“Coronato di serti e cinto di catene”: Giorgio Maniace nelle vicende di Puglia

Nel 1030 venne inviato in territorio siriano dove era in corso una spedizione militare voluta dall’Imperatore Romano III (1028-1034) il quale aveva combattuto personalmente per assoggettare l’emirato di Aleppo. L’esercito bizantino era reduce da una disastrosa sconfitta avvenuta l’anno precedente ad Azaz. Maniace riuscì nell’impresa, assoggettando nel 1031 il territorio siriano. L’anno successivo fu protagonista della campagna militare di Edessa, la città sull’Eufrate che era stata invasa dai Turchi Selgiuchidi. Maniace giunse ad espugnare Edessa; questa vittoria gli valse la promozione a catapano del thema di Vaspurakan, il che fece entrare il Maniachès nel patriziato bizantino. Da questa provincia orientale venne poi trasferito l’anno successivo in Italia[2]. Giorgio Maniace è rappresentato in una miniatura del codice Madrid Skylitzes (Codex Matritensis gr. Vitrinas 26-2, f. 213v., che si trova nella Biblioteca Nazionale di Madrid), contenente la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. Maniace appare orbo da un occhio. Le vicende del generale bizantino sono infatti illustrate, a corredo di alcuni brani dell’opera Synopsis historiarum, nelle miniature di questo celebre “codice italogreco del XII sec.”, che fu “commissionato verosimilmente dal patriziato bizantino-normanno (se non direttamente da Giorgio di Antiochia, come proposto in anni recenti da Santo Lucà) proprio per la corte di Ruggero II e realizzato nel monastero del San Salvatore a Messina”, scrive Mario D’Ambrosi[3].

Comunque, che fosse o meno orbo di un occhio, Maniace incuteva un sacro terrore ai propri nemici per le dimensioni colossali del suo corpo.

      “Statura gigantesca, nessuna nobiltà né fascino nei tratti, ma viso di bandito, mani capaci di scrollare porte di bronzo, slancio di un leone: il suo aspetto terribile intimidiva i barbari”: così lo definisce il Gay[4]

     Ad un certo punto della sua carriera, Maniace venne coinvolto nelle vicende italiane, siciliane e pugliesi, anche di Terra d’Otranto. Qual era la situazione nell’Italia meridionale quando vi giunse Maniace? La Sicilia all’inizio del secolo Mille era quasi interamente in mano ai Musulmani. Vi erano sbarcati nell’827 prendendo Mazara. Ma già nel 710 i Saraceni, come venivano chiamate quelle bande di predoni musulmani, avevano raggiunto la Sardegna e poi ancora nel 752. Nell’812 vi era stato un attacco alle isole di Ponza e di Ischia. Nell’813 una spedizione in Sardegna, poi nel Lazio, con la distruzione di Civitavecchia, e un attacco a Nizza. Nell’816 un’altra spedizione contro la Sardegna. Nell’827, Imperatore Michele II (820-829), essi sbarcarono a Mazara del Vallo e condussero una vittoriosa battaglia contro i Bizantini a Corleone, proseguendo senza incontrare ostacoli verso Siracusa, che era la capitale bizantina del tema di Sicilia. Siracusa oppose una strenua resistenza che si protrasse per molti anni. Venne poi occupata Castrogiovanni, l’attuale Enna. Successivamente i Saraceni attaccarono Palermo che capitolò nell’831 divenendo la nuova sede del governo arabo dell’isola. Per fronteggiare il pericolo, l’Imperatore Michele II chiese aiuto a Venezia e le forze veneto-bizantine riuscirono a frenare l’assedio di Siracusa; tuttavia i Musulmani procedettero conquistando Mineo, Girgenti e appunto Palermo. L’Imperatore Teofilo (829-842), per fronteggiare il pericolo, affidò il comando della spedizione al genero Alessio Muselè, che però più tardi venne richiamato in patria a causa dei contrasti insorti col Basileus. Intanto caddero in mano islamica Caltabellotta, Cefalù, Marineo, Geraci. Dalla Sicilia occidentale nell’840 i conquistatori proseguirono verso oriente conquistando Messina nell’842, Modica nell’845, nell’846 Lentini, nell’848 Ragusa e nell’859 Enna. Nel frattempo alla dinastia aghlabita si era sostituita quella fatimida. A causa di violenti contrasti sorti fra gli Arabi e i Berberi, che affiancavano gli invasori nella campagna siciliana, il piano di conquista subì un arresto di qualche anno del quale però i Bizantini non seppero approfittare per riprendere possesso dell’isola; infatti si ebbe la conquista di Siracusa da parte musulmana[5].

     Nell’834 c’era stato il saccheggio di Genova. Nell’838 gli Arabi avevano occupato Brindisi; nell’840 Taranto. Nell’841, la distruzione di Capua. Si erano poi spinti nel continente risalendo la penisola fino ad arrivare nel Lazio, con il saccheggio di Montecassino; nell’846 era stata attaccata Roma, con il saccheggio di San Pietro. Nell’841 avevano conquistato Bari. Da Bari, sede dell’emirato, facevano incursioni in tutta l’Italia meridionale. Le città marinare di Napoli, Gaeta e Amalfi si erano unite in una lega, per esortazione del Papa Leone IV, che nell’849 aveva sconfitto la flotta musulmana nelle acque di Ostia. Intanto, in seguito agli insanabili contrasti interni che dilaniavano il califfato arabo, si creavano delle profonde divisioni e la dinastia dei Fatimidi, appoggiata dagli Sciiti, dopo aver strappato al califfato molti territori africani, come la Libia e l’Egitto, si espandeva in Siria e Palestina, costituendo il più grande stato musulmano del Mediterraneo.  Nell’876-77 nuove incursioni nel Lazio fino alle porte di Roma. Nell’880 gli Arabi avevano stabilito la loro base presso Agropoli (Salerno). Nell’881 il saccheggio dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno. Nell’882 avevano formato una nuova base sul Garigliano. Nell’883 c’era stata la distruzione di Montecassino. Nel 918, dopo un primo attacco nel 901, vi era stata la presa di Reggio Calabria e l’istaurazione del dominio arabo su buona parte del territorio calabrese[6].

     Nel 922 venne occupata Oppido Mamertina e nel 925 fu attaccata Taranto. Da qui gli invasori procedettero nell’interno fino ad Oria[7]. L’imperatore di Costantinopoli Romano I Lecapeno (920-944) concluse una trattativa col califfo fatimida Ubayd Allàh al-Mahdi che prevedeva il pagamento di un tributo per la liberazione dei territori occupati ma già nel 926 l’emiro di Sicilia si impossessò di Taranto, compiendo un eccidio e proseguendo fino ad Otranto. La presa di Otranto fu sventata solo per un’epidemia che contagiò la guarnigione araba, come riferisce l’annalistica barese. Venne inoltre presa Siponto e saccheggiata dai pirati slavi con cui gli arabi si erano alleati; poi fu la volta di Termoli. Nel 976-977, gli Arabi attaccarono Gerace e l’esercito bizantino battè in ritirata rifugiandosi ad Otranto. Nell’anno 977 le stesse fonti coeve riferiscono di un ulteriore saccheggio ad Oria[8]. Nel 994 vi fu una spedizione contro Matera. Nel 1004 nuove incursioni a Bari e Pisa.

     Verso la fine del 900 alcuni contrasti interni all’emirato di Sicilia avevano messo in difficoltà il dominio arabo dell’isola. Ma già nel 986 gli Arabi rioccuparono Gerace e salirono in Calabria, dando l’assalto a Cosenza. Nel 988 giunsero in Puglia nel territorio di Bari e attaccarono Taranto. Nel 994 cadde Matera e nel 1002 ci fu l’attacco decisivo a Bari. L’assedio durò da maggio a settembre quando Bari chiese aiuto a Venezia che, grazie ad una imponente flotta navale guidata dal doge Pietro II Orseolo, riuscì a liberare la città ormai stremata. La Calabria continuò ad essere attaccata; nel 1006 l’esercito bizantino riportò una importante vittoria navale al largo di Reggio, grazie all’aiuto di Pisa ma tre anni dopo i Saraceni sbarcati nella Valle del Crati occuparono di nuovo Cosenza[9]. Nel 1020 fu presa Bisignano e fu attaccata anche Rossano, che riuscì a resistere.

     Nel 1025 l’Imperatore Basilio II (926-1025) inviò un potente esercito nell’Italia meridionale con il precipuo scopo di riprendere la Sicilia, grazie all’energico comando del catapano Boioannes[10]. La spedizione si rivelò ancora una volta un fallimento. L’imperatore morì nello stesso anno e a lui seguì il fratello Costantino VIII (1025-1028) che non dimostrava interesse nei confronti dell’Italia meridionale[11].

     La situazione in Sicilia ebbe un’isperata convergenza positiva allorquando all’interno dell’emirato arabo scoppiò un violento contrasto fra l’emiro siciliano Ahmad al Ahkal ed il fratello Abu Hafs, sostenuto dal governo africano, il che portò alla guerra civile. Ahmad chiese aiuto all’Imperatore Michele IV(1034-1041), il quale ritenne utile inserirsi in questi contrasti interni per ottenerne dei vantaggi all’impero bizantino. Infatti nel 1035 fu conclusa un’alleanza che metteva fine alle ostilità e portava alla Sicilia una periodo di ritrovata relativa pace. Nella guerra civile l’emiro Ahmad al Ahkal rimase ucciso e ciò spinse l’Imperatore Michele a tentare un nuovo assalto alla Sicilia sperando di poter trarne profitto. Il disegno del Basileus era quello di riprendere interamente il controllo dell’isola. Il corpo di spedizione venne affidato al più importante generale dell’epoca, Giorgio Maniace, forte del successo conquistato in Siria alcuni anni prima, e che ebbe i poteri di strategos autokrator, ovvero la massima autorità nell’operazione[12]. Era l’estate del 1038. Il corpo di spedizione risultava composto da truppe mercenarie variaghe oltre che dagli ausiliari bizantini e dai normanni inviati dal Principe di Salerno Guaimario IV[13].  

     Maniace era “per carattere, per gesta, come anche per il fisico, molto al di sopra della media – uno di quei pittoreschi «quasi genii» che emergono a intervalli nella storia e che sembrano avere il mondo ai loro piedi”, scrive il Norwich[14], che riporta anche la descrizione che ne fa Michele Psello:

     Io stesso incontrai quest’uomo e ne rimasi sbalordito; la natura aveva riunito nella sua persona tutte le qualità necessarie per farne un grande condottiero; era alto tre metri, tanto che per fissarlo in volto, gli uomini dovevano rovesciare il capo all’indietro come per vedere la cima di una collina o di una montagna. Il suo volto non era né bello né piacente, ma faceva pensare ad una tempesta; la sua voce era come il tuono e le sue mani sembravano fatte per abbattere mura e sfondare porte di bronzo. Egli si lanciava come un leone e il suo cipiglio era terribile a vedersi. Ogni altra cosa, in lui, era in proporzione. Coloro che lo vedevano per la prima volta si rendevano conto che tutte le descrizioni che ne avevano sentite erano inferiori alla realtà[15].

     L’esercito era comandato dal generale Stefano, cognato dell’Imperatore Michele, col quale presto sarebbero sorti dei contrasti. La spedizione partì da Salerno e poi puntò sulla Sicilia. Da Salerno si imbarcarono le forze longobardo normanne fra le quali anche i fratelli Altavilla. Venne espugnata Messina, poi Rometta e nel 1040 Siracusa, dove le truppe imperiali riportarono una eclatante vittoria. A Siracusa, una volta allontanati i musulmani, la popolazione locale fece grandi feste di ringraziamento per gli imperiali al comando di Maniace i quali si impossessarono di un ricco bottino fra cui le preziose reliquie che in città erano custodite. Lo stesso Maniace fece riesumare il corpo di Santa Lucia e “aprendo la bara e trovandola ancora «fresca, intatta e profumata come il giorno in cui ve l’avevano deposta!», come informa Amato di Montecassino, la inviò, con i suoi complimenti, all’Imperatore”[16]. Il corpo della santa fu portato da Maniace insieme alle spoglie di Sant’Agata a Costantinopoli per farne dono all’imperatrice Teodora (1042-1056). Da lì fu trafugato nel 1204 dai veneziani che, guidati dal doge Enrico Dandolo, conquistarono la capitale bizantina durante la IV Crociata e fu portato a Venezia come bottino di guerra. Arrivate nella città lagunare, le spoglie della santa vennero trasferite nell’isola di San Giorgio Maggiore. Nel 1279, il mare mosso capovolse le barche che si muovevano per omaggiare la santa, causando la morte di alcuni pellegrini, e da allora si decise di trasferire le reliquie nella Chiesa di Cannaregio, che venne intitolata alla santa. Questa chiesa era ubicata sul luogo dell’attuale stazione ferroviaria. In seguito all’abbattimento della chiesa, l’11 luglio 1860, il corpo fu traslato nella vicina chiesa di San Geremia dove si trova attualmente, anche se il possesso del corpo viene rivendicato dalla città di Siracusa[17].

     A Maniace si deve anche il trafugamento delle reliquie di Sant’Agata[18]. Come fonte coeva, ne parla il benedettino inglese Orderico Vitale (1075-1142) nella sua opera Historia ecclesiastica[19]. «L’invio del generale era stato deciso da Costantinopoli per risolvere definitivamente il problema della presenza saracena in Sicilia», scrive Marco Papasidero[20], «ma nell’ambito delle complesse operazioni militari, si verificò l’uccisione del toparca di Sicilia Al-Akhal, la presa del potere da parte del tiranno ‘Abd Allâh, la battaglia a Troina del 1040, tra saraceni e bizantini, con la conseguente vittoria di questi ultimi. Successivamente, il potere venne gradualmente preso dai normanni, alcuni dei quali avevano militato nell’esercito dello stesso generale. Infatti, dopo la battaglia di Troina, per via di alcuni dissidi relativi forse alla suddivisione del bottino o al pagamento del soldo, Maniace venne richiamato a Costantinopoli, probabilmente portando con sé le reliquie, e i normanni ne approfittarono per sconfiggere le ridotte truppe bizantine, stabilendosi poi a Melfi. Proprio a tale contesto storico-politico va ricondotto il trafugamento delle reliquie della santa – questa volta da Costantinopoli a Catania -, che dunque è da porre in parallelo con l’avvio della dominazione normanna sull’isola e sull’Italia meridionale. Il luogo a Costantinopoli dal quale le reliquie della santa vennero trafugate non è indicato nel racconto, ma può essere forse suggerito da quanto narrato da Costantino Lascaris, un dotto profugo di Costantinopoli che giunse nel 1465 a Messina dove iniziò a insegnare letteratura greca. Egli afferma che nel 1040 le reliquie vennero consegnate da Giorgio Maniace all’imperatrice Teodora, che a sua volta le affidò a un monastero di vergini intitolato a S. Maria. La Historia translationis corporis s. Agathae v. m. Constantinopoli Catanam (BHL 139) venne redatta dal vescovo di Catania Maurizio (1122-1144), monaco benedettino[21],e la stesura, in ogni caso, non è più tarda del 1169, anno del terremoto che devastò la città di Catania e al quale non vi è alcun accenno. Il vescovado di Catania era stato ricostituito nel 1091 da Ruggero di Altavilla, che in quell’occasione affidò il convento di S. Agata all’ordine benedettino, stabilendo che il suo abate fosse anche il vescovo della città. Secondo il racconto, il trafugamento avvenne nel 1126 per opera di due soldati latini, Gisliberto, di origini francesi, e Goselino, che viene definito calabricus. I soldati, su sollecitazione di tre sogni, decidono di prelevare le reliquie della santa per riportarle a Catania. I due entrano di notte all’interno della chiesa e prelevano i sacra pignora riponendoli in un cesto colmo di rose, dopo collocano il capo all’interno di due piatti e le ossa in due faretre. La notizia del trafugamento giunge alle orecchie dell’imperatore Giovanni II Comneno, il quale non vuole che nessuno lasci la città se non prima interrogato. Ma i due riescono ugualmente a fuggire e a partire, giungendo prima a Smirne, poi a Corinto, infine a Taranto. Rimettendo le reliquie in ordine, i due dimenticano inavvertitamente la mammella di s. Agata, che viene miracolosamente scoperta dai prelati del posto che, dopo averla riconosciuta, la pongono come reliquia in una chiesa fatta appositamente costruire e intitolata alla santa. Successivamente i due trafugatori giungono a Messina. Goselino rimane dunque in città, mentre Gisliberto si reca dal vescovo che in quei giorni si trova presso il suo castello di Aci. Quest’ultimo decide dunque di inviare a Messina i due monaci Luca e Oldomano che, insieme ai due trafugatori, portano le reliquie a Catania. Queste vengono gioiosamente accolte dalla città e poste nel duomo, fatto costruire da Ruggero I il Normanno tra il 1078 e il 1093 insieme a un monastero benedettino[22]. La data dell’adventus delle reliquie a Catania viene fissata nel racconto del vescovo Maurizio al 17 agosto 1126, sotto il pontificato di Onorio II (1124-1130) e sotto il governo di Ruggero. Il trafugamento delle reliquie, insieme a quello di s. Gennaro, trafugato da Napoli e ricondotto a Benevento, può essere considerato un furto di riappropriazione, finalizzato a far rientrare dall’esilio la santa»[23].

     Nell’assedio di Siracusa si distinse particolarmente Guglielmo d’Altavilla da allora soprannominato “Braccio di ferro”. Un’altra vittoria venne riportata a Troina anche se in questo caso l’ammiraglio arabo Abdullah riuscì a fuggire. Ciò destò l’indignazione di Maniace che ne riversò la colpa sul generale Stefano, il quale in effetti in tutto il corso delle operazioni non si era distinto per particolari capacità. Si creò un alterco e Maniace aggredì violentemente Stefano. L’episodio determinò la sua momentanea rovina perché di lì a poco venne richiamato a Costantinopoli dove fu messo in prigione senza possibilità di discolparsi. Una miniatura sul f. 213v dello Scilitze matritense “parla in maniera più efficace delle parole dello storiografo, attraverso l’icastica raffigurazione di Maniace condotto in ceppi a Costantinopoli sul dorso di un asino, con un’umiliazione indegna di un valoroso generale e fedele servitore dell’impero”[24]. Il comando delle operazioni passò a Basilio Pediatites che si rivelò del tutto inconcludente e infatti gli arabi ripresero velocemente la Sicilia con la sola eccezione di Messina. Tutti gli storici, a partire da Michele Attaliate, sostengono che, se Maniakes non fosse stato deposto, i romani avrebbero potuto mantenere il controllo dell’isola, ed essa fu persa solo a causa della condotta vergognosa e vile dei comandanti inviati a sostituirlo[25]. A metter in cattiva luce Maniace agli occhi delle sue stesse truppe era stato il suo pessimo carattere. Egli non faceva mistero di detestare in fondo i normanni assoldati fra le sue fila e per questo non si comportava equamente con i sottoposti. In particolare un alterco con Arduino, capo delle truppe longobarde, lo mostrò dispotico e violento. Al rifiuto di Arduino di cedere a Maniace un bel cavallo arabo di cui si era impossessato, lo stratego attuò sul longobardo una terribile ritorsione, denudandolo, fustigandolo e schernendolo agli occhi di tutta la truppa, come riferisce Amato di Montecassino[26].

     Comunque sia, le tracce della presenza di Maniace sull’isola siciliana sono tante e profonde e permangono ancora oggi nella toponomastica sicula. Al Maniace è in qualche modo legato il Castello Maniace, a Siracusa, voluto dall’Imperatore Federico II di Svevia (1211-1250) e realizzato tra il 1232 e il 1239. Secondo alcune fonti del passato, il castello prende il nome proprio dal comandante bizantino, i cui discendenti si imparentarono con la casa reale degli Altavilla, da cui discendeva Federico II, che era figlio dell’Imperatrice Costanza d’Altavilla. Secondo il Fazello, il castello fu fatto costruire proprio dal Maniace il quale vi portò in dono due arieti bronzei di fattura ellenistica, che vennero posti a decorazione dell’entrata della fortificazione[27]. Ma gli studiosi moderni negano l’attribuzione a Maniace del castello, che è costruzione del XIII secolo.

     Al Generale si deve anche la fondazione della Chiesa Santa Maria di Maniace, nell’omonimo comune siciliano, in provincia di Catania. La chiesetta fu edificata a ricordo della vittoriosa campagna militare contro i Musulmani, nel luogo che da Maniace prese il nome. La battaglia fu cruenta e lasciò moltissime vittime sul campo tanto che al fiume che scorre accanto al territorio di Bronte (la chiesa si trova proprio al confine fra i due comuni di Bronte e Maniace), che secondo la leggenda divenne rosso per l’alto numero dei soldati trucidati che vi annegarono, fu dato il nome di Saracena. Sempre secondo la leggenda, lo stesso Maniace per festeggiare la vittoria del 1040 volle edificare una piccola chiesa, o un piccolo cenobio o ancora un castello con una cappella all’interno, a seconda delle versioni (la piccola chiesa sarebbe poi stata ampliata dal re Ruggero I e dalla moglie Adelaide[28]), cui diede in dono una preziosa reliquia in suo possesso, ovvero un’immagine della Madonna dipinta da San Luca Evangelista. Il piccolo cenobio in seguito decadde e sui suoi ruderi, come storicamente attestato, venne costruita intorno al 1174 l’Abbazia di Santa Maria di Maniace dalla regina Margherita di Navarra, sposa di Guglielmo I di Sicilia, che arricchì la fondazione con generose donazioni. L’abbazia, di stile normanno-gotico, venne affidata alla cura dei benedettini e il francese Guglielmo di Blois fu il primo abate[29]. All’interno della chiesa sull’altare maggiore, sotto un trittico del XIV secolo, conservata in una preziosa cornice in legno, si trova l’icona di Madonna che allatta il Bambino attribuita a San Luca[30]. Dopo una serie di passaggi di mano, nel 1799 l’abbazia con tutto il suo feudo venne donata dal re Ferdinando I delle Due Sicilie (ovvero Ferdinando IV, Re di Napoli) all’ammiraglio inglese Horatio Nelson come segno di gratitudine per il suo contributo nella repressione della Repubblica Partenopea. Il complesso architettonico infatti è anche conosciuto come Ducea di Nelson[31].

     A Costantinopoli, dopo Michele IV, giunse al potere Michele V (1041-1042), il nipote, da quello adottato, che però finì vittima di un’insurrezione popolare che portò alla sua epurazione. Questo spinse di nuovo sul trono l’Imperatrice Zoe e la sorella maggiore Teodora che da tanti anni era chiusa in convento. La difficile convivenza fra le due sorelle portò Zoe a progettare un terzo matrimonio con Costantino Monomaco che divenne Imperatore come Costantino IX (1042-1055).

     In Puglia la situazione era in grande fermento. Anche nei territori formalmente sotto il dominio bizantino erano svariati i segnali di insofferenza e frequenti le defezioni dei longobardi o i tradimenti degli stessi funzionari locali. Qui, in realtà, convivevano forzatamente tre aree di influenza, cioè quella bizantina, quella tedesca e quella longobarda. Ora la situazione era diventata esplosiva. Il malcontento nei confronti della dominazione bizantina aumentava e di questo vasto moto di protesta si fece promotore il nobile Argiro, figlio di Melo di Bari, il quale, tornato in Italia dopo alcuni anni di prigionia a Costantinopoli, si mise a capo dei rivoltosi sollevando i latini longobardi contro il dominatore bizantino. Era il 1040. Il catapano Niceforo Dokeianos fu assassinato ad Ascoli Satriano e le milizie locali si misero in marcia. A capo dell’esercito dei rivoltosi fu posto Arduino, governatore di Melfi, tecnicamente topoterete. Era quell’Arduino che aveva combattuto nell’esercito di Maniace in Sicilia a capo di una ristretta guarnigione di longobardi e che a causa degli aspri contrasti col Generale era stato severamente punito. Forse per questo Arduino tradì la causa bizantina e passò dalla parte dei ribelli latino longobardi. Strinse un’alleanza con Rainulfo Drengot di Aversa e molti altri Normanni si unirono alla causa. Fra questi, determinante fu l’arrivo dei due Altavilla, Guglielmo Braccio di Ferro e Drogone. I Normanni erano evidentemente attirati dalle possibilità di far bottino e conclusero un accordo con Arduino sulla spartizione delle terre conquistate. Così i ribelli entrarono a Melfi, prendendone possesso. Diverse città pugliesi inviarono una richiesta di aiuto ai bizantini e dalla Sicilia, al nuovo catapano, Michele Dokeianos, fu comandato di accorrere. Dokeianos sbarcò in Puglia con un discreto contingente di forze ausiliarie. Giunse a Bari e da qui si spostò a Bitonto dove punì severamente gli insorti, poi ad Ascoli Satriano, dove pure vennero colpiti tutti i capi dell’aristocrazia locale che erano passati dalla parte longobarda, e quindi raggiunse Melfi da dove voleva sferrare l’attacco decisivo all’esercito nemico. Questa battaglia campale si svolse a Venosa e vide soccombere le forze bizantine nei pressi del fiume Olivento. Il catapano fu costretto a fuggire, ritirandosi a Bari. Tentò quindi di arruolare nuove forze per dare la carica all’esercito dei ribelli. Vi fu un altro fronte di guerra a Montemaggiore nei pressi del fiume Ofanto, dove l’esercito bizantino venne nuovamente sconfitto.

     Per i greci due rapide disfatte sembravano eccessive. Questo destò molta preoccupazione a Costantinopoli; il catapano Dokeianos fu trasferito nuovamente in Sicilia e il comando delle operazioni in Puglia passò a Basilio Bioiannes ma con scarso successo perché il 3 settembre 1041 i Normanni inflissero un’ulteriore sconfitta ai Bizantini presso Montepeloso catturando lo stesso catapano. Dopo la caduta di Lavello, Venosa ed Ascoli Satriano, altre città come Bari, Monopoli, Giovinazzo e Matera si ribellarono ai Bizantini decidendo di passare dalla parte dei Longobardi. Nelle fila dei Normanni ad Argiro di Bari, che aveva l’appoggio di Guaimario, il potentissimo principe di Capua e di Salerno, si sostituì come capo delle forze insorte Atenulfo, fratello del principe di Benevento, e questo creò non pochi dissidi interni. Tuttavia la posizione dei Normanni nell’Italia meridionale si era incredibilmente rafforzata e i loro domini erano diventati estesi come mai successo fino ad allora, il tutto a danno del regno bizantino. Intanto a Costantinopoli, e facciamo un passo indietro, dopo la morte di Basilio II, l’avvento al trono di Costantino VIII sarebbe dovuto essere del tutto naturale, essendo egli associato al potere col fratello, ma si rivelò invece alquanto traumatico perché il dissoluto Costantino non aveva la tempra guerriera del grande Basilio né il polso per sostenere una responsabilità del genere. “Grande dissipatore, aveva scialacquato a piene mani le ricchezze pazientemente accumulate da suo fratello”, così ce lo presenta il Diehl[32], che continua: “Grande gourmet- era bravissimo nel comporre il menu di un pranzo e all’occorrenza non disdegnava di inventare lui stesso le salse appropriate – a furia di dedicarsi con tanto impegno a questo piacere era diventato gottoso al punto di non potere quasi più camminare”. Egli amava il gioco e le corse, infatti era sempre presente all’Ippodromo che frequentava maggiormente del Palazzo Reale e non aveva per niente calcolato fino all’ultimo momento la propria successione. Costantino aveva infatti tre figlie femmine, di cui la maggiore, Eudocia, era rinchiusa fin dalla tenera età in convento, mentre delle altre due, solo Zoe, la Porfirogenita, avrebbe potuto prendere il potere in quanto anche Teodora aveva fatto la scelta (in realtà forzata) di chiudersi in convento. Così, nonostante la sua non più giovane età -aveva all’epoca cinquant’anni -, Zoe si trovò nell’immediatezza di dover prendere marito. Fu combinato il suo matrimonio con Romano Argiro che pure era già sposato e che per questo ripudiò la moglie, la quale si chiuse in convento. Romano divenne Imperatore col nome di Romano III (1028-1031) proprio mentre Costantino moriva. Certo, non fu propriamente, il suo, un matrimonio d’amore, tanto che la Porfirogenita, la quale malvolentieri aveva obbedito alla ragion di Stato, non rinunciò al tenore di vita tenuto in tutti gli anni di allegro nubilato. “Per circa un quarto di secolo Zoe avrebbe riempito il palazzo imperiale delle sue avventure scandalose”, scrive un malevolo Diehl, “la sua storia è certamente una delle più piccanti che ci abbiano serbato gli annali bizantini e anche una delle più conosciute. […]. È stata per noi una grande fortuna che ella abbia avuto per biografo uno degli uomini più intelligenti e più notevoli che Bisanzio abbia mai prodotto, cioè Michele Psello…”[33]. Zoe era donna voluttuosa, irascibile, rabbiosa, e davvero il suo biografo Psello ce la descrive come dedita a tutti i vizi, talmente sfrenata nella goduria da dare a pensare che avesse seri problemi di salute mentale. Fatto sta che ella, fra i vari amanti, scelse infine quello che più pensava avrebbe accondisceso ai propri capricci meditando di farlo divenire Imperatore al posto di Romano III, quel marito divenuto troppo ingombrante e che proditoriamente la maliarda fece assassinare. Zoe sposò così il suo amante che fu incoronato come Michele IV. Zoe però si accorse presto di essersi sbagliata sul conto di Michele, il quale la allontanò dal potere relegandola ad un ruolo secondario. L’umiliazione della Porfirogenita non doveva durare a lungo perché Michele, già malato da tempo, morì nel 1041. Zoe, circondata da sospetti e tradimenti nell’ambiente di corte, seguendo il consiglio del potentissimo eunuco Giovanni l’Orfanotrofo, zio di Michele IV, che pure era stato uno dei suoi maggiori avversari interni, adottò uno dei nipoti di Giovanni, il quale, col titolo di Cesare divenne anche l’erede al trono dell’Imperatrice. In effetti il tristo figuro, uomo ingrato e sommamente falso, come lo definiscono gli storici, fu ben prestoincoronato Imperatore col nome di Michele V (1041-1042). Ma questi, oltre a tradire subito lo zio, relegandolo in convento, volle anche sbarazzarsi della moglie e benefattrice nei confronti della quale aveva sempre espresso parole di infinita gratitudine e la fece inviare in esilio su un’isola del Mar di Marmara. L’allontanamento dell’Imperatrice creò molto malcontento e fece sorgere una vasta contestazione a Costantinopoli, cosicché Zoe fu richiamata. Il popolo inferocito si riversò nel palazzo imperiale e Michele fu costretto a fuggire. Zoe riprese il potere ma, non potendo governare da sola, si sentì costretta a richiamare la sorella Teodora dal convento dove quella era rinchiusa. In realtà, la scelta di Teodora di prendere i voti non era stata spontanea. Associata anch’ella al potere dal padre Costantino, era ferocemente odiata dalla sorella Zoe, la quale ritenendola presenza per lei troppo ingombrante, fingendo di dar credito a voci di “intrighi e scandali” che la vedevano protagonista, la aveva costretta alla vita monacale. Col tempo tutti si erano dimenticati di Teodora. Fu giocoforza però per Zoe richiamarla alla vita civile in un momento di grave crisi dell’Impero e di estrema debolezza della sua posizione personale. Una mossa davvero singolare, caldeggiata dagli ambienti di corte, per rafforzare in questo modo la posizione dell’Imperatrice[34].  Michele V intanto venne stanato dal monastero dello Studion dove si era rifugiato, trascinato nella pubblica piazza e lì accecato alla presenza dei sudditi[35]. Zoe e Teodora erano intanto proclamate entrambe imperatrici. Restava il fatto che l’una detestava l’altra e questa soluzione, servita per salvare il trono, poneva entrambe in grave imbarazzo e subito si creò in Zoe il desiderio di affrancarsi. La Porfirogenita capì che non c’era altro modo che quello di risposarsi. Fu così che prese come terzo marito colui che divenne il nuovo Imperatore, Costantino Monomaco, nel 1042. Il Monomaco era un anziano aristocratico che seguì una politica estera del tutto rinunciataria. Bisogna aggiungere che nemmeno quello con Monomaco fu un matrimonio felice per Zoe poiché il sovrano, che era sempre stato un incallito donnaiolo, continuò a frequentare tutte le sue amanti ed in particolare volle portarsi a palazzo la sua favorita, Maria Sclerena, con la quale convisse more uxorio nella rassegnata compiacenza della moglie ufficiale. E però il nuovo matrimonio valse almeno alla Porfirogenita l’allontanamento dalla corte di Teodora, nuovamente relegata ad un ruolo secondario.

     Intanto Giorgio Maniace, essendo terminate con la morte di Michele V le ostilità della famiglia dell’Orfanotrofo nei suoi confronti, venne rimesso in libertà. L’Imperatrice Zoe era in effetti una sua profonda estimatrice ed egli venne nominato catapano e rinviato in Italia con i massimi poteri per ristabilire la situazione che andava peggiorando. Maniace sbarcò a Taranto e si rese subito conto della portata della sommossa guidata da Argiro. Buona parte della Puglia a nord di Taranto e Brindisi infatti era passata con i ribelli. Maniace avanzò sulla costa incendiando tutte le città che incontrava e massacrando i cittadini che non opponevano nemmeno resistenza. Fu compiuta una strage. Uomini, donne, bambini vennero uccisi senza pietà, molti impiccati agli alberi, altri sepolti vivi. “Monopoli, Matera, Giovinazzo, o quanto ne rimaneva, capitolarono implorando pietà”[36]. In realtà, spiega Ravegnani, Maniace non disponeva di forze sufficienti per abbattere il potente esercito guidato da Argiro e quindi rifiutò sempre il confronto diretto preferendo fare azioni di rappresaglia. Quando Maniace decise di lasciare Taranto, uscì di notte dalla città; i Normanni furono così costretti a rinunciare all’assedio e per rappresaglia devastarono il territorio intorno alla città[37].

Giorgio, consapevole dell’inferiorità delle sue forze, non combatté in campo aperto ma si diede alla macchia e dalla campagna sferrava attacchi proditori. “A Matera fece strage di contadini catturati mentre lavoravano i campi e più di duecento furono uccisi davanti agli occhi dei concittadini; quindi passò a Monopoli dove mise a morte gli abitanti senza processo e fece seppellire vivi alcuni bambini spargendo il terrore per tutta la regione”[38]. Con l’avvento al potere di Costantino IX, cambiavano però gli orientamenti governativi nella politica estera e il sovrano, che non approvava i violenti metodi seguiti dal Catapano, richiamò Maniace in patria, cercando un accordo con i ribelli pugliesi. I Longobardi, alleati coi Normanni, stavano in quel momento cingendo d’assedio Trani. L’Imperatore Costantino inviò ad Argiro un’ambasciata che chiedeva al capo degli insorti di raggiungere un compromesso per porre fine alle ostilità. Argiro decise di negoziare. Alcuni storici definiscono il suo un vero tradimento e altri dicono che egli fu comprato con l’oro di Bisanzio; fatto sta che, per intima convinzione o per calcolo, Argiro accettò la proposta di abbandonare l’assedio in cambio dell’impegno di utilizzare i Normanni come corpo mercenario dell’esercito bizantino al servizio dell’Imperatore in Italia. Argiro lasciò Trani e rientrò a Bari, che tornò così nell’influenza bizantina[39]. Ma cosa era accaduto a Maniace? Il Norwich, più incline all’aneddotica e attento alle vicende personali, informa, rifacendosi come fonte a Giovanni Scilitze, che alla base della caduta in disgrazia di Maniace vi fosse la donna che l’Imperatore Costantino Monomaco si era preso come amante, ovvero Maria Sclerena, il cui fratello, Romano Sclero, aveva qualche tempo prima sedotto la moglie di Maniace, restata in patria mentre il marito era perennemente impegnato in campagne militari. Questo avrebbe causato l’odio di Maniace nei confronti dello Sclero il quale approfittò della vicinanza all’Imperatore Costantino per mettere in cattiva luce Maniace stesso. Gli fu facile far cadere in disgrazia il Generale, che venne richiamato in patria. Tuttavia Maniace, che secondo questa versione era rimasto vittima di una congiura di palazzo, non aveva affatto voglia di sottomettersi[40]. Francesca Luzzato Laganà spiega che alla base del defenestramento del Generale vi fosse una forte rivalità fra la famiglia Maniace e quella degli Sclero per via di alcuni possedimenti in Anatolia confinanti con quelli di Maniace, di cui Sclero intendeva impossessarsi, e difatti già da anni erano in corso forti dissidi personali tra i due[41]. “Ma la linea adottata da Costantino IX nei confronti del Maniace presenta lati discutibili, se non oscuri. Il Maniace era divenuto famoso in guerre e in vittorie, scrive l’agiografo di s. Filarete di Calabria (p. 44), e per non poche virtù. La sanzione di Costantino IX ignorava persino i suoi meriti come vincitore degli Arabi. In questo contesto il sovrano non avrebbe agito perciò con equilibrio, tanto più che fu sensibile, a quanto si tramanda, alle pressioni del nobile Romano Sclero, in perenne litigio col Maniace per possessi limitrofi in Anatolia. Prescindendo dai rapporti personali, è da considerare che il disgregarsi dei domini bizantini fu dovuto al fatto che il predominio acquisito dai Normanni non era più reversibile, come di lì a una ventina d’anni sarebbe stato chiaro”[42].In realtà, come accennato sopra, è Giovanni Scilitze ad informarci più correttamente sulle cause del rovescio subito da Maniace, dovuto a Romano Sclero, il cui potere con il regno di Costantino Monomaco si accrebbe notevolmente grazie alla relazione dell’Imperatore con la di lui sorella: lo Sclero, afferma la nostra fonte, fu talmente sfacciato da non solo sottrarre al Maniace numerosi possedimenti terrieri ma da profanare addirittura il suo letto. “Ma quando lo scettro romano passò a Costantino Monomaco, le fortune di Sclero aumentarono vertiginosamente [ὁ Σκληρὸς ἐπὶ μέγα τύχης ἦρτο], perché sua sorella [scil. Sclerena] era l’amante dell’Imperatore [ἐπαλλακεύετο γὰρ τῷ Μονομάχῳ]. Egli fu insignito del titolo di magistros e protostrator e […] approfittando dell’assenza di Maniace, saccheggiò e distrusse i villaggi appartenuti a lui e profanò il suo letto matrimoniale [εἰς τὴν τούτου κοίτην ἀνέδην ἐξύβρισεν]”[43]. Scrive Psello:

     Codesto Giorgio Maniace non era certo un uomo balzato di colpo dal grado di scudiero a quello di generale, o uno che il giorno prima dà fiato alla tromba con mansione di araldo e il giorno seguente ha responsabilità di un esercito: mossosi per così dire dal nastro di partenza, egli invece avanzò progressivamente e scalando la gerarchia militare grado a grado si trovò infine al suo vertice. Ma ad ogni successo conseguito, coronato di serti, subito veniva cinto di catene. Avanzò progressivamente e scalando la gerarchia militare grado a grado si trovò infine al suo vertice. Ma ad ogni successo conseguito, ancora coronato per il trionfo, subito veniva cinto di catene. Rientrava vittorioso alla reggia e si ritrovava in carcere. Veniva inviato in guerra come capo supremo di tutte le truppe ed ecco che spuntava da ogni lato chi lo importunava e lo spingeva a far mosse sbagliate, perché lui fallisse e l’impero si trovasse in difficoltà. Dopo aver espugnato Edessa venne messo sotto processo. Venne mandato a riconquistare la Sicilia e subito veniva richiamato senza motivo apparente per timore che se n’impadronisse a proprio nome[44].

     A questo punto Maniace decise di ribellarsi a Costantinopoli, proclamandosi egli stesso Imperatore.

     “L’«apostasia» di Giorgio Maniace, e la guerra che ne conseguì, costituiscono una chiara accusa nei confronti di Monomaco, che fece di tutto perché il celebre guerriero gli si ribellasse. Secondo Attaliate, pp. 18-20, Maniace si proclamò imperatore perché scontento della scelta di Zoe, che vide ancora una volta, dopo Romano Argiro, deluse le aspettative dei militari a vantaggio dei civili”: così scrive Criscuolo[45]. “In realtà questo provvedimento, all’origine dell’«apostasia», va rapportato alla nuova politica di Monomaco in Italia meridionale: l’imperatore cercava di conciliarsi quelle popolazioni e non poteva fare altro che allontanare Maniace, ad esse profondamente inviso”. Infatti “Costantino IX ereditò una situazione molto difficile per la sopravvivenza del dominio bizantino in Italia meridionale. I temi siciliani esistevano ormai solo formalmente, nonostante la vittoria di Cecaumeno a Messina […] l’isola ritornò ben presto in mano araba. Gli interessi dell’impero vennero così ad avere epicentro in Puglia, dove l’offensiva normanna, guidata da Argiro, portò alla caduta di Giovinazzo ed all’assedio di Trani. Maniace, che era stato inviato da Zoe contro Argiro, riuscì a concludere ben poco sul piano militare, compensando però gli insuccessi con una feroce repressione contro le inermi popolazioni […] La decisione di Costantino IX di allontanare Maniace, per ristabilire rapporti di fiducia con gli indigeni, e di riconciliarsi con Argiro […] risultava quindi quanto mai opportuna”[46]. Psello attribuisce a Michele V la riabilitazione di Maniace[47], mentre Scilitza la attribuisce a Zoe[48] e così anche Attaliate[49]. A colui che fu inviato in Italia per sostituirlo, fece fare una brutta fine: “Maniace lo fece prigioniero, gli fece riempire gli orecchi, il naso e la bocca di sterco e quindi lo torturò a morte”[50]. Egli cercò di ingrossare le file del proprio esercito, assoldando soldati con l’oro che aveva sottratto ai funzionari bizantini e si diresse a Bari con l’intento di farsi riconoscere dalla nobiltà locale. Ma i baresi, sotto la guida di Argiro, restarono fedeli all’Imperatore[51]. I messi inviati da Costantinopoli nel settembre del 1042 per trattare le condizioni della resa e che erano giunti ad Otranto, furono vittime della rabbia ormai incontrollata di Maniace. Dei due, l’eunuco Pardo era, a detta di Psello, degno soltanto dei peggiori bassifondi di Costantinopoli e assurto alla carica di protospatario a motivo dei rapporti di familiarità con Monomaco. “[Pardo] uno di quegl’individui che dai trivi si sono d’un balzo installati a palazzo [τῶν ἐκ τριόδων ἀθρόον ἐπεισπεσόντων εἰς τὰ βασίλεια]”[52]. Nel 1043 venne inviato il nuovo catapano, Basilio Teodorokanos, per attaccare l’esercito di Maniace, ma il Generalissimo, vistosi alle strette, abbandonò il campo di battaglia e fuggì riparando ad Otranto. Ormai le vicende gli erano sfavorevoli. Solo Otranto gli diede asilo per pochi mesi ma Argiro riuscì a stanarlo, mettendo l’assedio alla città che venne accerchiata per terra e per mare e Maniace riuscì rocambolescamente a fuggire di notte su una precaria imbarcazione con la quale oltrepassò il Canale d’Otranto raggiungendo l’altra sponda dell’Adriatico[53]. Attraversò in fretta il mare, secondo Guglielmo di Puglia, cercando di calmare le tempeste per mezzo di sacrifici umani[54]. Marciò su Tessalonica, poi sconfisse l’esercito imperiale guidato dal Sebastoforo Stefano Pergameno, a Ostrovo in Macedonia, ma in questa battaglia cadde ferito a morte[55]. Quasi sicuramente egli voleva raggiungere Costantinopoli e qui, “è stata formulata l’ipotesi che l’usurpatore volesse coordinare il suo attacco con un altro architettato dai Russi, che si presentarono infatti dinanzi a Costantinopoli nell’estate 1043”[56]. La sua testa fu portata nella capitale, conficcata in una lancia ed esibita nell’Ippodromo. “Questa, forse, fu la fine non del tutto indegna di una vita gloriosa, burrascosa e fortunata”[57].

     “Nella Bisanzio del X e XI secolo, la ribellione e il tentativo di usurpare il potere imperiale erano crimini passibili di punizioni esemplari: la morte o, nel migliore dei casi, l’accecamento e l’esilio. La sconfitta del ribelle, il cui corpo morto o mutilato veniva spesso esposto di fronte alla popolazione della capitale, era esibita dalla propaganda imperiale come una conferma della legittimità e del favore divino accordato al basileus regnante, e come un deterrente per i sostenitori dell’usurpatore o per altri potenziali rivali”: scrive Luisa Andriollo[58]. “Stando così le cose, ci si aspetterebbe che alla sconfitta politica e militare facesse seguito anche la censura o la condanna di tali azioni nelle fonti letterarie prodotte nell’ambiente della corte di Costantinopoli. E invece, la storiografia costantinopolitana del X e dell’XI secolo ci trasmette i ritratti di numerosi ribelli dall’aspetto temibile ma eroico: l’insubordinazione e l’opposizione al potere legittimo non sembrano essere riusciti a oscurarne il ricordo, e anzi, la loro immagine finisce spesso per assumere dei tratti quasi leggendari”[59]. Infatti per Maniace non ci fu censura o rimozione della memoria ma egli ebbe una grande fortuna letteraria perché nella sua figura, come spiega la Andriollo, già i contemporanei vedevano “opposizione in atto all’imperatore e alternanza politica, anche violenta, insomma critica all’ingiustizia e all’ingratitudine imperiale”[60]. Ed egli entra addirittura nell’opera del poeta islandese Snorri Sturluson (1179 – 1242) Heimskringla, divenendo un personaggio della celebre saga norrena con il nome di Girgir’, che viene da Giorgio. La saga si sviluppò intorno alla figura di Harald Hardråda, ovvero Harald III Sigurdsson, noto come lo Spietato(1015-1066), dal quale, come capo della milizia mercenaria in Sicilia, Maniace aveva ricevuto aiuto[61]. Quindi “Maniakès è esplicitamente presentato come un modello di coraggio ed esperienza militare e come vittima archetipica di trattamenti ingiusti e gelosia imperiale”[62]. Giovanni Scilitza sottolinea “in ogni fase della carriera di Maniakès, il ruolo determinante svolto dalla personalità e dall’abilità di questo comandante, capace di imporsi sui suoi subordinati e consolidare le sue conquiste per la paura che ispirava. La mancanza di competenza e autorità di chi lo ha sostituito, prima a Edessa, poi in Sicilia e in Italia, fa venir fuori più chiaramente il suo valore, e viene presentato come causa del deterioramento della situazione politica e militare dell’Impero”[63]. Insomma, gli oppositori del sistema, e non erano pochi, vedevano in Maniace l’eroe della libertà, con un processo di rispecchiamento che generava l’empatia.

     “Un sistema di potere assolutistico, quale fu quello bizantino, per sua definizione non prevedeva altri organi istituzionali che potessero bilanciare con contrappesi politici la straripante autonomia decisionale dell’imperatore. Se è vero che spesso a Bisanzio a esercitare il vero comando furono esponenti dell’aristocrazia o funzionari dell’alta burocrazia o ecclesiastici che agivano nell’ombra e nelle segrete stanze del palazzo imperiale, è fuor di dubbio che il βασιλεύς avesse potere di vita e di morte su tutti i suoi sudditi, sempre che egli stesso non rimanesse vittima dell’usurpazione del trono (τυραννίς): emblematica a tal proposito è la rocambolesca vicenda biografica e politica di Basilio il Macedone, il fondatore della omonima dinastia imperiale, nata, attraverso l’omicidio e l’usurpazione, da un analfabeta figlio di contadini armeni, emigrati in cerca di fortuna nel tema di Macedonia. La fenomenologia dell’esilio e della persecuzione politica è dunque strettamente connessa alla stessa essenza del potere bizantino, alla sua natura assolutistica e mai democratica, che per il capriccio di un imperatore o, talvolta, di un’imperatrice poteva decidere le sorti di una guerra, la rapida ascesa di zotici ignoranti o la caduta rovinosa di coltissimi aristocratici e di valentissimi generali. L’assolutismo bizantino trovava la sua intrinseca giustificazione in un sistema di valori imperniato sulla ‘teologia politica’ e sulla τάξις, costituendo essa la rappresentazione sulla terra dell’ordine divino gerarchicamente inteso, verticistico e tendente alla reductio ad unum, sulla scia della speculazione filosofica dello Pseudo-Dionigi Areopagita”[64]. Scrive Psello:

     Quando ci strapparono l’Italia (la parte più nobile dell’Impero) Michele II inviò una spedizione sotto la guida di Giorgio Maniace per recuperare la provincia, e parlando di Italia io mi riferisco solo a quella parte di costa rivolta verso di noi. Maniace giunse all’improvviso in quelle terre con tutta l’armata, attuò ogni tattica ed era evidente quanto fosse ben determinato a scacciare gli invasori, anche a costo di opporre ai loro assalti, in mancanza di altro baluardo, il proprio pugno[…] Ma quando Michele fu detronizzato e l’amministrazione dell’Impero passò nelle mani di Costantino IX Monomaco, questi avrebbe dovuto subito gratificare e blandire Maniace, onorarlo con ogni riconoscimento ufficiale e incoronarlo di mille corone, insomma fare di tutto per trattarlo al meglio, invece l’imperatore non fece nulla di tutto questo e rifiutò di prendere atto dei suoi meriti, così suscitò in Maniace i semi della diffidenza, preparando la catastrofe dell’impero. Quando infine si ricordò di Maniace, seppe il suo disagio e ne conobbe le velleità di ribellione, neanche allora lo trattò con accortezza: avrebbe infatti potuto fingere di ignorare con magnanimità quanto Maniace stava allora solo progettando in modo vago, e invece si scagliò contro di lui, come se già fosse un usurpatore dichiarato[65].

     E continua:                                                        

     […] Inviò dunque a Maniace non già chi avrebbe potuto ammansirlo e richiamarlo all’ordine con cautela, ma – per dirla senza mezzi termini – gente pronta a farlo fuori, o almeno a rimproverargli le sue cattive intenzioni, fustigarlo, incatenarlo e scacciarlo dalla città. Per giunta il capo dell’ambasceria non era un funzionario di provata esperienza e necessaria diplomazia, e neppure uno di quelli che dopo lunga carriera giungono ai più alti gradi civili e militari, bensì uno venuto su dalla strada, uno dei tanti che avevano invaso il palazzo”[66]. Chiaro che inviare qualcuno che non avesse le necessarie doti diplomatiche in un simile frangente significasse far esplodere la situazione. E infatti: “Giunto da Maniace, che era già sulla difensiva, l’inviato dell’imperatore mancò addirittura di avvisarlo per tempo del proprio sbarco, e gli si parò davanti all’improvviso, come se volesse sorprenderlo in flagrante: senza neanche spiegargli di essere il latore di una proposta di pace, si lanciò col suo cavallo contro Maniace, senza convenevoli, senza il minimo preambolo che lasciasse trapelare l’intenzione di ben disporre gli animi a una trattativa, anzi accusandolo con tono alterato e minacciandolo dei più tremendi castighi. Maniace vide i propri sospetti prendere corpo e temette – a buon diritto – che gli venisse tesa alle spalle chissà quale insidia, si lasciò prendere dall’ira e levò il pugno verso l’ambasciatore, non certo per colpirlo, ma per spaventarlo. L’altro prese questo scatto d’ira come un atto di flagrante ribellione, protestò contro tanto ardire e aggiunse che ciò avrebbe comportato il dovuto castigo per tutti i presenti. Maniace e la sua armata si videro perduti e presi da un comune impulso, uccisero l’ambasciatore, convinti che ormai sarebbero stati in ogni caso trattati da ribelli[67].

     Psello ribadisce che “Giorgio Maniace era uno stratega molto abile e numerosi uomini si schierarono al suo fianco, non solamente quelli in età da prestare servizio militare, ma anche coloro che erano troppo giovani o troppo vecchi. Ma egli ben sapeva che non è con moltitudini di uomini che si ergono i trofei ma con l’abilità e l’esperienza, così raggruppò attorno a sé solo i veterani più esperti, scegliendoli con cura fra quanti erano già stati al suo fianco nel saccheggiare le città per impadronirsi di bottino e prigionieri. Formò il suo esercito e passò sul continente, sfuggendo a tutti i posti di guardia costieri. Nessuno di quelli che furono inviati a fronteggiarlo ebbe il coraggio di opporglisi, ma tutti se ne tennero alla larga, per il terrore che ispirava”[68].

     Sicché la fine ingloriosa di Giorgio Maniace diventa per il cronista emblematica del malgoverno dell’imperatore Costantino IX Monomaco. E la sua vicenda “è tanto più amara in quanto egli fu vittima dell’invidia e dei capricci di ben tre imperatori e dei loro consiglieri (Romano III Argiro e Michele IV Paflagone prima, lo stesso Costantino IX poi), nonostante le sue innegabili virtù militari e il suo ardimento di guerriero”[69]. D’Ambrosi scrive che: «Psello eleva la persecuzione politica e il confino di Maniace a paradigma umano delle conseguenze dello φθόνος, dell’invidia che si sprigiona anche contro coloro che dovrebbero essere platonicamente ‘gli eletti’ (ὀλίγοι) alla guida dello stato o alla sua difesa»[70]. E “analogamente a Psello, anche Michele Attaliata[71] riconduce la disfatta dell’impresa di Maniace in Sicilia (1038-1040) all’invidia che la sua spiccata personalità e il suo prestigio suscitavano negli avversari”[72].

     “Ma se fin dall’inizio gli uomini furono vinti dal suo valore, egli fu sconfitto da quei disegni celesti, che a noi sono imperscrutabili”[73], scrive Psello sull’ultima battaglia di Maniace, fornendo una descrizione grandguignolesca quanto potentemente suggestiva della sua fine. Quando i soldati si accorsero che ormai era morto perché il cavallo procedeva incontrollato, tutti si fecero sul cadavere. “Lo contemplarono, considerando stupefatti l’entità del terreno ricoperto dal corpo disteso; indi gli mozzarono il capo e lo recarono al comandante dell’esercito. E furono in parecchi lì per lì ad attribuirsi l’uccisione di lui e numerose e immaginose storie fiorirono sull’argomento. Ma giacché nessuna poteva essere dimostrata, si favoleggiò di sconosciuti cavalieri che gli sarebbero piombati addosso al galoppo e lo avrebbero decapitato. Molte furono le leggende di tal genere”[74]. L’Imperatore fece appendere la testa di Maniace su una picca e la fece esporre nell’Ippodromo. Dopodiché Psello descrive il rientro in città delle truppe con alla testa l’eunuco Stefano e con l’umiliazione dei prigionieri, cioè i soldati di Maniace sconfitti, costretti a montare su dei ciuchi rivolti verso la coda, imbrattati di liquami e fatti sfilare in corteo con la testa mozza del Generale come supremo trofeo di guerra. Costantino IX assiso fra le imperatrici Zoe e Teodora assisteva alla parata dal complesso della Chalké nei pressi della chiesa del Salvatore fondata da Giovanni Zimisce nel 971[75].

Molti storici moderni, come Anthony Kaldellis e Frederick Lauritzen, si sono interessati del posto occupato dalla figura di Maniakes nella letteratura bizantina del tempo[76]. Per esempio, nella più importante fonte coeva, “La descrizione di Maniakes nella Cronografia di Psello richiama strettamente quelli dei guerrieri dell’Iliade: come Achille, Ettore o Aiace nel passato, Maniakes si distingue per le sue dimensioni impressionanti, raggiungendo i dieci piedi (rispetto ad altri uomini, è detto come una collina o la cima di una montagna), dalla sua voce di tuono, dalla forza delle sue mani e dalla violenza del suo slancio, che eguaglia quello di un uragano o un leone[77]. […] le azioni di Maniakes a Ostrovo sono presentate come una vera e propria aristeia, con l’eroe che avanza animato da furore straordinario, massacrando e sbaragliando gli avversari”[78]. Anche «Attaliatès ricalca, nella sua brevità, questo modello: lo slancio di Maniakès, “uomo coraggioso e assetato di sangue” (ἀνὴρ αἱμοχαρὴς καὶ γενναῖος), è irresistibile, combatte con le proprie mani, in prima fila, massacrando i nemici[79]. Il movente dell’aristeia è sviluppato più compiutamente nei versi fortemente omerici del poema εἰς τὸν Μανιάκην περὶ τοῦ μούλτου, che riprende la struttura narrativa dell’epica omerica con i suoi momenti salienti, tra cui la ritirata e il riposo del guerriero e i combattimenti singoli, descritti con abbondanti dettagli cruenti. Ma, a differenza degli eroi omerici, Maniakes non beneficia della protezione divina; al contrario, nella Storia di Psello, così come in quella di Attaliates e nella poesia εἰς τὸν Μανιάκην περὶ τοῦ μούλτου, è la mano di Dio che si fa carico di fermare il suo slancio invincibile»[80].  In verità Michele Psello tenne un atteggiamento a dir poco incoerente nei confronti di Maniace. Infatti, mentre nella Cronografia ha parole di grande apprezzamento per il Generale, dipinto come un campione della libertà, appunto una figura omerica, nel carme in onore di Costantino Monomaco, invece, ai vv.709-711[81], lo definisce un satrapo, un approfittatore e un despota: «da questo malvagio ed empio dipendeva la parte migliore delle nostre schiere e dei nostri eserciti, come da un satrapo…Egli spinse contro di noi tutta l’Italia… imitava gli atteggiamenti di Capaneo»[82]. Come si spiega questa mutevolezza in Psello, posto che si trattasse di due generi letterari diversi, ovvero un trattato storico in un caso e poesia encomiastica nell’altro? Naturalmente il cambio di atteggiamento nei confronti del Maniace è attribuibile alle vicende personali dello studioso e quindi alle sue mutate fortune. Quando Psello cadde in disgrazia presso il Basileus, tanto da essere mandato in esilio, costretto a farsi monaco presso la comunità del Monte Olimpo in Bitinia, egli prese ad odiare il suo ex benefattore e a volgersi dunque con simpatia nei confronti degli avversari di lui. Fra questi, in primis, il grande generale bizantino, di cui nella Corografia esalta il valore in battaglia, e al quale si sente in qualche modo accomunato dal medesimo destino di esiliato in patria e presenta quindi la vicenda umana e politica del generale come funzionale alla critica dell’assolutismo bizantino e in particolare della miope e scellerata politica dell’imperatore. D’Ambrosi riporta la versione di F. Lauritzen[83], il quale collega la monacazione coatta di Psello nel 1054 all’ascesa della nuova amante dell’imperatore Monomaco, una principessa alana che aveva preso il posto dell’ormai defunta Sclerena, la quale invece aveva probabilmente favorito Psello. “Una conferma dello statuto privilegiato riservato alla reputazione della famiglia di Romano Sclero (e quindi di sua sorella, già amante del Monomaco) sarebbe da riscontrare, secondo lo studioso (ibid., pp. 258-259), proprio nell’omissione del particolare – storiograficamente non insignificante e riportato invece nella cronaca di Scilitze – che a provocare la caduta di Maniace in Sicilia nel 1043 fu proprio l’atteggiamento di Sclero, il quale brigò con l’appoggio della sorella a corte per ottenere l’immediato richiamo del generale a Costantinopoli”[84]. Fatto sta che successivamente Psello, con l’ascesa al potere di Costantino X Ducas poté lasciare il convento e ritornare a corte riprendendo il suo ruolo di alto funzionario con Isacco Comneno, Costantino X, Eudocia e Michele VII (dal quale poi sarebbe stato di nuovo allontanato).

     Insomma, una figura storica, non è una novità, risente dell’interpretazione che viene data dai cronisti coevi in base alle loro disposizioni d’animo oltre che alla loro competenza. Se i cronisti difettano della dote essenziale per lo storico, ossia l’obiettività, è chiaro che ci si trova a dover fronteggiare discordanze e incongruenze. Particolarmente nell’opera di Psello si fanno sentire gli umori, le simpatie, le personali idiosincrasie. Bisogna tenere conto delle contingenze politiche nelle quali l’autore scriveva, essendo egli non un narratore esterno, un lucido e distaccato cronista delle vicende, ma parte in causa, protagonista delle stesse. Non solo limite intrinseco dell’opera è quindi il fatto che Psello si affidi a ricordi personali ma limite ancor maggiore è il grave rischio della faziosità e della manipolazione dei fatti. Un tale rischio è proprio di chi, da testimone diretto degli eventi, non può allontanare da sè odii e passioni, ingratitudine e biasimo, insomma quella emotività del cronista che non scrive sine ira et studio, come dicevano i latini.

     Dunque se in Guglielmo di Puglia Maniace viene dipinto come un uomo feroce e sanguinario[85] e Psello “è intento a tratteggiare l’usurpazione (τυραννίς) di Maniace in funzione anti-imperiale e sorvola completamente sulle cause profonde della sua insurrezione, interessato qual è a trasformare il generale bizantino nell’antagonista di Costantino IX Monomaco, divenuto ormai un βασιλεύς indegno del suo ruolo”, lo Scilitze invece “ha bisogno di sgombrare il campo dalle discordanti versioni che circolavano sulla ribellione di Maniace”[86], riferendo apertis verbis che la caduta del Generale, così come una prima volta, in Sicilia nel 1040, era dovuta alla falsa accusa di tradimento da parte di Stefano Calafato, il comandante della flotta bizantina inviata in Italia da Giovanni Orfanotrofo, la volta successiva era stata causata da Romano Sclero, “un tipico rappresentante di quella nobiltà costantinopolitana adusa a profittare della propria posizione di potere per perseguire loschi interessi personali”[87]. Anche secondo Michele Attaliate, che pure definisce Maniace un sanguinario, la colpa della disfatta è della negligenza politica degli imperatori[88]. Lo storico narra poi l’ultimo atto dell’avventura di Maniace, collocandola a Tessalonica.

     Dopo aver posto l’accampamento davanti a Tessalonica, trascorsi due giorni, verso sera, attaccò. Il legato imperiale era uscito dalla città per affrontare il ribelle che incuteva uno straordinario terrore ai nemici con attacchi di insostenibile violenza. Maniace combatteva infatti davanti ai propri uomini, non si tirava indietro e non vi era nessuno che venisse da lui solo ferito, in quanto li faceva tutti a pezzi, ferendoli in più parti del corpo. Era come indomabile, invincibile, ben piantato, di aspetto terribile, superiore a tutti per forza d’animo e capace da solo di vincere una battaglia, tanto che i suoi stessi nemici ne tessevano le lodi. A Tessalonica, però, verso la fine del combattimento (per volontà imperscrutabile di Dio) cadde da cavallo e rimase immobile a terra: gli avversari pensarono a un inganno, ma poi si accorsero che non fingeva, accorsero in molti e lo trovarono a terra immerso nel proprio sangue, ferito mortalmente al fianco. Subito i suoi seguaci, privati di una vittoria ormai certa, si dispersero e le truppe imperiali tornarono in patria vincitrici, senza tuttavia potersi vantare di una vittoria dovuta all’intervento divino[89].

     Secondo Psello, invece, più incline a romanzare la propria narrazione, ad Ostrovo Maniace, come già visto, fu sconfitto dai disegni celesti imperscrutabili[90]. L’Impero viene cioè salvato dalla Provvidenza e ricorrono tutti gli elementi per fare della battaglia un epos.

     Di contro, «la portata della rivolta di Giorgio Maniace viene notevolmente attenuata da Zonara[91], alla luce della necessità (in epoca comnena) di una maggior compattezza a sostegno della politica occidentale dei sovrani. Per evitare poi qualsiasi notizia che celebri i Normanni, Zonara ignora del tutto il loro progressivo espandersi in Meridione, informandoci solo a cose fatte, con falsa naturalezza, del fatto che ormai la Longobardia è in saldo potere del Guiscardo solo al momento della promessa di matrimonio scambiata fra Costantino, figlio di Michele, e Elena, figlia di “Roberto di Longobardia”»[92].

In conclusione riportiamo le fonti che si occupano di Maniace.

     Le principali fonti coeve sono:

  • l’opera di Giovanni Scilitze, Ioannis Scylitzes, Synopsis historiarum, editio princeps, a cura di I. Thurn, Berolini-Novi Eboraci, 1973 [CFHB: Corpus Fontium Historiae Byzantinae. series Berolinensis, 5],  pp. 381, 387ss., 397-399, 401, 403, 405, 407, 422, 425, 427ss., 484;

la Synopsis historiarum, narra gli avvenimenti fra l’811 e il 1057. Il racconto fu integrato da Giorgio Cedreno che partì fin dalla creazione del mondo: Skylitzes Continuatus, in Georgius Cedrenus, Ioannis Skylitzae ope, ed. I. Bekker, 2 voll., Bonnae 1828-1829, e da un anonimo continuatore, che arrivò fino all’anno 1101. Nel corpus CSHB le tre narrazioni sono riunite insieme. L’edizione del Thurn ha isolato l’opera di Scilitze, pubblicandola a parte nel CFHB. [G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), cit.,p. 156, nota 27.] Una versione più recente dell’opera è John Skylitzes, A Synopsis of Byzantine History 811-1057, introduction, text and notes, translated by J. Wortley, Cambridge, 2010.

  • La Chronographia di Michele Psellos, Michel Psellos, Chronographie ou Histoire d’un siecle de Byzance (976 -1077), 2 voll., ed. E. Renauld, Paris, 1828, poi M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), a cura di Silvia Ronchey, intr. di D. Del Corno, testo critico di S. Impellizzeri, comm. di U. Criscuolo, 2 Voll., Scrittori greci e latini, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1984 (nuova edizione 1993), pp. 8ss., 13, 15;
  • un panegirico di Michele Psello per Costantino IX Monomaco del 1043, Michaelis Pselli orationes panegyricae, ed. G.T. Dennis, Stutgardiae-Lipsiae 1994 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum Et Romanorum Teubneriana), pp. 18-50 (oratio n. 2);
  • la testimonianza di Michele Attaliate, Michaelis Attaliotae, Historiae, ed. I. Bekker, Bonnae, 1853 [CSHB], poi Michele Attaliate, Historia, a cura di I. Pérez Martín, Madrid, 2002, pp. 7, 9, 15;
  • un epigramma del poeta Cristoforo Mitileneo e una poesia in esametri omerici sulla morte di Maniace, attribuita allo stesso Cristoforo: per l’epigramma, Épigramme pour le tombeau de Maniakès. Vers héroïques, dans Christophori Mitylenaii versuum variorum collectio cryptensis, ed. a M. De Groote (CCSG 74), Turnhout, Brepols, 2012, p. 59 (n. 65); per il carme omerico, M. Broggini, Il carme εἰς τὸν Μανιάκην περὶ τοῦ μούλτου attribuito a Cristoforo Mitileneo, in «Porphyra», n.15, 2011, pp. 13-34, http://www.porphyra.it/Porphyra15-1.pdf, page consultée le 30 mars,

[segnalato da L. Andriollo, Le charme du rebelle malheureux: Georges Maniakès dans les sources grecques du XIe siècle, cit., p. 3, nota 9. Si veda anche E. Magnelli, Due integrazioni al carme sulla morte di Giorgio Maniace, in «Νέα Ῥώμη», n. 11, 2014, pp. 145-149: Ibidem]. Sul carme, anche F. Lauritzen, Achilles at the battle of Ostrovo. George Maniakes and the reception of Iliad, in «Byzantinoslavica», n. 72, 2014, pp. 177-180 (in Appendice a pp. 181-187 lo studioso ristampa il testo del carme secondo l’edizione di S.P. Lambros [Λάμπρος], Ἡ ἀποστασία καὶ ὁ θάνατος τοῦ Γεωργίου Μανιάκη, in Idem, Ἱστορικὰ μελετήματα, ἐν Ἀθήναις, 1884, testo a pp. 162-165, e inoltre propone una traduzione in lingua inglese);

  • Anne Comnène, Alexiade, a cura di B. Leib, Paris, 1967, I, p. 20; II, pp. 33, 117; nuova versione Alessiade Opera storica di una principessa porfirogenita bizantina, a cura di Giacinto Agnello, Pluralia, Palazzo Comitini Edizioni, Palermo, 2010, https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/37038761/PDF_Alessiade_definitiva__Bagheria_Terze_bozze__14_ottobre_2010-pdf;
  • ancora di Scilitze, Ioannis Scylitzes, Empereurs de Constantinople, a cura di B. Flusin – J.-C. Chynet, Paris, 2003, pp. 316ss., 320ss., 329-334, 336ss., 351, 354-356, 399;
  • l’opera di Teofane, Theophanis, Chronographia, ed. J. Classen, 2 voll., Bonnae, 1829-1841 [CSHB], passim.

Anche la Cronografia di Teofane viene continuata da vari autori, riuniti in un corpus indicato come Teofane Continuato, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata, Symeon Magister, Georgius Monachus, ed. I. Bekker, Bonnae, 1838 [CSHB]. Nel corpus è presente anche la Vita Basilii dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-956), che scrisse la biografia del nonno Basilio I il Macedone (867-886);

  • l’opera di Giovanni Zonara, Ioannis Zonarae, Annales, ed. M. Pinder, 2 voll., Bonnae, 1841 [CSHB], completata da Ioannis Zonarae Epitome historiarum Libri XIII – XVIII, ed. T. Büttner – Wobst, Bonnae, 1897 [CSHB].
  • l’opera di Guglielmo di Puglia, Gesta Roberti Wiscardi, in Monumenta Germaniae Historica (M.G.H.) Scriptores, a cura di G.H. Pertz, T. Mommsen et alii, Hannover, 1826, Vol. IX, Palermo, 1961; Guillaume De Pouille, Le geste de Robert Guiscard, ed. M. Mathieu, [Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Testi, 4], Palermo, 1961, vv.492-557, pp. 124-128; successivamente Idem, Le Gesta di Roberto il Guiscardo, introduzione, traduzione e note di F. De Rosa, F. Ciolfi, Cassino, 2003.
  • Anonymus Barensis, Chronicon, a cura di L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 5, Milano, 1724, p. 151;

     Fra le opere moderne:

  • F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicilie, cit., 2 Voll,  I, pp. 102-104;
  • J. GayL’Italie méridionale et l’empire byzantin depuis l’avènement de Basile Ier jusqu’à la prise de Bari par les Normands (867-1071) / Albert Fontemoing Èditeur, Paris, 1904 [Poi ristampata in Idem, L’Italia meridionale e l’Impero bizantino dall’avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni, cit.,], pp. 434, 436, 450-455, 458, 460, 462-464, 467-469, 604; l’opera ha avuto una nuova ristampa con Arnaldo Forni editore, Bologna, 1978, e una recentissima versione con L’Italia meridionale e l’Impero bizantino. Dall’avvento di Basilio II alla resa di Bari ai Normanni (867-1071), Lecce, Capone Editore, 2011;
  • G. L. Schlumberger, L’épopee byzantine a la fin du dixieme siècle, 3 Voll., Hachette et Cie, Paris,1905, p. 457;
  • N. Svoronos, Recherches sur… le cadastre de Thèbes, in «Bullettin de correspondance hellénique», n. LXXXIII, 1959, pp. 69ss.;
  • J. Shepard, Byzantium’s last Sicilian expedition, in «Rivista di studi bizantini e neoellenici», n.s., XIV-XVI, 1977-79, pp. 145-159;
  • V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, traduzione di Franco Di Clemente e Livia Fasola, prefazione di Cinzio Violante, Bari, Ecumenica Editrice, 1978, pp. 60, 62, 74ss., 93, 95ss., 98, 112, 131ss., 138, 171, 203;
  • K. Bourdara, Kathosiosis ke tyrannis katà tus mesus Byzantinus chronus, I, Makedoniki dynastia (867-1056), Athina, 1981, pp. 111, 118-121;
  • V. von Falkenhausen, I Bizantini in Italia, in I Bizantini in Italia, cit., pp. 118-121; 
  • J. Shepard, Why did the Russians attack Byzantium 1043?, in «Byzantinisch-neugriechische Jahrbücher», n. XXII, 1985, pp. 162, 171-176, 178-182;
  • J.-C. Cheynet, Pouvoir et contestations à Byzance (963-1210), Paris, 1990 (Byzantina sorbonensia, 9), pp. 47-49, 57ss., 166, 169ss., 182, 223, 292, 303, 309ss., 312, 338, 360, 381, 386;
  • F. Luzzati Laganà, Maniakes, Georgios, in Lexikon des Mittelalters, n. VI, 1, München-Zürich, 1992, col. 194;
  • Maniakes, George, a cura di Ch.M. Brand – A. Cutler, in The Oxford Dictionary of Byzantium, ed. by A. Kazhdan – A.-M. Talbot – A. Cutler – T.E. Gregory – N.P. Ševčenko, 3 Voll., New York-Oxford, 1991, II, p. 1285;
  • A.P. Kazhdan – S. Ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’XI alla fine del XII secolo, Palermo, Sellerio Editore, 1992, con Postfazione di Luciano Canfora, p. 322 con n. 480 (sull’etimologia del nome di Maniace);
  • B. Krsmanovič – A. Loma, George Maniakès, le nom OIKONOMIDES et “l’autonomie scythe” de Michel Psellos, in «Recueil des travaux de l’Institut d’études byzantines», n. XXXVI, 1997, pp. 233-263;
  • S. Caruso, Il bìos di S. Filareto il Giovane (XI sec.) e la Calabria tardo-bizantina, in Sant’Eufemia d’Aspromonte. Atti del Convegno di Studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte, 14-16 dicembre 1990), a cura di S. Leanza, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997 (Bibliotheca Vivariensis, 5), pp. 92-98 e 102-105;
  • A. Kaldellis, The argument of Psellos’ Chronographia, Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters 68, Leiden, 1999, pp. 108, 183, 197;
  • Ch. Stavrakos, Unpublizierte Bleisiegel der familie Maniakes: der Fall des Georgios Maniakes, in «Studies in Byzantine Sigillography», n. 8, 2003, pp. 101, 103-109, 111;
  • E. Merendino, La spedizione di Maniace in Sicilia nel bios di San Filareto di Calabria, in «Nέα Ῥώμη», n. 1 (2004) [= Ἀμπελοκήπιον. Studi di amici e colleghi in onore di Vera von Falkenhausen, I], pp. 135-141;
  • G. Ravegnani, I bizantini in Italia, cit., pp. 191, 195, 196, 215, 216;
  • M. Gallina, Gli stanziamenti della conquista. Resistenze e opposizioni, cit., pp. 151–179;
  • A. Jacob, Le topotérète de la flotte Constantin et la révolte de Georges Maniakès en 1042 dans une inscription inédite de terre d’Otrante, in «Νέα Ῥώμη», n.4, 2007, pp. 163-176 [= Ἀμπελοκήπιον. Studi di amici e colleghi in onore di Vera von Falkenhausen, IV];
  • F. Luzzati Laganà, Giorgio Maniace, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit.;
  • V. Von Falkenhausen, Roger II, in der Katouva toû Maviàxe (Mai, 1126), in Vaticana et Medievalia. Ètudes en l’honneur de Louis Duval-Arnauld, a cura di J. M. Martin, B. Martin-Hisard, A. Paravicini Bagliani, Firenze, Sismel, Edizioni del Galluzzo, 2008, pp. 117-128;
  • G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), cit., pp. 92-107;
  • F. Lauritzen, The depiction of character in the Chronographia of Michael Psello, scit., pp. 175-180;
  • L. Andriollo, Il fascino del ribelle sfortunato. L’usurpazione fallita di Giorgio Maniace e la formazione di una memoria storico-letteraria nella Bisanzio dell’XI secolo, cit. (anche in Eadem, Le charme du rebelle malheureux, cit.);
  • M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., pp. 111-112;
  • J.J. Norwich, I normanni nel Sud 1016-1130, cit. [prima edizione italiana, Milano, Mursia editore, 1971], pp. 91-93, 102-105, 109-110, 119-121, 123, 236, 244

  • [in Tra genti latine e radici greche. Omaggio a Gino Giovanni Chirizzi per i suoi 80 anni, a cura di Mario Spedicato e Carlo Miglietta, Soc. Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2024]

    * Società Storia Patria per la Puglia, paolovincenti71@gmail.com

NOTE

     [1] F. Luzzati Laganà, Giorgio Maniace, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Volume 69, 2007 (on line).

     [2] Ibidem.

     [3] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, in «Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici», Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Sapienza Università di Roma, n. s. 54 (2017), Roma, 2018, pp. 111-112. L’opera cui si riferisce D’Ambrosi è: S. Lucà, Dalle collezioni manoscritte di Spagna: libri originari o provenienti dall’Italia greca medievale, in «Rivista di studi bizantini e neoellenici», n.s. 44 (2007) [2008] Ricordo di Lidia Perria, III, pp. 39-96 (con 24 tavv.): 81. Sull’argomento si possono inoltre consultare: V. Tsamakda, The Illustrated Chronicle of Ioannes Skylitzes in Madrid, Boston, Leiden, 2002, con riproduzioni a colori e bianco/nero delle 574 miniature del manoscritto madrileno, datate dalla studiosa al terzo quarto del XII sec.: citato in M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 112, nota 15. Dopo l’ormai datato studio di G. Cavallo, Per l’origine e la data del cod. Matrit. 413 delle Leges Langobardorum, in Studi in memoria di Mario Rotili, Napoli, 1984, pp. 135-142, il codice è stato oggetto di approfondite analisi. Si consulti anche E.N. Boeck, Imagining the Byzantine Past: The Perception of History in the Illustrated Manuscripts of Skylitzes and Manasses, Cambridge, 2015, in particolare pp. 22-23 (con ulteriore bibliografia alla nota 8); V. Tsamakda, Historical Writings, in Eadem, A Companion to Byzantine Illustrated Manuscripts, Boston, Leiden, 2017 (Brill’s companions to the Byzantine World, 2), pp. 121-125; A. Babuin, Armi e armature nel codice matritense di Giovanni Scilitze, in «Quaderni Utinensi», ser. VIII, 15-16 (1990) [pubbl. 1996], pp.304-308, e p. 111, nota 14: cit. in Ivi, p. 112, nota 16.

     [4] J. Gay, L’Italia meridionale e l’Impero bizantino dall’avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni (867-1071), Firenze, 1917, pp. 422-423.

     [5] G. Ravegnani, I bizantini in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004 (nuova edizione 2018), pp.153-154. Si rinvia inoltre a F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicilie, I-II, Paris, 1907, passim; S. Borsari, L’amministrazione del tema di Sicilia, in «Rivista Storica Italiana», n. 66, 1954, pp. 133-158; B. Lavagnini, Siracusa occupata dagli Arabi e l’epistola di Teodosio monaco, in «Byzantion», n. 29-30, 1959-1960, pp. 267-279.

     [6] Le incursioni saracene, in G. Vitolo, Medioevo, in Corso di storia, diretto da Giuseppe Galasso, Milano, Bompiani Editore, 1997, p. 201.

     [7] M. Amari, Biblioteca arabo-sicula. Versione italiana, 2 Voll., Torino-Roma, E. Loescher, 1880-81, 1, p. 412, 2, pp. 128, 191; Annales Barenses, ed. G.H. Pertz, Hannover, 1844 (M.G.H. Scriptores, 5), p. 52. Più in generale, sul periodo che stiamo trattando: G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1968; V. Von Falkenhausen, Taranto in epoca bizantina, in «Studi medievali», 3° ser. n. IX, 1969, pp. 157-159; Eadem, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale (dal IX all’XI secolo), Bari, Ecumenica Editrice, 1978; I bizantini in Italia, a cura di Guglielmo Cavallo, Vera von Falkenhausen, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1982; G. Ravegnani, La storia di Bisanzio, Roma, Jouvence, 2004; Idem, Bisanzio e Venezia, Bologna, Il Mulino, 2006; Idem, Introduzione alla storia bizantina, Bologna, Il Mulino, 2006; Idem, Imperatori di Bisanzio, Bologna, Il Mulino, 2008; V. Von Falkenhausen, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, in Otranto nel Medioevo tra Bisanzio e l’Occidente, a cura di Hubert Houben, Galatina, Congedo Editore, 2007, pp. 13-60.; F. Burgarella e A. Guillou, L’Italia bizantina: dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia, Torino, 1988; Histoire et culture dans l’Italie byzantine: acquis et nouvelles recherches, a cura di A. Jacob, J.M. Martin, G. Noyé, Roma, 2006; C. Mango, La civiltà bizantina, in Storia universale, Vol. 9, La civiltà bizantina, Milano, Rcs Quotidiani Spa, 2004, pp. 87-127; passim.

     [8] V. Von Falkenhausen, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 40.

     [9] G. Ravegnani, I bizantini in Italia, cit., pp.184-186.

     [10] Su Boiannes, A. R. Iannace, Per una biografia del catepano Basilio Boioannes: il contributo della storiografia e della trattatistica militare https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/52301347/Per_una_biografia_del_catepano_Basilio_Boioannes_versione_rivista-libre.pdf?1490452833=&response-content-

     [11] G. Ravegnani, I bizantini in Italia, cit., pp. 189-190.

     [12] Ancora, per la bibliografia generale su questi avvenimenti: J.-C. Cheynet, Les effectifs de l’armée byzantine aux X-XII s., in «Cahiers de civilisation médiévale», v. 38, n. 152, 1995, pp. 319- 335; N. Cilento, I Greci nella cronachistica Longobarda e Normanna, in Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno nell’Italia meridionale, Atti del II Convegno internazionale di studi sulla Civiltà Rupestre nel Mezzogiorno d’Italia (Taranto-Mottola, 31 ottobre – 4 novembre 1973), a cura di C. D. Fonseca, Amministrazione Provinciale di Taranto, Taranto, 1977, pp. 121-142. 142; S. Cosentino, Storia dell’Italia bizantina (VI-XI secolo). Da Giustiniano ai Normanni, Bologna, Bup, 2008; T. Indelli, I Bizantini nel Mezzogiorno d’Italia (VI-XI sec.), Salerno, Gaia, 2010; E. N. Luttwak, La grande strategia dell’Impero Bizantino, Milano, Bur, 2011; S. Tramontana, Il mezzogiorno dai Normanni agli Svevi, in La storia: i grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, a cura di Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, vol. II, tomo 2, Il Medioevo, Torino, Utet, 1986; A. Petrucci, Argiro, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1964 < http://www.treccani.it/enciclopedia/argiro_(Dizionario-Biografico)/> ; B. Pio, Melo da Bari, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 73, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009 <http://www.treccani.it/enciclopedia/melo-da-bari_(DizionarioBiografico)/>; Il Concilio di Bari del 1098. Atti del convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, a cura di Salvatore Palese e Giancarlo Locatelli, Bari, Edipuglia,1999; G. Tabacco, Grado G. Merlo, Medioevo, in Storia universale, Vol. 7, Milano, Rcs Quotidiani Spa, 2004; C. Alzati, La Chiesa ortodossa, in Cristianesimo, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Roma Bari 2004; G. Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Firenze, Sansoni, 2000; P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia. Nuovi studi, Putignano, Vito Radio editore, 2012.

     [13] G. Ravegnani, I bizantini in Italia, cit., p. 91.

     [14] J. J. Norwich, I normanni nel Sud 1016-1130, Palermo, Sellerio Editore, 2021 (nuova edizione), p. 92.

     [15] M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), a cura di Silvia Ronchey, intr. di D. Del Corno, testo critico di S. Impellizzeri, comm. di U. Criscuolo, 2 Voll., Scrittori greci e latini. Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1984(nuova edizione 1993), Volume II, pp.9-11.

     [16] Cfr. J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p. 103.

     [17] Sulla santa, fra le opere più recenti, citiamo: O. Garana Capodieci, Santa Lucia nella tradizione, nella storia e nell’arte, Siracusa, 1958; G. Maino, Santa Lucia: vergine e martire siracusana, Bari, Edizioni Paoline,1961; G. Cinque, Santa Lucia vergine e martire: studio storico, critico, apologetico, Napoli, 1963; E. Bergadano, Lucia: vergine e martire di Siracusa, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline,1989; R. Battilana, Santa Lucia: 13 dicembre, Parma, Benedettina Editrice, 1996; A. Caltabiano, Santa Luciuzza bedda Patruna di Carruntini, Siracusa, Casa Editrice Ma.Va., 2000; G. Gozzi, Santa Lucia: 17 secoli di storia, culto, tradizioni. La martire siracusana rimane fonte di luce e grazia per chi la invoca, Mantova, Editoriale Sometti, 2002; P. Magnano, Lucia di Siracusa, Siracusa, Edizioni ASCA, 2004; M. Sgarlata, La Catacomba di Santa Lucia e l’Oratorio dei Quaranta Martiri, Siracusa, 2006; D. Gimondi e S. Greco, Santa Lucia. Tradizioni brembane e siracusane, Clusone, Bergamo, Ferrari Editore, 2005; S. von Gembloux, Acta Sanctae Luciae, ed. Tino Licht, Heidelberg, 2008.

     [18] Durante la campagna siciliana, secondo le fonti, il generale avrebbe trafugato le reliquie di svariati santi, portandole poi a Costantinopoli nel 1040.

     [19]Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, XXVII, p. 82, Paris 1838-1855, citato da S. D’Arrigo, Il martirio di sant’Agata nel quadro storico del suo tempo, I, Catania, 1987, pp. 80, 98. Veramente vasta la bibliografia su Sant’Agata. Fra gli altri, si vedano: G. B. Palma, Istoria di Sant’Agata: Poema in lingua siciliana del secolo XV con illustrazioni, in «Aevum», Anno 14, Fasc. 2/3 (Aprile-Settembre 1940), pp. 263-325; G. Scalia, La traslazione del corpo di S. Agata e il suo valore storico, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», seconda serie, III-IV, 1927-1928, pp. 38-128; V. Casagrandi, S. Agata e l’ideale del suo martirio, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», seconda serie, III-IV, 1927-1928, pp. 1-37; M. Scaduto, Agata, in EC, I, Firenze 1948, coll. 432-433; il già citato S. D’Arrigo, Il martirio di sant’Agata nel quadro storico del suo tempo, 2 volumi; S. Tramontana, Sant’Agata e la religiosità della Catania Normanna, in Chiesa e società in Sicilia. Atti del I Convegno Internazionale dell’arcidiocesi di Catania (Catania, 25-27 novembre 1992), a cura di G. Zito, Torino, SEI, 1995, pp. 189-202; M. Stelladoro, Ricerche sulla tradizione manoscritta degli Atti greci del martirio di s. Agata, in «Bollettino della Badia greca di Grottaferrata», nn. 49-50, 1995-1996, pp. 63-89; Eadem, Agata. La martire, Milano, JakaBook, 2005.

     [20] M. Papasidero, Translatio sanctitatis. I furti di reliquie nell’Italia medievale, Firenze University Press, 2019, p. 63.

     [21] Historia translationis corporis s. Agathae v. m. Constantinopoli Catanam, in AS, Februarii, I, Paris 1863, pp. 642-648, cit. in M. Papasidero, Translatio sanctitatis, cit.,p. 64, nota 179.  Alla relazione di Maurizio, si aggiunse uno scritto del monaco Blandino di poco posteriore, contenente i miracoli della santa. Si veda: L. T. White jr., Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania, 1984, pp. 172-173. Inoltre, C. Naselli, Una redazione volgare dell’Epistola del vescovo Maurizio sulla traslazione delle reliquie di S. Agata da Costantinopoli a Catania, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», n. 19, 1922, p. 4.

     [22] Cfr. G. Consoli, S. Agata vergine e martire catanese, II, Edizioni Capitolo della Cattedrale, Catania, 1952, pp. 118-134, cit. in M. Papasidero, Translatio sanctitatis, cit.,p. 65, nota 183.

     [23] M. Papasidero, Translatio sanctitatis, cit., pp. 63-65. Ricordiamo che nella storia di Sant’Agata si colloca anche l’episodio della mammella ritrovata sul lido di Taranto o anche sul lido di Gallipoli, come scrive il Ravenna: B. Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Napoli, 1836, pp. 321-326, ma si tratta solo di un’interpolazione del testo di G. Scalia, La traslazione del corpo di S. Agata e il suo valore storico, cit.

     [24] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 122. 

     [25] Ivi, p.123.

     [26] Citato da J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p. 105.

     [27] T. Fazello, dalla tipografia di Giuseppe Assenzio, Palermo,1817.

     [28]  J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit., p. 102, nota 6.

     [29] “Nella chiesa sono custodite pregevoli opere, tra le quali un trittico dipinto su tavola raffigurante S. Benedetto, S. Antonio Abate e, nella pala centrale, la Vergine Maria con Gesù Bambino; una pala a forma piramidale raffigurante S. Lucia e, nella parte triangolare, l’arcangelo Gabriele; due opere marmoree scolpite a bassorilievo e riproducenti l’arcangelo Gabriele e la Vergine Annunziata; un dipinto su tavola della Madonna con Bambino. La chiesa di Santa Maria di Maniace è un classico esempio di architettura normanno gotica. Il colonnato in pietra basaltica e il tetto in legno a capriate ne caratterizzano l’impianto. L’interno è illuminato da otto finestre ad arco, poste sopra i colonnati. Ricostruita dopo il terremoto del 1693, la chiesa ha perso alcune caratteristiche originali, assieme ad alcune preziose testimonianze artistiche”. https://www.prolocobronte.it/portale/chiesa-santa-maria-maniace/

     [30] Si veda la descrizione della bellissima chiesa nel sito bronteinsieme.it, Ibidem

     [31] A. Nelson-Hood, La Ducea di Bronte, Liceo Classico Capizzi, Bronte, 2005. La principale fonte sulla chiesa è: B. Radice, Il casale e l’abbazia di Maniace, in «Archivio storico siciliano», n. XXXIII, Palermo, 1909, pp. 1-104. Si vedano anche: S. Nibali, Il castello di Nelson, Catania, Giuseppe Maimone Editore,1988; N. Galati, Il castello di Nelson, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2006. Cfr. J. J. Norwich, Il regno nel sole 1130-1194, Palermo, Sellerio Editore, 2022 (nuova edizione), p. 497.

     [32]C. Diehl, Figure bizantine, introduzione di Silvia Ronchey, Torino, Einaudi, 2007, p.191.

     [33] Ivi, p. 193. 

     [34] Ivi, p. 207.

     [35] Si faccia sempre riferimento alle fonti indicate in precedenza.

     [36] J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p.119.

     [37] Nel 1041 Maniace si arroccò a Taranto per preparare la sua campagna militare contro Costantinopoli, scrive Guglielmo di Puglia, ma dopo pensò di imbarcarsi ad Otranto. Guillaume De Pouille, Le geste de Robert Guiscard, ed. M. Mathieu, [Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Testi, 4], Palermo, 1961, vv.492-557, pp. 124-128.

     [38] G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, cit., p.196. Si veda anche M. Gallina, Gli stanziamenti della conquista. Resistenze e opposizioni, in I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno, 1030-1130: atti delle ‘sedicesime Giornate normanno-sveve’ (Bari, 5-8 ottobre 2004), a cura di R. Licinio e F. Violante, Bari, Dedalo Edizioni, 2006, p.160.

     [39] Ivi, p.197.

     [40] J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p. 119.

     [41] F. Luzzati Laganà, Giorgio Maniace, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit.

     [42] Ibidem.

     [43] Ioannis Scylitzae, Synopsis historiarum, editio princeps, recensuit I. Thurn, Berolini-Novi Eboraci, 1973, p. 427 (60-63 Thurn), cit. in M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 119. Traduzioni dell’autore. Una versione più recente dell’opera è J. Skylitzes, A Synopsis of Byzantine History 811-1057, introduction, text and notes, translated by J. Wortley, Cambridge, 2010.

     [44] M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), a cura di Silvia Ronchey, cit., Cap. II, p. 9. Cfr. G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), Media Aetas, 5. Collana di studi medievali diretta da Teresa Nocita, Fregene(Roma), Edizioni Spolia, 2010, p. 93.

     [45] U. Criscuolo, Commento, in M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), cit., p. 395, nota 209.

     [46] Ivi, pp. 395-396, nota 214.  

     [47] M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), cit., p. 11.

     [48] Ioannis Scylitzae, Synopsis historiarum, cit., p. 422

     [49] Michele Attaliate, Historia, a cura di I. Pérez Martín, Madrid, 2002, p. 15.

     [50] J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p. 120.

     [51] G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, cit., p. 197.

     [52] M. Psello, Chronographia, cit., p.13, cit. in M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 116.

     [53] Cfr. J. Gay, L’Italia meridionale e l’Impero bizantino dall’avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni, cit.,pp. 423-439. Dalla permanenza ad Otranto di Maniace, scrive il Poso, la città non ebbe alcun danno perché “quando Argiro, al comando dell’esercito bizantino, e il catepano Teodorocano, al comando della flotta bizantina, giunsero ad Otranto per catturare Maniace, questi aveva già lasciato la città”: C. D. Poso, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, in Otranto nel Medioevo, cit., p. 112.

     [54] Cfr. J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit., p. 120.

     [55] G. Ravegnani, I Bizantini in Italia, cit., p.198. 

     [56] F. Luzzati Laganà, Giorgio Maniace, cit.

     [57] J. J. Norwich, I normanni nel Sud, cit.,p. 120.

     [58] L. Andriollo, Il fascino del ribelle sfortunato. L’usurpazione fallita di Giorgio Maniace e la formazione di una memoria storico-letteraria nella Bisanzio dell’XI secolo, inDibattiti Storici, Università del Piemonte Orientale – Vercelli, 11 ottobre 2017, p.1 https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/57013834/Il_fascino_del_ribelle_sfortunato-libre.pdf?1531824110=&response-content

     [59] Eadem, Le charme du rebelle malheureux: Georges Maniakès dans les sources grecques du XIe siècle, in Travaux et mémoires, in Οὗ δῶρόν εἰμι τὰς γραφὰς βλέπων νόει. Mélanges Jean-Claude Cheynet, éd. par B. Caseau -V. Prigent – A. Sopracasa, Association des Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, Paris, 2017, p. 2.

     [60] Ibidem.

     [61] F. Shepard, A note on Harold Hadraada: the Date of his Arrival at Byzantium, in «Job», n. XXII, 1973, pp. 145ss., cit. in U. Criscuolo, Commento, in M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), cit., p.377, nota 58. Harald (o Harold) Hadraada, re di Norvegia col nome di Harald III (1047-1066), fu una figura scandinava di spicco che appunto per i grandi meriti militari e politici divenne leggendaria confluendo nel poema epico Heimskringla. Su di lui si veda almeno la voce a cura di Sture Bolin, in Enciclopedia Italiana, Roma, Treccani,1933 (on line). S. Sturluson, Heimskringla. History of the Kings of Norway, transl. with introd. and notes by L.M. Hollander, Austin, 1964 (rist. 1991), pp. 579-581.

     [62] L. Andriollo, Le charme du rebelle malheureux: Georges Maniakès dans les sources grecques du XIe siècle, cit., p. 6.

     [63] Ioannis Scylitzes, Synopsis historiarum, cit., pp. 397 e 399-400, cit. in Ivi, p. 4.

     [64] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., pp. 104-106.

     [65] M. Psello, Imperatori di Bisanzio, cit., vol. II, libro VI, cap. 78 – 79, pp. 11-13. Cfr. G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), cit., pp. 93-94.

     [66] Ivi, libro VI, cap. 80, p. 13.

     [67] Ivi, libro VI, cap. 81, pp. 13-15. Cfr. G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), cit., p. 95.

     [68] Ivi, libro VI, cap. 82, p. 15.

     [69] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., pp. 115-116.

     [70] Ivi, p. 113.

     [71] Michaelis Attaliatae Historia, recensuit E.th. Tsolakis [Τσολάκης], Athenis 2011 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae), p. 7, (Series Atheniensis, 50), cit. in Ivi, p. 114, nota 23.

     [72] Ivi, p. 114.

     [73] M. Psello, Imperatori di Bisanzio, cit., libro VI, cap. 84, p. 17.

     [74] Ivi, p. 19.

     [75] U. Criscuolo, Commento, Ivi, p. 398, nota 249.

     [76] A. Kaldellis, The argument of Psellos’ Chronographia, Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters 68, Leiden, 1999, pp. 108, 183, 197; F. Lauritzen, The depiction of character in the Chronographia of Michael Psellos, in «Byzantios: studies in Byzantine history and civilization», n.7, Turnhout, 2013, pp. 175-180: cit. in L. Andriollo, Le charme du rebelle malheureux: Georges Maniakès dans les sources grecques du XIe siècle, in Travaux et mémoires, cit., p. 3.

     [77] Michel Psellos, Chronographie, VI.77, vol. 2, p. 2, cit. in L. Andriollo, Le charme du rebelle malheureux, cit., p. 4.

     [78] Ibidem.

     [79] Attaliatæ, Historia, p. 15, cit. in Ivi, p. 5.  

     [80] Michel Psellos, Chronographie, VI.84, vol. 2, p. 5 e Attaliatæ, Historia, pp. 15-16, in Ivi, p. 5.

     [81] L’encomio per Costantino IX (or. 2), databile al 1043, è: Michaelis Pselli orationes panegyricae, ed. G.T. Dennis, Stutgardiae-Lipsiae, 1994 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum Et Romanorum Teubneriana), pp. 18-50, citato anche da M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p.113, nota 19.

     [82] U. Criscuolo, Commento, in M. Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), cit., p. 397, nota 233.

     [83] F. Lauritzen, A courtier in the women’s quarters: the rise and fall of Psellos, in «Byzantion», n. 77 (2007), pp. 256-257.

     [84] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 118, nota 29.

     [85] Guillaume De Pouille, La Geste de Robert Guiscard, ed. M. Mathieu, Palermo, 1961 (Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici. Testi, 4), I, vv. 441-460, cit. in Ivi, p. 120, nota 34.

     [86] M. D’Ambrosi, Perseguitati ed esuli tra Bisanzio e Malta: Giorgio Maniace e l’Anonimo di Gozo, cit., p. 120.

     [87] Ibidem.

     [88] Michaelis Attaliotae, Historiae, ed. I. Bekker, Bonnae 1853 [CSHB], p. 9.

     [89] Ivi, pp. 18 -19, citato anche in G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina (secc. VI – XIV), cit., pp. 97-98.

     [90] M. Psello, Imperatori di Bisanzio, cit., vol. II, libro VI, Cap. 85, p. 18. Cfr. G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina, cit., p. 96.

[91] Ioannis Zonarae, Epitome historiarum Libri XIII – XVIII, ed. T. Büttner – Wobst, Bonnae, 1897 [CSHB], XVI, 9, pp. 424- 429.

     [92] G. Tedesco, L’Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina, cit., p. 132.

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