(bodiniana secunda 2) del logos e dell’amore
senza dimenticare che noi abbiamo anche la sintassi e la radio, ma che abitare una provincia infinita significa dilatare in modo spasmodico l’attesa, andare a cercare la tomba del poeta in un angolo in ombra della Mezquita-Catedral di Cordova, tornare a Finis Terrae dove, ai piedi di un faro, si mescolano le acque buie dell’inconscio (sto davanti alla tua caverna) e quelle all’apparenza luminose della ragione.
A Leuca la bianca, tra Punta Ristola e Punta Meliso, finisce per disfarsi la poesia, metà amore e metamorfosi dopo la luna cancellata dall’avanzare della civiltà industriale, ogni poesia può essere l’ultima, in alcolico delirio la mente, per apparente paradosso, sembra raggiungere una chiarezza estrema: è qui che occorre cercare una poesia per dopo la poesia.
(bodiniana secunda 3) i pesci d’oro che evaderanno dai nostri petti nel sonno
Certamente i pesci di Bodini nulla hanno a che fare con i pesciolini d’oro che il colonnello Aureliano Buendía fonde e rifonde negli anni interminabili della solitudine, ma mi piace pensarli legati dalla medesima onirica ossessione.
Specialmente nei caldissimi pomeriggi estivi Lecce non è percorribile se non nel sonno (che è sonno diurno, dunque) e i pesci che evadono dal petto degli addormentati si mettono davvero a nuotare nell’aria densa e sciroccale.
Il rosone di Santa Croce, abbagliante sole e danza di cherubini, è SPECCHIO: Macondo, villaggio dentro il quale i colonizzati sanno riconquistare la propria libertà e identità fondando una comunità d’inguaribili utopisti finanche autolesionisti, s’intravede nei 116 spicchi di vetro del rosone di Santa Croce, cangiante mosaico dentro il quale nuvole, rondini e frammenti di cielo non smettono di alternarsi, instancati.
(bodiniana secunda 4) luna / ghiotta d’angurie
Nell’universo bodiniano la luna può avere capelli corti, adocchiare i meravigliosi, enormi cocomeri dell’estate, illuminare le finestre del nord.
Luna visibile soltanto dal cuore di paesi antichi o dalla campagna – già negli orrendi quartieri di periferia di palazzi di cinque piani essa scompare alla vista come si vergognasse dello scempio cementizio.
Mutava uomini in lupi mannari, incantava l’acqua dei pozzi, soltanto il faro di Leuca de finibus terrae aveva, forse, il potere di eclissarla – altrove aveva assistito all’assassinio di Lorca, alle veglie del Greco che meditava i cieli ascetici di Toledo, alla fuga di San Juan de la Cruz dall’ingiusta prigione.
Luna del Sud – se il Caravaggio fosse passato per la Terra d’Otranto, le ombre lunari gli avrebbero certamente dettato tele di raccolto silenzio.
(bodiniana secunda 5) il delfino che ha in bocca la mezzaluna
Ma se leggo e rileggo Bodini penso anche a Comi, a Vittorio Pagano, a Ercole Ugo D’Andrea, penso alle altre e agli altri che a Finisterre hanno scritto in poesia e continuano a scrivere in poesia – per questo il delfino figliato dai Due Mari porta in bocca non il crescente lunare simbolo della sconfitta degli Ottomani conquistatori di Otranto, ma una falce di luce lunare che avvicina alle coste salentine porgendola a illuminare fogli immaginifici di parole.
(bodiniana secunda 6) le vergini del Sud che annaffiano ogni sera / d’ignoti amanti teste decollate / che fioriscono in vasi di basilico
Lisabetta, vittima e donna amante (desiderante) víola gli usi, coltiva il basilico dell’eros. Lecce, porosa pietra sposata dal sole e dal vento, rinchiude nei vasi del sogno cieli che soltanto lo Zimbalo sa scalare con le sue architetture di fin’oro. Ma l’eros è spesso irrisolto, tristezza di sensi di colpa e punizioni annunciate negano il femminile e castrano il maschile (illuso, quest’ultimo, della propria irresistibile potenza). Ci voleva Edoardo De Candia per dipingere in cubitali lettere colorate AMO e starsene nudo in spiaggia o a letto, scandalizzando i benpensanti.
(bodiniana secunda 7) il nero del catrame sulle terrazze / cedeva al muschio
Il catrame steso nelle fessure tra le chianche sui tetti serviva a impedire le infiltrazioni d’acqua e di umidità; il mancato rinnovo della manutenzione permetteva invece al muschio di allogarsi nelle fessurazioni – guardate dall’alto le antiche terrazze salentine erano reticoli neri, fogli quadrettati, aritmetiche griglie.
Sono ancora luoghi intimi e privati le terrazze dei vecchi paesi salentini, spesso ricolmi di vasi, di sedie ormai inservibili, di oggetti fuori corso come la memoria, irti di antenne o sfregiati dalle paraboliche-tinozze sospese a mezz’aria.