovanile e della prima maturità dantesca[4], come sono state narrate dall’Alighieri nella Vita Nuova e nel Convivio.

Nell’oltretomba è trasferita ora la scena della finzione dantesca. Non più la innominata “cittade” della Vita Nuova, non più le città d’Italia per le quali vagava l’ exul immeritus protagonista del Convivio, bensì i tre regni ultraterreni, un paesaggio che con Bàrberi Squarotti definiamo escatologico[5], l’unico nel quale la vera vita di ogni cristiano si realizza per l’eternità. Come si comprende, vi è un allargamento di orizzonte e di prospettiva, che da solo serve a dare la misura del salto di qualità a cui Dante sottopone la propria vicenda autobiografica e la stessa “destinazione della poesia”. Dante si ripresenta a noi non più solo nelle vesti di poeta, di filosofo, di esule, ma in quelle di un uomo che vive, per grazia divina, in una dimensione eterna del tempo, e in essa, attingendo al giudizio di Dio, può ergersi a giudice dell’umanità corrotta; al contempo, “l’uditorio ristretto a pochi iniziati è diventato platea e il circolo giovanile fiorentino si è allargato ad assemblea universale di popoli accomunati e retti da leggi civili”[6].

La selva oscura è sfondo iniziale, punto di partenza e, se ci è concesso di vedere in essa il male del mondo oltre che il rispecchiamento della coscienza dell’attore ottenebrata dal peccato, punto d’arrivo del pellegrino[7]. Virgilio alla fine del I canto dell’Inferno riassume il percorso: dalla selva oscura del mondo (che subito conviene abbandonare) fino a Dio, attraverso i tre regni dell’oltretomba; e ritorno alla terra, che sarà ancora selva oscura; ma il poeta questa volta potrà illuminarla, e cioè, se dobbiamo prestar fede all’epistola a Cangrande, potrà “removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” (Epistole XIII, 39). La Divina Commedia presenta, dunque, una struttura circolare, segno indubitabile di perfezione divina[8].

E tuttavia il vero luogo in cui si svolge l’azione della Divina Commedia è il mondo ultraterreno; verso quel mondo l’autore ci aveva indirizzati, direi spinti, con l’ansia di chi sa di esserne lontano. E diceva il vero M. Marti quando rinveniva nelle canzoni allegoriche del Convivio “una lucida tensione verso l’ineffabile” e “un’incalzante e insopprimibile brama di conoscenza e di verità”[9], sempre che si intenda con ciò lo stato potenziale, di mero conato, di quella tensione, irretita dalla irrisolta dialettica “littera”-allegoria. In realtà, morta Beatrice, da quel mondo Dante aveva rischiato addirittura di rimanere escluso, se è vero che della “gentilissima” il poeta neppure più tentava di parlare, auspicando però di poterlo fare dopo lungo studio, “più degnamente”.

Placare i contrasti terreni, trasferendo azione e narrazione in un mondo “altro”, anche questo può significare la teoria allegorica del Convivio. Bisogna riconoscere che l’aspirazione ad un significato “altro” rispetto alla “littera”, che pure ha le serie motivazioni espresse dal narratore del I trattato del Convivio, mostra in forma relativamente latente la tensione verso un ideale di rappresentazione che stenta ancora a nascere, e che invece nella Commedia è un dato definitivamente acquisito:

(…) lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza, che piena è di tutta pace: la quale non soffera lite alcuna d’oppinioni o di sofisticati argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. (Conv. II xiv, 19)

Si avverte in queste parole il desiderio di superare le astratte distinzioni e le argomentazioni condotte con rigido metodo scolastico, e di trasferire la fabula su un piano assoluto, privo di contrasti, “dove il male e il bene appaiono liberi da dubbi e da ombre, per il giudizio divino che li fa assoluti”[10], e finalmente un unico punto di vista possa avere ragione d’ogni fraintendimento. Questo desiderio rimane nel Convivio irrealizzato, ma intanto esso dimostra chiaramente che l’Alighieri ha già posto le premesse per una trasformazione radicale della fabula.

Nella Commedia, di colpo, il personaggio-Dante trova dinanzi a sé Virgilio, di colpo quel mondo che sembrava inattingibile e di cui soltanto l’interpretazione allegorica ci aveva dato molte erudite nozioni, diventa l’unica realtà che la finzione propone, il paesaggio che l’attore dovrà visitare, la via diritta che può e deve essere percorsa. L’allegoria nel Convivio rimandava ad “altro” da sè. Bene: ora siamo nell'”altro”; già Virgilio in Inf. I, 91 dice al suo discepolo:

“A te conviene tenere altro viaggio”;

“Altro”, in questo caso, rispetto al percorso impervio e pieno di ostacoli della selva in cui il protagonista è rimasto irretito. Sarà, dunque, un viaggio nell’oltremondo, quale i cristiani del Medioevo, la fervida fantasia dantesca e la sua rigorosa dottrina  potevano raffigurare [11].

Ora, il mondo ultraterreno ha questo di peculiare, esso non tollera la vecchia interpretazione allegorica. Si badi: non stiamo negando la presenza dell’allegoria nel poema dantesco, ma neghiamo – e già G. Gentile dimostrava di saperlo bene[12]– che essa sia utilizzata dal poeta della Commedia così come era stata teorizzata dal prosatore del Convivio, e neghiamo, dunque, che il critico a sua volta possa utilizzare quella teoria per l’interpretazione della Commedia.

Nel Convivio l’interpretazione allegorica risponde alla precisa strategia del commentatore che deve in ogni modo eliminare il fraintendimento dell’opera poetica giovanile. Essa è un elemento interno dell’opera, con la sua funzione scaturita naturaliter dalla vicenda giovanile narrata nella Vita Nuova.

Nella Commedia il punto di partenza è nel riconoscimento (da parte del narratore) dello status di peccatore del protagonista, il che non comporta alcun fraintendimento della poesia. L’Alighieri, cioè, non ha più bisogno di compensare le debolezze dell’attore (in primo luogo amante) con la dottrina del commentatore, perché nei regni dell’oltretomba ogni scissione è ricomposta nell’osservanza della legge divina. Le funzioni dell’attore e del commentatore dovranno pertanto essere ridefinite.

I primi ostacoli che l’attore incontra nel tentativo di cercare la salvezza sul colle, la lonza, il leone e la lupa, sono allegorie pure e semplici dei peccati che rendono l’uomo incapace di sollevarsi a Dio; allo stesso modo, nella processione mistica di Purg. XXIX, i sette candelabri, i quattro animali, il grifone e il carro, secondo la più attendibile interpretazione, sono le allegorie rispettivamente dei sette dono dello Spirito Santo, dei quattro evangelisti, di Cristo e della Chiesa; qui l’allegoria non fa che confermare e ripetere con una ridondanza retorica quanto il lettore può apprendere senza incorrere in alcun fraintendimento dell’intenzione poetica di Dante. E si noti che negli esempi su riportati il senso “allegorico non è “altro” rispetto al senso “litterale”, poiché quest’ultimo ha perduto la propria autonomia di significato. “In altri termini”, per dirla con A. Pagliaro, “non è criticamente possibile separare nella Commedia la lettera e l’allegoria, perché esse si uniscono nel simbolo, in cui il significante e il significato costituiscono un’unità quasi come nel segno linguistico”[13]. Naturalmente il lettore saprà stabilire il significato dell’allegoria o avvalendosi delle proprie conoscenze letterarie (bibliche e patristiche), oppure grazie alle indicazioni dell’autore medesimo, come accade per esempio in Purg. XXIX, 96 e segg., dove per intendere il senso della descrizione dei quattro animali l’autore rimanda esplicitamente a Ezechiele I, 4. Si dànno anche casi, e sono i più numerosi, in cui il lettore è lasciato libero di rinvenire a sua posta il significato dell’allegoria; di qui l’infinito numero di interpretazioni del dettato dantesco, e, per dirla col De Sanctis, “l’eterno battagliare de’ commentatori”[14]. Ad esempio, il Veltro del I canto dell’Inferno può essere identificato con chicchessia, ma resta in definitiva il liberatore del mondo dal male e dal peccato[15].

Nel Convivio, dunque, l’allegoria offre il “verace intendimento” della poesia quale il commentatore intende ripristinare contro il fraintendimento del lettore; nella Commedia, invece, essa è funzionale a una più efficace descrizione di ciò che compare nell’aldilà agli occhi dell’attore, e ha tutto il sapore della realtà “altra” rispetto a quella del mondo terreno ormai abbandonato.”Ciò che Dante vedrà è già un ordine ferreo e incrollabile, in cui l’umano e il contingente s’inquadrano secondo un giudizio certo e definitivo”[16] .   

La finzione ultraterrena richiede una narrazione svincolata dall’allegoria così come è teorizzata in Convivio, II, i. Importanti sono, a questo riguardo, gli studi di Charles S. Singleton che distingue l'”allegoria dei poeti”, propria del Convivio, da quella dei teologi, propria della Commedia[17]. Questa distinzione, per quanto artificiosa possa apparire, deve insegnare a evitare ogni interpretazione della Commedia fondata su canoni ermeneutici presi in prestito dal Convivio. Di fatto è cambiata la prospettiva, il punto di vista da cui l’Alighieri guarda alla propria opera e alla propria vicenda autobiografica; come si è visto, l’aspirazione all’assoluto, si è trasformata in una perenne acquisizione – nell’ambito della finzione narrativa – dell’assoluto medesimo, che integra entro di sé ogni possibilità d’errore ed elimina sistematicamente l’opinabilità della stessa dottrina. Non più il poeta dirà ciò che è vero e ciò che è falso, bensì la verità rivelata del cristianesimo fornirà il sostegno all’azione e garantirà la veridicità di quanto il poeta dirà d’aver visto.

Non si può che concordare col Singleton quando riconduce il mondo dantesco della Commedia entro i suoi naturali confini teologici ed escatologici, quelli ideati e voluti dal poeta. L’allegoria della Commedia è l’allegoria dei “teologi”. Ma a limitare la genericità e dunque la parzialità dell’affermazione del Singleton, varrà citare Harold Blomm, secondo il quale la teologia, su cui appunto si fonda l’interpretazione del Singleton, “non è il suo [di Dante] padrone ma la sua risorsa, una delle tante”[18]. Certamente la più importante, aggiungiamo noi, almeno in relazione alla finzione oltremondana, per i motivi che cercheremo di individuare e spiegare.

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Quel che occorre spiegare è perché l’Alighieri abbia assunto la teologia come proprio materiale fabulistico, per quale fine l’abbia utilizzata nell’opera della sua piena maturità. La risposta a queste domande getterà nuova luce sull’uso dell’allegoria nel Convivio, e spiegherà anche il significato del passaggio dal Convivio alla Comnmedia.

Si noti che il procedimento critico del Singleton non è privo di rischi. Al critico spetterebbe il compito di rinvenire la struttura analogica del poema, nel suo doppio livello simbolico e allegorico[19]. A tal fine egli dovrebbe conoscere le linee fondamentali, gli “schemi” della cultura e della mentalità cristiana medievale, attraverso lo studio attento degli autori che Dante conosceva direttamente o indirettamente, nella consapevolezza che “Dante non costruiva il poema su un disegno nuovo, né tesseva trame romanzesche di sua invenzione”[20]. Come si vede, il problema dell’allegoria è ricondotto dal critico americano al problema delle “fonti” della Commedia, con la variante che ora l’analogia è considerato il principio informatore dell’opera dantesca, cui allegoria e simbolo rimangono sottoposti. Infatti, per dirlo in altro modo, ma sempre con le parole del critico, “il poeta cristiano ha “imitato” il miglior modello possibile, la realtà più vera che conoscesse”[21], cioè, rispettivamente la Sacra Scrittura e il mondo reale, entrambi derivanti da Dio. Questa impostazione critica dà buoni frutti qualora sia suffragata da un’attenta ricerca delle “fonti”, come è nel caso del Singleton, ma poggia su un principio (l’analogia) che rischia di rivelarsi fragile, se maneggiato da persone poco accorte. Come il metodo allegorico, preso a sé, risulta arbitrario, poiché ogni cosa rimanda ad “altro” ad libitum, così insufficiente ci appare il metodo analogico, poiché per ogni elemento della rappresentazione dantesca il critico sagacissimo saprà trovare, attraverso lo studio degli autori medievali, un riferimento analogico. Questa ricerca, d’altro canto sempre auspicabile nella misura in cui fornisce continui arricchimenti alla conoscenza dell’autore, della sua cultura e dei materiali che egli utilizzò, lascia in noi, oltreché il rammarico di veder costruito “un Dante dottrinale, a tal punto astrusamente dotto e sorprendentemente pio da poter essere afferrato a pieno solo dai professori americani”[22], anche una sensazione di lavoro incompleto e un senso di insoddisfazione; la rincorsa delle “fonti” ad infinitum[23], se da una parte ci rende edotti sui materiali utilizzati dall’autore, dall’altra ci certifica della sostanziale incomprensione critica delle strutture fondamentali della finzione dantesca. L’accertamento delle implicazioni analogiche del poema, verificabili attraverso lo studio dei testi teologici di S. Agostino, Alberto Magno, S. Tommaso, S. Bernardo e altri, è giustificato per il fatto che ci troviamo davanti a un’opera d’arte che è  una summa del sapere dell’epoca, e come tale richiede anche lo spoglio critico delle “fonti”[24]. Ma la Commedia, come ogni opera d’arte, ha una sua dimensione originale, che è individuabile nello scarto culturale che la separa dalle opere precedenti, ma anche nelle sue ragioni interne, da cogliere attraverso l’esame critico delle strategie di scrittura dell’autore. Lo scopo della nostra ricerca è di individuare proprio queste strategie e di comprendere il modo originale nel quale l’Alighieri costruì, modificandola nel tempo, la sua opera, poiché è certo che l’Alighieri ha “piegato la tradizione al punto da adeguarla alla propria natura”[25], come è proprio dei grandi poeti.

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La tensione verso l’alto, l’impulso ascensionale, lo slancio verso l’ultraterreno che animava la poesia e la prosa del Convivio, che tuttavia rimaneva irretito nella dialettica “littera”-allegoria, matura nella Commedia come consapevole scelta di una nuova finzione, che propone una realtà diversa rispetto a quella ancora stilnovistica (ma non mancava anche un’eco cortese) della vicenda giovanile e tardo-stilnovistica (allegorica) della prima maturità dantesca. Percorrendo i regni di Dio, verso Dio Dante ora è diretto; nessuna dialettica terra-cielo, nessun dissidio interiore, se non quelli già oggettivati e risolti nel racconto da un potentissimo narratore che ha raggiunto in quanto attore la ferma e sicura posizione di colui che tutto ciò che sa, dice, con l’aiuto di Dio. In questo egli presenta una grande somiglianza col narratore della Vita Nuova che pure conosceva l’intera vicenda di cui era stato protagonista; ma è da lui differente, poiché quel narratore avallava una vicenda in cui l’aspirazione a Beatrice, figura Christi, non era riuscita a nascondere del tutto l’amore giovanile per la fanciulla fiorentina. Inoltre, il narratore della Vita Nuova rievocava la propria esperienza, rammemorava il proprio passato (si ricordi la celebre metafora del “libro de la memoria” nell’incipit), mentre il narratore della Commedia, attinge ora ad un punto di vista più alto, superiore ad ogni contrasto, in cui anzi ogni contrasto si placa e muore. Al termine del suo viaggio il narratore racconta con rinnovata metafora – eppure così contigua a quella della Vita Nuova -, ciò che vide al cospetto di Dio:

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna.

(Par. XXXIII, 85-87)

L’Alighieri ha semplicemente sostituito al “libro de la memoria” della Vita Nuova, il “volume” che contiene tutto l’universo, il quale, appunto, si “squaderna”, cioè si manifesta come le lettere nelle pagine sfogliate d’un quaderno. In realtà, dietro il “libro de la memoria” v’è il tumultuoso mondo poetico giovanile, mentre dietro il “volume” è la lunga esperienza dell’Alighieri, di tutta la sua vita, trasposta nella finzione poetica della visione escatologica cristiana. Il “volume”, come dicevamo, contiene tutto,

sustanze e accidenti e lor costume,

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch’io dico è un semplice lume

(Par. XXX, 88-90).

Il narratore non è in grado di riferire tutto ciò che ha visto, nel modo in cui l’ha visto, a causa dell’insufficienza, dell’inadeguatezza della natura umana.

(“…il mio veder fu maggio

che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, 

e cede la memoria a tanto oltraggio,

(Par. XXXIII, 55-57))

Si noti ancora l’analogia e la differenza con quanto il narratore della Vita Nuova precisa nell’incipit dell’opera, e cioè che è suo “intendimento” di “assemplare” le parole del “libro de la memoria”, “e se non tutte, almeno la loro sentenzia” (I, I). Ora, mentre nel “libello” l'”intendimento”, o il “verace intendimento” (cap. XXV) del narratore si giustifica con la volontà determinata di chi si è proposto di selezionare l’opera passata e di darne un’interpretazione destinata a smentire ogni detrattore, nella Commedia, invece, con grande umiltà, il narratore spiega che ciò che dice “è un semplice lume” rispetto alla gran luce divina, e ciò a causa della sua debolezza di uomo-peccatore. Si tratta di un’affermazione coerente con la finzione oltremondana della Commedia, laddove nella Vita Nuova la “sentenzia” di un narratore responsabile delle sue scelte operava una sintesi delle cose da dire, riportandole dal “libro de la memoria”.

Nella Commedia il narratore attinge ad un punto di vista più alto, superiore ad ogni conflitto[26]; egli scrive il suo poema secondo il punto di vista di Dio, quel “vero in che si queta ogne intelletto” (Par. XXVIII, 108). Giusta pertanto è la definizione di “poema sacro” (Par. XXV, 1) e di “sacrato poema” (Par. XXIII, 62) a cui ha posto mano e cielo e terra (Par. XXV, 2). Il vero narratore, in definitiva, è Dio, ed a Dante è solo delegato il ruolo di scriba Dei (in Par. X, 27 è detto: “quella materia ond’ io son fatto scriba”). Né ci sembra legittimo e sensato chiedersi se l’Alighieri abbia o no creduto alla sacralità della sua poesia, e dunque alla realtà del suo viaggio. Quel che importa è la verità della sua opera che permane nel tempo e richiede la puntualità dell’analisi critica.

A questo punto, memori della struttura prosimetrica della Vita Nuova e del Convivio, ci chiediamo che senso avrebbe avuto mantenerla ancora nella Commedia. Noi sappiamo che la sovrapposizione poesia-prosa delle opere giovanili e della prima maturità dell’Alighieri era nato proprio dalla scissione poeta(amante)-commentatore, laddove ciò che il cuore “dittava dentro” la ragione doveva rivedere e correggere; nella Commedia tutto questo non è più, perché altra è la fictio. Chi da Dio ha avuto la grazia di percorrere i tre regni dell’oltretomba, e di narrare questo viaggio, è ben certo che saprà raccontare quanto ha visto agli uomini che continuano a peccare sulla terra; questo narratore sarà la voce di Dio, della quale nessuno potrà dubitare. La finzione della Commedia richiede la trasposizione dell’intero mondo intellettuale dell’Alighieri nell’oltretomba, che per un uomo medievale, non lo si dimentichi, “è la vera realtà”, mentre “il mondo terreno è soltanto “umbra futurorum””, secondo la precisazione di Auerbach[27]. Nell’oltretomba, dunque, l’assolutezza e l’insindacabilità del giudizio sono motivate dal volere divino; sicché il critico che non prenda atto di questo fondamentale punto d’approdo del percorso dantesco, procurerà all’opera agganci più o meno saldi con la cultura del tempo in cui fu prodotta, ma rimarrà preda della sua letterarietà, cioè non capirà come e perché l’opera funziona, i suoi meccanismi interni, in quanto non avrà studiato e compreso la sua genesi. L'”avventura anagogica”, secondo la felice definizione del Pasquazi[28], ha valore euristico solo se la si considera come la rappresentazione ultima e definitiva della finzione dantesca nata con la prosa della Vita Nuova, scenario ultraterreno cui Dante è giunto dopo un lungo cammino, dal tempo all’eterno, appunto, dove il giudizio su uomini e cose diventa assoluto e non più confutabile. Con questa nuova finzione il lettore ha da fare sin dai primi canti della Commedia.

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I primi due canti dell’Inferno rifondano la fabula delle opere giovanili e, dunque, la funzione dei personaggi che già conosciamo. Un’autorevole voce di narratore comincia a raccontare una storia della quale dice d’essere stato protagonista:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

che la diritta via era smarrita

(Inf. I, 1-3).

Lo smarrimento del protagonista ha luogo, se è lecito dedurlo da Convivio IV, xxiii, nel suo trentacinquesimo anno d’età, nel 1300, l’anno del giubileo, dunque in un tempo sacro. Il trepidante agens ha smarrito “la diritta via” ed ora si trova “per una selva oscura”: è il punto di partenza del suo viaggio nei tre regni dell’oltretomba. Sogno, visione o semplice immaginazione, certo è che il narratore deve in qualche modo giustificare un’azione che esula da ogni possibilità umana e potrebbe apparire inverosimile agli occhi del lettore. La verosimiglianza del racconto esige una più che solida motivazione.

Ma io perché venirvi? o chi ‘l concede?

Io non Enea, io non Paolo sono:

me degno a ciò né io né altri crede.

(Inf. II, 31-33).

Questo dice il protagonista a Virgilio, ed il narratore subito provvede a motivare l’insolito viaggio. Ma intanto, se non è né Enea né Paolo, chi è l’attore di questo viaggio?

In Purg. XXX, 55 Beatrice pronuncerà il nome di “Dante” (“Dante, perché Virgilio se ne vada”), e pertanto questo nome noi siamo autorizzati ad assegnare al protagonista, sebbene il narratore della Commedia, memore di Convivio I, ii precisi, subito dopo, d’averlo registrato solo “di necessità” (Purg. XXX, 63). “Dante”, dunque, chiameremo il personaggio autobiografico, il peccatore che si aggira nella selva oscura, attratto tuttavia sul colle dai “raggi del pianeta/ che mena dritto altrui per ogni calle” (Inf. I, 17-18).

Ogni suo tentativo di salire sul “dilettoso monte” è destinato a fallire: tre fiere, che sembrano scolpite nella pietra di una cattedrale, “forme icastiche di una verità interiore”[29], lo ostacolano e respingono, impedendogli la ricerca e l’acquisto della salute. Come si comprende, è questa una situazione fortemente drammatica; ritroviamo il senso della tragica colpa del personaggio autobiografico delle opere giovanili, oggettivato in una figurazione simbolica, in “una visione che ha tutte le caratteristiche dell’incubo”[30]. Ma questa volta l’incubo prelude al risveglio liberatorio, la situazione di blocco, di stasi forzata, di movimento impedito cui è costretto il protagonista è la premessa alla salvezza che può e deve essere acquistata dopo un lungo e faticoso cammino.

L’antico poeta della propria vicenda amorosa, il dotto commentatore delle canzoni allegoriche, l’amatore di sapienza, l’esule ingiustamente perseguitato che inutilmente aveva rivendicato la propria “bontade”, lo ritroviamo così, solo, in una selva oscura, peccatore, animato tuttavia da un intenso desiderio di redenzione e da un’aspirazione alla salvezza spirituale. Rispondendo a Virgilio, in tono di meraviglia e di profonda venerazione, Dante dice:

Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,

tu se’ solo colui da cu’ io tolsi

lo bello stilo che m’ ha fatto onore

(Inf. I, 85-87).

Con queste parole l’autore, presentando Virgilio, ripresenta anche il personaggio autobiografico dantesco come persona dotta, discepolo d’un insuperabile auctor, e già noto ed onorato poeta (delle rime giovanili e delle canzoni allegoriche) [31]. E tuttavia questo dotto ed onorato poeta sarebbe condannato a rimanere nel suo stato peccaminoso (egli è ricacciato nella selva dalla lupa), se un personaggio di antica memoria, e di cui egli aveva insistito a dire di non voler parlare, se non dopo lungo studio, in futuro, “più degnamente”, Beatrice, non fosse stato mandato dalla Vergine Maria, per intercessione della santa protettrice di Dante, Lucia, in suo aiuto. Beatrice così spiega a Virgilio, e questi riferisce a Dante, il complesso meccanismo dell’intervento celeste:

Donna è gentil nel ciel che si compiange

di questo impedimento ov’ io ti mando,

sì che duro giudicio là su frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando

e disse: -Or ha bisogno il tuo fedele

di te, ed io a te lo raccomando-.

Lucia, nimica di ciascun crudele,

si mosse, e venne al loco dov’ io era

(…) (Inf. II, 94-101).

L’antefatto contribuisce a consolidare la motivazione del viaggio ultraterreno. Le tre donne celesti, e quindi Dio stesso, inducono Dante al viaggio, il che vuol dire che Dante è stato eletto dalla grazia divina. Chi chiedesse ulteriori garanzie della veridicità del viaggio dantesco, non deve far altro che leggere l’opera; in essa l’ordinamento topografico dell’oltremondo, strettamente congiunto all’ordinamento morale, non del tutto ascrivibile alla fervida fantasia dantesca, bensì alle conoscenze ed alle speculazioni del tempo, è descritto in modo tanto realistico da dare verosimiglianza al racconto del viaggio ultraterreno. Insomma, l’autore rischia l’accusa d’essere blasfemo (“Come può Dante conoscere quello che è lo status animarum post mortem?”[32]) per la sua “inaudita audacia”[33], e per questo egli punta tutto sul realismo della finzione poetica ossia della rappresentazione fondata sulla “poetica del vedere e del far vedere“, come ha ben messo in luce T. Wlassics[34], che conferisce verosimiglianza all’evento narrato. Il viaggio è veramente accaduto, in un luogo che realmente esiste: almeno di questo il lettore cristiano non dubiterà. L’esistenza del luogo, la sua “visibilità” diventano prova della veridicità del viaggio, confermano che in un luogo reale si muove l’esperienza dell’autore, e ciò – come si è detto – contribuisce alla verosimiglianza del racconto. Per dirla col Singleton, “il mito di Dante è assolutamente inseparabile dalla verità riconosciuta dal poeta e dal suo tempo”.[35] I dubbi e le facezie delle donne veronesi del racconto boccacciano non inficiano minimamente la serietà della motivazione dantesca[36].

La natura ultraterrena di questa motivazione non esclude la personalizzazione della motivazione medesima. Si richiami alla mente quanto il narratore del Convivio affermava nel I trattato a proposito del parlare di sé. Per due motivi è lecito parlare di sé: per evitare l’infamia e per giovare agli altri. E già si vide da quale infamia il narratore del Convivio correva il rischio di essere oltraggiato, e quale giovamento egli poteva dare agli altri con la propria dottrina[37]. Nella Commedia la paura di essere infamato si trasforma in angoscia per la dannazione eterna (“la notte ch’io passai con tanta pietà” di Inf., I, 21 prefigura anche il castigo dopo la morte); il pericolo qui non è esterno, ma interno, non è di natura terrena, ma ultraterrena, non è costituito da coloro che hanno frainteso e condannato all’esilio il poeta, ma dal peccato che angustia l’animo suo e potrebbe dannarlo per l’eternità. Agli altri poi Dante gioverà con la propria dottrina, la quale però questa volta non sarà destinata ad un fine personale (illustrare il vero significato delle proprie canzoni, come nel Convivio), bensì sarà destinato ad un fine pratico, morale, divulgare nel mondo la verità divina. Alla fine del suo viaggio, Dante, in quanto narratore, mostrerà teleologicamente, cioè vedendo dalla fine, ciò che ha visto, ed in questo modo dissuaderà gli uomini dal commettere ancora il male. La visione dalla fine, difatti, non può che essere condotta dal punto di vista di Dio, termine e mèta ultima del viaggio dantesco[38].

Beatrice recupera nella Commedia il ruolo attivo che le era stato negato nelle opere giovanili e della prima maturità fin dalla sua morte. La “gentilissima” è qui l’ultima mediatrice della volontà divina, l’ultimo anello della catena che lega Dio all’uomo; e si noti che non per sua iniziativa Dante intraprende il viaggio! Il dato personale, autobiografico, è ridotto in secondo piano, ma permane ad attestare il processo di approfondimento dell’antica fabula. L’allegoria, infatti, riveste con un manto teologale la fanciulla fiorentina. È difficile liberarsi dall’idea che con ciò Dante stia adempiendo al suo impegno giovanile formulato nella Vita Nuova e confermato nel Convivio, ed è difficile credere che la pervicacia di Dante sia tale da imporgli la ripresa del personaggio, la sua rifondazione come allegoria della scienza delle cose divine. Eppure l’incredulità del critico deve arrendersi dinanzi a questa mente così coerente, consequenziale, matematica. Beatrice da fanciulla diviene donna della salute, quindi angelo, poi donna di cui è bene non parlare più, poi ancora donna di cui solo dopo lungo studio si potrà parlare, e infine Teologia, colei che guiderà Dante nel paradiso, nei cui occhi, lungi da qualsiasi schermo, il protagonista potrà venerare la divina sapienza. Poi Beatrice lascerà il posto a San Bernardo a cui è affidato il compito ultimo di esaminare il pellegrino; solo dopo questo esame Dante sarà degno di presentarsi dinanzi a Dio, e solo allora l’autore avrà giustificato a posteriori il lungo itinerarium ad Deum del protagonista.

Per intanto Virgilio ha il compito di condurre Dante nei primi due regni dell’oltretomba, fino a coloro che

(…) speran di venire

quando che sia a le beate genti.

A le qua’ poi se tu vorrai salire,

anima fia a ciò più di me degna:

con lei ti lascerò nel mio partire;

(Inf. I, 119-123)

È inutile dire che questo programma verrà rispettato. Difatti, quando ancora Dante crede d’aver bisogno di lui, Virgilio scompare per lasciare il posto a Beatrice:

Ma Virgilio n’ avea lasciati scemi

di sé, Virgilio, dolcissimo padre,

Virgilio a cui per mia salute die’ mi;

(Purg., XXX, 49-51)

Il significato di questi “versi angosciosi in cui Dante esprime” “l’improvviso dileguarsi di Virgilio all’apparire di Beatrice” è chiaro: la ragione umana, esaurita la sua funzione, vien meno dinanzi alla teologia [39].

Naturalmente questa finzione dell’opera non nasce ex nihilo, bensì presuppone una elaborazione lunga e complessa, maturata altrove. Alla fine della Vita Nuova il personaggio autobiografico, essendo Beatrice morta, era stato soccorso e consolato dalla donna pietosa e gentile che nel Convivio il senso allegorico mutava in Filosofia. A costei il protagonista si era affidato come a sicura guida. Ebbene, nel mondo ultraterreno della Commedia, Virgilio eredita la funzione della donna pietosa e gentile o Filosofia, impersonando egli la ragione filosofica e poetica[40]. E si noti l’approfondimento e la rifondazione del personaggio – il che comporta una vera e propria metamorfosi – la cui rappresentazione perde in astrattezza ed acquista in umanità: egli è il padre, il “dolcissimo padre”, a cui Dante si affida per la sua salvezza. Virgilio, come s’è detto, cederà a Beatrice, che pertanto ne assumerà e completerà la funzione. Giustamente B. Nardi, constatata l’inevitabile interruzione del Convivio, notava che nella Commedia “il simbolo della donna gentile doveva svanire, per dar luogo ai due simboli gemelli di Virgilio e di Beatrice”[41].

In questi termini la fabula della Vita Nuova e del Convivio è ripresa e rifondata nella Commedia; e si noti che questa rifondazione è resa possibile proprio dall’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia elaborata dall’autore del II trattato del Convivio, e dal conseguente superamento della scissione tra poesia e prosa che in quella teoria trova la sua giustificazione. Virgilio e Beatrice sono le allegorie della ragione umana e poetica e della teologia, ma, a ben guardare, questo senso allegorico dei due personaggi non presuppone nessun senso “litterale” diverso nei contenuti rispetto a ciò che l’allegoria vuol dire; né il narratore vuol forzare il lettore in alcun modo, poiché il suo punto di vista coincide con quello divino e, dunque, non può dar adito a nessun  fraintendimento.

E tuttavia nel nuovo ed imponente edificio della Commedia non è difficile rinvenire, sia pur radicalmente mutata, la vecchia funzione del commentatore. Ricomposta la scissione poesia-prosa (“littera”-allegoria), quella funzione parrebbe aver esaurito il suo ruolo, quale era stato teorizzato sin da Vita Nuova XXV e quale era stato posto in essere nel “comento” alle prime due canzoni del Convivio. E invece, a chi consideri bene la questione, non può sfuggire che l’abito scrittorio dell’Alighieri, lungi dall’essere dismesso, è riadattato al nuovo corpo del poema. Si legga a tal proprosito la bella pagina di Tibor Wlassics che in questo modo illustra la funzione del commentatore nella Commedia:

“Il primo “commentatore” del poema sacro fu l’Alighieri stesso. Non alludo alla lettera a Cangrande, né ai frammenti di arte poetica che ci è dato cogliere nelle opere minori, ma piuttosto alla passione didattica di Dante, per cui gli scenari ultraterreni, soprattutto nell’ultima cantica, paiono spesso trasformarsi in “aula”, e i conversari trascendentali in insegnamento disquisizione esame”.

Il critico a questo punto rimanda alla nota n° 1 che conviene leggere, perchè vi troviamo citato l’interprete che per primo ha rinvenuto, sia pur senza precisare la portata della sua intuizione, la funzione del commentatore nella Commedia: Benedetto Croce. Ecco cosa ne dice il Wlassics:

“Le pagine di Benedetto Croce sulla “poesia didascalica” di Dante nel Paradiso, sono tuttora suggestive; l’interpretazione delle dissertazioni dottrinali come “libretto, sul quale il poeta compone la sua musica”, e come l’insegnamento eletto per materia di canto e “posto in iscena e dramma”, – resta una di quelle (numerosissime) intuizioni che dispiace veder respinte da molta critica, assieme ad altri motivi della polemica crociana (La poesia di Dante, Bari, 1920, p. 151)”.

E dopo il rimando alla nota n° 1, così continua il critico:

“”Spiegare Dante con Dante” significa appunto, in parte, raccogliere e sviluppare codesti spunti di autocommento. Ma le “postille”, le forme e i modi del dotto commento, sono anche, a volte, una tecnica narrativa, impiegata con determinati fini stilistici. Oltre al valore di “chiose” che illumina una realtà del testo, la postilla dantesca introduce spesso nel racconto una specifica atmosfera, quella del “postillare” appunto: il quieto e ragionato procedere della “dissertazione”, del dibattito erudito.”[42]

L’indagine stilistica fornisce questi importanti risultati sulla sorte della funzione del commentatore nella Commedia, la cui genesi abbiamo rinvenuto e studiato a partire dalla Vita Nuova. Assistiamo, pertanto, anche in questo caso, ad un rimaneggiamento da parte dell’Alighieri delle strutture fondamentali del proprio mondo poetico giovanile. Nulla è negletto, tutto è sottoposto a metamorfosi, a vantaggio, o per meglio dire, in funzione della nuova opera.

“Queste parentesi o glosse incorporate, dovevano vivere di vita assai esuberante nell’ispirazione del poeta, se il fren de l’arte non giunse a respingerle tra le cose che la sua “comedìa” cantar non cura. L’Alighieri infatti pare averne bisogno, come di brevi soste oziose, di attimi di digressiva riflessione o di sovrabbondante ricamo.”[43]

Per quanto preziose siano queste indicazioni, dobbiamo rimpiangere che il critico, rimanendo sul piano della mera osservazione di stile, non individui con esattezza il luogo in cui il “postillare” dantesco per la prima volta fiorì rigoglioso (la Vita Nuova), né i motivi di quella fioritura (la necessità dell'”aprire per prosa”, il ripristino del “verace intendimento”, eccetera), cosa fondamentale per comprendere la genesi ed il percorso intellettuale e poetico dell’Alighieri. Nella Commedia il commento in prosa, in quanto autonoma funzione narrativa, non c’è più, per i motivi che abbiamo già esposto (la fine del contrasto poesia-prosa, “littera”-allegoria); rimane, come dicemmo, l’abito scrittorio ormai acquisito, per cui le chiose sono riassorbite dall’unico testo poetico, come modo espressivo, stile, nel senso ben indicato da Wlassics. In questo esito ultimo del percorso poetico dell’Alighieri è bene rinvenire una sorta di conciliazione dei contrasti, il senso della reductio ad unum operato dall’Alighieri, un tranquillo punto d’approdo delle fatiche dell’autore, del suo forte dissidio interiore, trasmutato nella forma del contrasto tra poesia e prosa, “littera”-allegoria, che tanto aveva permeato l’opera giovanile e della prima maturità dantesca, da divenire la cifra distintiva dell’intera opera dell’Alighieri.

Note


[1] Cfr. K. Vossler, La Divina Commedia, I, La genesi religiosa e filosofica, Roma-Bari 1983, p. 99: “Basta leggere un brano qualunque dei suoi [di Dante] scritti filosofici in prosa per convincersi come questo poeta pieno di slancio abbia corso serio pericolo di inaridirsi nella scolastica più secca ed astrusa”.

[2] G. Petrocchi, Il proemio del poema, in Itinerari danteschi, Adriatica Editrice, Bari 1969, p. 258.

[3] Cfr. F. Tateo, Il primo canto dell’Inferno e la sua funzione introduttiva, in AA.VV., Lectura Dantis (Potenza 1984-1985), Congedo, Galatina, 1987, p. 17 e 19.

[4] Cfr. G. Gorni, La teoria del “cominciamento”, in Il nodo della lingua e il verbo d’ amore. Studi su Dante e altri Duecentisti, Firenze 1981, p. 175. A p. 176 il critico precisa: “In questa prospettiva di lettura, a più forte ragione, ha il suo peso l’ esperienza stessa di Dante, la quale, agli effetti della scrittura, era già cominciata colle pagine del primo “libello”, sotto la rubrica Incipit Vita Nova: è rispetto a questa Vita Nova precedente, che arriva fino al sonetto (che col senno di poi diremmo profetico) Oltre la spera che più larga gira, che si qualifica il mezzo del cammino di nostra vita da cui move il poema”. Crediamo però che sia possibile andare oltre, e proporre come mezzo del cammino la fine del IV trattato del Convivio, che costituisce l’esito ultimo dell’esperienza giovanile e della prima maturità di Dante.

[5] L’artificio dell’eternità, Verona, 1972.

[6] Cfr. A. Vallone, Dante, Milano-Padova, Vallardi-Piccin, 19812, p. 338.

[7] Sull’argomento della selva cfr. A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Messina-Firenze 1967, pp. 10 e segg..

[8] Già in Vita Nuova XII è indicata la natura divina del circolo. Dice Amore: “Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic”. Cfr. anche Convivio II XIII 26-27: “(…) lo cerchio è perfettissima figura (…)” e Par., XXXIII, 115-120.

[9] M. Marti, Lo Stil nuovo di Dante e l’unità della Vita Nuova, in Storia dello Stil nuovo, Lecce, Milella, 1973, p. 458.

[10] A. Pagliaro, Ulisse, I, cit., p. 74. Il critico poi si chiede: “Perché e sotto quali suggestioni sia nata in Dante l’ idea di dare un contenuto di assolutezza al proprio mondo etico, politico e filosofico, trasferendolo nel mondo della verità invisibile, fissata in eterno dal giudizio di Dio, nessuno potrà mai dire con sicurezza” (ibidem). Poi, inopinatamente, ecco la risposta: “Ponendo l’ origine e lo svolgimento del viaggio nel dominio delle provvidenze divine, vengono ad essere creati presupposti di validità e verità incontestabili, non soltanto per la parte propriamente escatologica, bensì per tutto l’ opinare e il giudicare storico, che accompagneranno gli sviluppi della narrazione, non meno che per le tesi, le quali più impegneranno la filosofia e la teologia come scienza cosmica” (ibidem, p. 77).

[11] Cfr. K. Vossler, La Divina Commedia, I, cit., p. 201, a proposito dell’oltretomba dantesco nota come “a nessun poema si intese mai dare un fondamento più rigorosamente scientifico; mai poeta fu più coscienzioso”.

[12] G. Gentile, Pensiero e poesia nella “Divina Commedia”(1908), in Studi su Dante, p. 76: “E però non è certo un bello spiegare Dante con Dante cercare nel Convivio i canoni ermeneutici della Commedia. E a parte ogni eventuale mutamento delle idee critiche di Dante, da un’opera all’altra, bisogna sempre ricordarsi che la Divina Commedia è l’opera vitale di Dante, e il Convivio è un aborto. In quella Dante è Dante; in questo Dante cerca d’intendere sé stesso: e si sa che si può sbagliare a intendere sé stesso, senza perciò cessar d’essere quello che si è. La Commedia si spiega con la Commedia“.

[13] A. Pagliaro, cit., II, p. 694. Ma vale in proposito quanto il critico afferma in op. cit., I, p. 57 a proposito del veltro: “L’ allegorico si è direttamente sostituito allo istoriale”.

[14] F. De Sanctis, Corso torinese sopra Dante,(1854) in Lezioni e saggi su Dante, Torino, Einaudi, 1955, p. 115.

[15] Cfr. A. Pagliaro, I, cit., p. 57: “Si può essere, secondo noi, certi che Dante non ha voluto dare una figura concreta e determinata alla forza umana, che caccerà dal mondo la lupa”. E a p. 495 del tomo II: “Ma il simbolo è ormai sviato sui sentieri dell’ allegoria: manca il tracciato per un sicuro cammino, e il campo è aperto all’ arbitrio”. Cfr. anche A. Vallone, Dante, cit., p. 284: “Per noi è perciò un enigma, nel senso che in esso non si può vedere alcun riferimento concreto, e tale deve restare”. Inoltre cfr. la trattazione che A. Vallone fa del problema allegorico nel cap. VIII, pp. 258-271 dell’op. cit..

[16] Cfr. A. Pagliaro, Ulisse, I, cit., p. 110.

[17] “La allegoria dei poeti, come Dante la presenta nel Convivio, è essenzialmente un’allegoria che consiste in “questa cosa per quella”, “questa rappresentazione al fine di dare (ma anche nascondere) quel significato”. (…)

Ma la specie di allegoria a cui ci rinvia l’esempio scritturale fornito nell’Epistola a Can Grande è un’allegoria consistente non in “questa cosa per quella”, bensì in “questa cosa e quella”, questo senso più quello. Il versetto della Scrittura che dice “In exitu Israel de Aegypto” ha il suo primo significato in quanto denota un evento storico reale e ha il suo secondo significato perché quello stesso evento storico, essendone Dio l’Autore, può significare un altro evento ancora: la nostra Redenzione per Cristo. Il primo è un significato in verbis; il secondo è un significato in facto, contenuto nell’evento stesso”. Charles S. Singleton, La poesia della Divina commedia, Il Mulino, Bologna 1978. Comprende Commedia. Elements of Structure, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1957; Journey to Beatrice, Cambridge, Mass., Harvard Huniversity Press, 1958. Traduzione di Gaetano Prampolini. La citazione è in Elementi di struttura, pp. 120-121

[18] Harold Bloom, Il canone occidentale. I Libri e le scuole delle Età, Bompiani, Milano 1997 [1994], p. 69.

[19] Il Singleton definisce poi il simbolismo e l’allegoria della Commedia: “(…) il simbolismo è il modo in cui Dante imita la struttura del mondo reale, l’allegoria è il modo in cui egli imita la struttura dell’altro libro di Dio, la Sacra Scrittura”. E più avanti spiega che allegoria e simbolismo “possono essere entrambi assunti dalla categoria dell’analogia: l’allegoria, in quanto costruita in modo da risultare ad immagine dell’allegoria della Scrittura, il libro di Dio in cui gli eventi stessi additano “oltre”, significando altri eventi, il simbolismo in quanto concepito in modo da essere realizzato ad immagine del mondo reale creato da Dio, l’altro libro divino in cui le cose sono anche segni. Al centro il poema rivela poi la sua analogia con la struttura della storia – e anche la storia è opera di Dio. Sulla base del principio generale dell’analogia, il poema si pone dunque in relazione con una realtà che non potrebbe essere più intrinsecamente cristiana e di cui, peraltro, difficilmente avrebbe potuto tener conto Aristotele nella sua speculazione. Tale relazione, nella concezione di Dante, costituirebbe la verità del poema”. Cfr. Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina commedia, cit., pp. 49-50 e 88-89.

[20] Charles S. Singleton, Viaggio a Beatrice, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 245. Già a p. 142 è scritto: “(…) il poeta non ha inventato la dottrina (…).

[21] Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 89.

[22] Harold Bloom, Il canone occidentale, cit., p. 70.

[23] Nell’Introduzione al Viaggio a Beatrice, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 134 il Singleton scrive: “L’allegoria di Dante è esplicitamente radicata nella teologia del suo tempo. Noi non dobbiamo far altro che imparare a riconoscervela quando ci imbattiamo in essa; e una volta diventati capaci di ciò, ci troveremo subito di fronte a una dovizia che renderà imbarazzante la nostra scelta. Invece di un unico buon testo da citare a prova di un dato punto o di un dato schema, ce ne sono almeno venti. E in verità sarebbero da pubblicare tutti e venti piuttosto di quell’unico che con tanta difficoltà dobbiamo scegliere tra essi: potremmo così facilmente convincerci che il poeta ha costruito l’allegoria su punti dottrinali saldamente stabiliti e ampiamente noti nel suo tempo, che Dante ha edificato con materiali che erano, per dir così, di pubblica proprietà. Ma quella doviziosa documentazione dovrà attendere altro tempo e altro luogo. Qui, nella maggior parte dei casi, era possibile citare soltanto quell’unico testo, non tutti e venti, e, mediante quello solo, sperare di suggerire gli altri”.

[24] Cfr. A. Vallone, Dante, cit., pp. 287-290.

[25]Cfr. ancora Harold Bloom, Il canone occidentale, cit., p. 74.

[26] Cfr. A. Pagliaro, Ulisse, I, cit., pp. 91-92 . Il critico nota che “(…) il suo [di Dante] atteggiamento sarà quello di un giudice o di un veggente, che non conosce incertezze, non tanto perchè ignori il dubbio, ma perché lo guarda dialetticamente e lo risolve con tranquilla fiducia, una volta che alla base del suo travaglio vi è un’ investitura, da parte di un potere che sopravanza ogni potere terreno. (…) La perplessità, se mai, riguarda il dire le cose, non il pensarle, cioè il ‘vederle’; giacché questo è appunto, sotto il segno della grazia, ed è verità che respinge il dubbio e la menzogna”. A p. 112  il critico considera “l’ inaudita audacia e sicurezza di chi proietta tutto il proprio mondo di passioni, idee, giudizi, aspirazioni, cioè la vita sua e quella del proprio tempo, nello specchio dell’ assoluto, in cui ogni immagine ha la verità della cosa eterna”. Nessuna meraviglia: la finzione ultraterrena sembre essere l’ unico modo per assicurare all’ opera un punto di vista unico, assoluto e totalizzante.

[27] E. Auerbach, Figura (1938), in Studi danteschi, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 223. Si tenga anche conto dell’osservazione di Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 88-89: “Osserviamo a questo punto come nulla all’interno del poema dichiari mai che esso è un’invenzione, una fictio. La fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio. E mai opera ha salvaguardato con più cura questo presupposto fondamentale. Mai nel corso dell’opera questa visione di cose viene presentata come una visione, o come un sogno. Queste cose sono accadute davvero, e il poeta che in carne  ed ossa ha percorso quel cammino e di esse ha fatto esperienza, ora che è ritornato, è uno scriba che le registra fedelmente così come sono accadute. (…)”

[28] S. Pasquazi, All’eterno dal tempo. Studi danteschi, Roma, Bulzoni, 19853 (La prima edizione è del 1966). Il critico fa valere il metodo dell’interpretazione “anagogica”, teorizzandolo sin dalle prime pagine dell’opera. “Nell’idea di anagogia” egli scrive, “c’è un significato di slancio; il senso anagogico è, sì, oggetto di conoscenza, ma anche spinta o, meglio, aspirazione all’eterno” (p. 20). Ora è chiaro che questo modo di impostare i problemi non può che ingenerare equivoci e false interpretazioni critiche. Infatti un elemento, sia pure fondamentale, della finzione dantesca (la dimensione ultraterrena) viene assunto come criterio interpretativo del testo esaminato. L’ interpretazione anagogica è connessa con il concetto di “metànoia”, che “è rinnovamento del giudizio alla luce della realtà eterna” (p. 24). Il che risponde a verità, ma solo ove si consideri questo rinnovamento sul piano narrativo, come esito della vicenda autobiografica dantesca, non come criterio di indagine critica sull’opera dell’Alighieri.

[29] A. Pagliaro, Ulisse, cit., II, p. 493. La citazione completa è: “La selva, il monte, le tre fiere sono le forme icastiche di una verità interiore”.

[30] Cfr. Tibor Wlassics, L’anadiplosi nella Commedia, in Dante narratore. Saggi sullo stile della Commedia, Firenze, Olschki, 1975, p. 87: “E’ proprio una visione che ha tutte le caratteristiche dell’incubo: l’onnipresenza ossessionante da cui non si scappa neanche “chiudendo gli occhi” o dibattendosi, l’insistenza iterativa terrificante, il senso dell’impedimento paralizzante. Questa, a mio parere, è la poesia della lonza e delle prime visioni dantesche, e non certo il loro aleatorio “significato allegorico””.

[31] Cfr. quanto scrive in proposito G. Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Un’idea di Dante, Torino 1976, pp. 38-39, già in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, p. 340 (il saggio fu pubblicato per la prima volta in “L’approdo letterario” IV (1958), pp. 19-46 e poi in Secoli vari, Firenze 1958, pp. 21-48).: “(…) il protagonista di Dante è un personaggio-poeta: è affidato al patronato d’ un “famoso saggio” e gli si raccomanda per aver cercato con lungo studio il suo volume, taluno lo accoglie eseguendo o citando sue canzoni, addirittura lo saluta iniziatore d’una nuova maniera, egli si affida ad Apollo e alle Muse, sarà incoronato dell’ amato alloro”.

[32] Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 111.

[33] Cfr. A. Pagliaro, Ulisse, I,  cit., p. 112. Il critico considera “l’ inaudita audacia e sicurezza di chi proietta tutto il proprio mondo di passioni, idee, giudizi, aspirazioni, cioè la vita sua e quella del proprio tempo, nello specchio dell’ assoluto, in cui ogni immagine ha la verità delle cose eterne”.

[34] Cfr. Tibor Wlassics, L’ottica di Dante, in Dante narratore. Saggi sullo stile della Commedia, cit., pp. 113-140. In particolare a p. 113 il critico nota “il contegno del costante osservatore e del perenne curioso. Il poeta appare sempre “a veder surto”, sempre “fisamente mira”, sempre “l’occhio intento sbarra” -come il protagonista del poema. L’atto di guardare, di mirare, di “figurare”, l’atto di “levare le ciglia”, di “tenere l’occhio”, di “figgere il viso”, eccetera, si fa quasi “epiteto costante” del viandante ultraterreno (…)”. A p. 114 segnaliamo l’osservazione secondo cui “”occhi” è infatti il sostantivo più frequente della Commedia“. Infine a p. 121: “Se la Divina Commedia appare come una immensa serie di avvistamenti seguìti da approssimazioni come istintive,- la ragione e la radice di ciò si dovrà cercare nell’intimità dell’ispirazione: nell’ambizione, massima per Dante, di creare un mondo interamente credibile perché interamente visibile. “Dammi virtù a dir com’io il vidi!” egli esclama, insistendo anche con la dieresi sulla propria testimonianza oculare, e ribadendo per l’ultima volta, ormai dalla sommità della sua esperienza trascendentale (Par. XXX, 99) la poetica del vedere e del far vedere“. E’ questo un motivo critico già rinvenuto e così sviluppato da S. Pasquazi, All’eterno dal tempo. Studi danteschi, cit., che a p. 284 definisce Dante “il poeta del vedere”; ed alle pp. 340-41: “E allora, tutto quel desiderio bruciante lo sentiamo raccogliersi in una precisa e unica volontà: vedere Iddio (…). [Dante] Vuol vedere: e vedere non è fatto intellettualistico, né può restringersi ad un dato fisico; vedere è conoscere, una conoscenza che si traduce nell’amore, e penetra nel significato assoluto della vita: vedere per Dante è raccogliere il senso del molteplice che si squaderna nel mondo e di cui si ignora, il più delle volte, l’unità e il legame; è riportare all’evidenza i motivi di quell’ordine dell’universo, che non possono esprimersi se l’uomo e il cosmo non sono vincolati e stretti nella suprema legge del messaggio giovannèo: Deus charitas est“. Cfr. anche Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, op. cit., cap. IV, pp.. 87-113.

[35] Charles S. Singleton, Elementi di struttura, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 100.

[36] Racconta il Boccaccio: “Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito, in quello abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona, essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della sua Comedia, la quale egli intitola Inferno, e esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando egli davanti ad una porta dove più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse a l’altra donna: – Vedete colui che va ne l’inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono?- Alla quale una dell’altre rispose semplicemente: – In verità tu dèi dir vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è la giù?- Le quali parole udendo egli udir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne venivano, piacendogli, e quasi contento che esse in cotale oppinione fossero, sorridendo alquanto, passò avanti”. (Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in  La letteratura italiana. Storia e testi, Riccardo Ricciardi Editore, Milanno-Napoli, 1965, pp. 608-609.)

[37] Il riferimento è al nostro studio sul Dante giovanile dal titolo L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nella “Vita Nuova” e nel “Convivio“, di cui il presente saggio si può considerare la continuazione.

[38] È questo il significato più proficuo che possiamo trarre dalla interpretazione dell’hysteron proteron  data dal Singleton a proposito di Par. II, 22-25 in L’irriducibile visione, in La poesia della Divina Commedia, cit., p. 474.

[39] Cfr. il commento a questi versi di G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano (1905), in Studi su Dante, cit., pp. 33-34: “Ne’ versi angosciosi in cui Dante esprime qui l’improvviso dileguarsi di Virgilio all’apparire di Beatrice si sente l’affanno dello spirito medievale per l’impotenza della ragione ad innalzarsi con le sole sue forze alla conoscenza della verità. Quell’eterno vivere senza speme in disio, è l’espressione più profonda dell’abisso che nel pensiero medievale divide la ragione e l’uomo e la natura da Dio”. In proposito K. Vossler, La Divina Commedia, I, La genesi religiosa e filosofica, cit., p. 101 afferma: “Virgilio -“dolcissimo padre”- pronunzia i dettami della ragione mondiale e deve personificarla. Beatrice -amata donna di Firenze- insegna la religione universale e deve rappresentarla. Con un tratto di meravigliosa semplicità e genialità il poeta -e solo un poeta poteva farlo- ha introdotto il mondo impersonale, spirituale e divino nel bel mezzo delle relazioni più personali e più umane; egli ha trasformato così ciò che v’ ha di più alto e di più generale in ciò che v’ ha di più intimo e di più suo”. Cfr. R. Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella “Commedia”, Firenze, Olschki, 1983, p. 131, dove Purg. XXX, 49-51 è definito “il momento virgiliano più palpabilmente tragico dell’intero poema”. Ma si leggano anche le pp. 132-33-34.

[40] Si legga a questo proposito quanto scrive A. Pagliaro, Ulisse, I, cit., pp. 42-43. A p. 43 così riassume la sua interpretazione di Virgilio: “In sostanza, Virgilio è la ragione come Dante la vuole; una ragione che non vive nell’astratto mondo del pensiero e non mira all’organizzazione concettuale del reale (questo ideale era impersonato da Aristotele), ma che all’uomo si rivolge, nata com’ è dall’esperienza umana, e però ormai del tutto staccata da essa: capace di comprenderla, ma non più desiderosa di viverla. Nel Virgilio del Limbo è fissata la malinconia della saggezza che guarda al destino degli uomini, doloroso e caduco, e a cui manca una fede che possa trasformare il relativo in assoluto, il transeunte in eterno”.

[41] B. Nardi, La conoscenza umana, in Dante e la cultura medievale, Bari-Roma 1984, p. 165.

[42]Tibor Wlassics, Le “postille” di Dante alla Commedia, in op. cit., pp. 91-111. La citazione è a p. 91.

[43] Idem, ibidem, p. 93.

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