di Gianluca Virgilio
Dalla finzione del Convivio, fondata sulla dialettica “littera”-allegoria, constatato il suo fallimento, cioè sperimentata l’impossibilità d’ogni prosieguo della fabula, l’Alighieri passa alla finzione ultraterrena della Commedia; siamo dinanzi a una radicale trasformazione della fabula, che appare inevitabile quanto necessaria, poiché l’autore prende atto che con la prosa del Convivio (ordinata, almeno nei trattati II, III e IV come commento alle canzoni) egli aveva potuto dissimulare l’antico giovanile nucleo fabulistico, ma non ne avrebbe saputo dare uno nuovo. L’erudizione aveva coperto più o meno bene l’irruenza della passione giovanile, ma alla lunga, trascorsa già l'”età fervida e passionata”, l'”età temperata e virile” avrebbe presto inaridito la sua poesia[1]. Noi abbiamo visto che il IV trattato del Convivio segnava l’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, vale a dire della teoria allegorica come l’Alighieri l’aveva formulata in Convivio, II, i; e abbiamo dato di quell’abbandono una spiegazione che dava ragione anche della incompiutezza dell’opera. A questo punto del percorso dantesco abbiamo individuato lo smarrimento del personaggio-Dante, che segnava la crisi profonda della finzione dantesca, foriera d’una rigenerazione che solo in un’altra opera poteva compiersi. Ora, noi sappiamo bene che, come ha detto il Petrocchi con belle parole, “nessuna floreale decorazione di lettere iniziali o ancor più nessuna complessa raffigurazione allegorica e narrativa di miniatore può riempire questa silenziosa immensità di pensiero e di sofferenze dalla quale e dopo tanto prolungarsi della quale scaturisce il primo verso della Commedia“[2]; sappiamo bene, cioè, che tra Convivio e Commedia si apre uno spazio vuoto assai difficile da colmare, e che è difficile ripercorrere i passi che condussero l’Alighieri da un’opera all’altra. Eppure alcuni segnali mostrano che un legame tra le due opere esiste, e molto stretto; e questi segnali meritano di essere decifrati.