Qui, in Italia, in quello stesso anno, il quindicesimo giorno del mese di aprile, moriva Antonio de Curtis: per l’arte Totò.
Clown a volte ilare, a volte malinconico, rappresentazione del comico, del tragico, dell’assurdo, dello sberleffo, dell’ironico, del ghigno. La risata come sentenza inappellabile sul mondo. Il nonsense o l’apparente nonsense come traduzione dell’incomprensibilità dell’esistenza. La pernacchia come pugnalata al cuore del sussiego, dell’arroganza, della presunzione. Forse l’ultimo volto della commedia dell’arte. Forse l’ultimo erede di Pulcinella. Saltimbanco perché saggio; saggio perché provato dalla vita. Diceva che non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita. Poi, quando si spengono le luci dei riflettori, quando si dissolve il ronzio della macchina da presa, nel fondo della sua solitudine, della sua tristezza d’uomo, Totò diventa poeta. L’ironia gli scorre ancora nelle vene, ma è amarissima, non ha consolazione. E’ un’ironia penosa, e non c’è guizzo, lazzo, burla, buffoneria, non c’è macchietta, non c’è caricatura che riesca a screziare l’umore nero. Quando Totò diventa poeta, riesce a farsi consolare soltanto dal sentimento del ritorno, dal nostos nella via di Santa Maria Antesaecula, nella sua infanzia di miseria e di speranza, nella sua Napoli che è un po’ una realtà e un po’ una fiaba. Antonio de Curtis sa bene che di quel paese, di quel luogo, di quell’affresco che si chiama Napoli è stato detto tanto, che forse è stato detto tutto, in prosa, versi, musica, che ne hanno scritto Bovio, Di Giacomo, Valente, che è impresa anche presuntuosa tentare di dire altro. Ma lui deve tentare. Allora lo fa con le parole più facili e difficili che possano esistere. Tenta di dire Napoli con le stesse parole con cui si dice l’amore, con un’idea di creatura d’amore che proviene da Guinizelli, Cavalcanti, Dante. Nel confronto silenzioso con i suoi fantasmi, scriveva una volta Antonio Ghirelli, il principe de Curtis ritrovava il lessico e lo spirito della città in cui era nato. Aveva ragione Vittorio Gassman quando diceva che le poesie di Totò, con la loro atmosfera crepuscolare e quotidiana sono il contrario dell’espressione dell’attore- marionetta, del comico metafisico e vesuviano. Forse l’uomo era in quel contrasto fra l’attore e il poeta. Forse l’uomo vero era nella penombra, nel chiaroscuro, nella semplicità delle osservazioni, delle riflessioni, in quell’accontentarsi di espressioni consuete. Forse Totò non scrisse poesie per essere poeta; forse le scrisse per essere, per qualche istante, soltanto se stesso, per distrarsi e allontanarsi dalla sua leggenda, per poter guardare la sua immagine appesa in un angolo della stanza, appesa e sospesa nel vuoto che si spalancava intorno e si gonfiava di silenzio. Totò diventa poeta quando la recita e la finzione si allontanano da lui per dargli la possibilità di guardarsi dentro e di fare il conto di tutto quello che guadagna ogni minuto e di tutto quello che perde ogni minuto. Totò diventa poeta quando è soltanto un uomo che ha paura. Come tutti gli uomini. Come tutti i poeti.
“Il laureato” arrivò in Italia nel Sessantotto.
Qualcuno attraversava i giorni dell’infanzia, qualcuno quelli dell’adolescenza. Qualcuno nasceva in quell’anno. Qualcuno ancora non c’era. Qualcuno aveva una giovinezza acerba. Qualcuno che c’era allora, adesso non c’è.
Per chi allora aveva vent’anni e adesso ne ha settantasei, o qualcuno di meno o qualcuno di più, il Sessantotto significa la sua giovinezza. Ha immagini sfuocate del terremoto nella valle del Belice.
Ricorda i comizi pirotecnici nella piazza del paese. Non ricorda nessun boom economico ma le famiglie che andavano via per le città del Nord e le strade che si svuotavano e i giochi per le strade che finivano. Questo ricorda del Sessantotto.
A Roma era di marzo, e non ancora primavera. Per due ore e mezzo fu battaglia, a Valle Giulia. Da una parte i poliziotti. Dall’altra gli studenti. Feriti da una parte, feriti dall’altra. Il giorno dell’ira e del delirio. In una poesia dura, durissima, Pier Paolo Pasolini si schierò dalla parte dei poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri, scrisse. Perché vengono da subtopie urbane o contadine. Vengono dai bassi sulle cloache o dagli appartamenti nei grandi caseggiati popolari. Si vestono con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio, fureria e popolo.
Degli studenti disse: avete facce di figli di papà. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi.
Allora, venne il Sessantotto, e dopo niente fu più com’era stato. Ogni esempio sarebbe riduttivo. Non esprimerebbe la profondità della mutazione. Forse si potrebbe dire, semplicemente, che cambiò il modo di pensare. Basta.
Poi, a un certo punto, da grande, scopri che “Il laureato” è un film cult, come si dice.
Ma se hai diciott’anni, i significati del film, le sue metafore, le sue allusioni, t’importano poco, forse per niente. Non ti coinvolgono i riferimenti continui all’incomunicabilità tra i giovani e gli adulti, la frattura fra le generazioni, non ti attrae la disobbedienza dell’apatico e un po’ immaturo Ben, il coraggio, forse inconsapevole, di fare di testa sua, di seguire strade diverse da quelle pensate dalla famiglia della middle class di Pasadena, il sentimento silenziosamente ribelle dell’epoca. Alla rappresentazione della fragilità della società borghese americana, conformista e bigotta, ipocrita e perbenista, alla forza trasgressiva che la storia ebbe all’epoca attraverso la messa in scena dell’adulterio, ai riferimenti marcatamente edipici, non ci pensi. Che il film sia l’espressione dell’inquietudine esistenziale di una generazione che avrebbe acceso la rivoluzione culturale forse più importante del Novecento, svitando i bulloni che tenevano la struttura dei rapporti sociali, non ci pensi.
Le domande e forse le risposte sul film vengono dopo.
Se hai diciott’anni ti innamori spaventosamente di Mrs. Robinson e la scena di ritrosia di Ben ti fa venire i nervi.
Poi, una sera tardi, tanti anni dopo che lo hai visto per la prima volta in un cinema di un paese di provincia, una sera tardi, per caso, ritrovi quel film in tv e ti accorgi con disincantata sorpresa che diciott’anni non ce l’hai più. Eppure è stato soltanto ieri sera che hai visto quel film in un cinema gelido di un paese di provincia.
(Non si capisce mai com’è che gira il tempo).
[“ Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 17 novembre 2024]