Scrittore di una provincia marginale, acceso da velleità scrittorie, che trascina il suo vivere in un paese periferico e deprivato, e finanche depravato, collocato in un bodiniano sud del sud, Lorenzo insegue l’occasione che lo renderà famoso, che lo proporrà al palcoscenico nazionale e che gli permetterà finalmente di assidersi nel consesso dei letterati che contano. Ma poi finisce per realizzarsi al contrario, grazie al coinvolgimento di Fabrizia, e cimentarsi in una godibilissima estorsione ai danni di uno spudorato e grottesco barone, discendente dalla stirpe dalle origini secentesche dei feudatari di Tralignano ora in caduta libera, frode che resta pur sempre un atto riprovevole al di là del costume essudante immoralità della vittima; e, inoltre, riesce a segnalarsi quale campione di civismo nel momento del disvelamento dei vizi di un parroco lussurioso e cocainomane, incline anche al vigliacco tradimento della nipote Fabrizia, come in un pamphlet libertino del Settecento, sulla quale esercitava il ruolo di educatore per volontà familiare.
Lorenzo ha la stoffa apparente dell’antieroe. È sicuramente antieroe quando si costringe a vivere e a realizzarsi nell’ambito concluso del proprio sonnacchioso paese, lavorando per ripiego in una piccola casa editrice che sopravvive grazie alle elargizioni del barone Gattamelata e di qualche politico illetterato. Ma Lorenzo dimostra anche di sapere intraprendere azioni prorompenti nel momento in cui diviene mente e braccio del ricatto contro il personaggio più potente di Oppido, il pantagruelico e donchisciottesco barone Gattamelata, e nel momento in cui smaschera e svergogna il dissoluto parroco don Aristarco Aristefano Arciprato.
Ci sono poi Fabrizia, Susanna tutta panna, Samantha, Irene, Luana, Antonio, il dottor Muccio, l’assessore D’Alessandris, Tina, Nunzio Leone, Tommaso, il dottor D’Autilia, il dottor Poso e tanti altri ancora.
La vicenda di Fabrizia è quella di una giovane che il contesto sociale ha obbligato a vivere una dimensione esistenziale costretta. Nipote del parroco, ha studiato, cerca lavoro ma viene importunata, ripiega sull’impiego nella piccola casa editrice del paese diretta da Nunzio Leone, dove lavorano anche Lorenzo, Irene, Antonio. Si fidanza con il figlio del barone Gattamelata, ma Federico è un delinquente, mercante e consumatore di droga. Fabrizia viene variamente coinvolta in vicende di sesso e finisce per diventare preda del vecchio barone che la vuole giubilare come sacerdotessa nella festa della dea Astarte alla quale la setta diretta da Gattamelata si ispira, coinvolgendo tutti i maggiorenti dell’Oppidano, non esclusi il reverendo zio parroco e il tenente dei carabinieri al quale la ragazza si rivolge per denunciare i traffici di Federico e compagni. Lei ricatta l’attempato barone, padrone indiscusso, e con l’aiuto di Lorenzo incastra anche lo zio parroco e intimidisce tutti gli altri adepti della setta che finiranno per riconoscerla come loro ministrante, ricevendone acclamata devozione sia nel “sacro consesso che fuori”.
Fabrizia, come pure Lorenzo e tutti gli altri giovani uomini e donne meridionali, subisce la condizione che il contesto sociale, culturale ed economico della terra natale le cuce addosso, ma non se ne capacita, non mi sembra accondiscendente. La situazione di donna, poi, la espone alla bramosia degli uomini; ma lei proprio nel momento topico della difficoltà, nel momento in cui sta per essere collettivamente abusata, si libera e, utilizzando la ben nota ai potenti arma del ricatto e del piacere, sottomette al suo comando i soci bavosi della setta della dea Astarte.
Il palcoscenico dove i destini dei tanti attori si incontrano è Oppido Tralignano e il suo ombelico è il bar Barbarino: “E’ sempre vita ingrata, in provincia, fatta di logorio e routine, noia mortale che attanaglia le gambe con quel torpore che a fine giornata le fa sentire pesanti … Alla fine ci si ritrova al Caffè Barbarino … ognuno perso dentro i suoi guai.”
Oppido, già conosciuta come luogo nel quale si dipanano storie di umani disfacimenti, è una città che “esala fumi dal fondo opaco della terra”, è “una città sbiadita, spiattellata, sbrindellata, offuscata da mortiferi miasmi, martellata e divorata dai vermi.” E’ il luogo malsano che l’autore ha già frequentato ne I segreti di Oppido Tralignano.
L’antieroe Lorenzo Vitali, lo scrittore mascherato “che ha visto scivolare i suoi sogni di ragazzo sulla china che conduce al nulla dei giorni”, suppone di valere ma non possiede la grinta. La mancanza di occasioni per realizzarsi nel Sud è la scusa più calzante per giustificare la nolontà che lo porta a prediligere la comoda e piatta vita di provincia e giustificare l’indolenza e l’abulia a lui connaturate.
Lorenzo nel racconto di Paolo Vincenti vive il ruolo di autore dell’invenduto o quasi Oppido nascosta, libercolo pruriginoso che rivela i “torbidi e profondi segreti di Oppido Tralignano, compresi i maneggi di una misteriosa setta segreta che da molti anni opererebbe in città conducendo loschi affari.”
Lorenzo, al pari di altri nostri antieroi letterari soprattutto del Novecento, prova a trasformarsi in eroe attraverso la scrittura, ma finisce per potenziare la sua condizione di anonimo, in attesa dell’occasione che possa realizzarlo. E anche quando millanta che finalmente, con i soldi frutto del ricatto perpetrato ai danni del barone Gattamelata, acquisirà la casa editrice di Nunzio Leone e che all’impresa collaborerà Angela Pacini, pezzo da novanta dell’editoria italiana, fresca di licenziamento, esperta compagna di estive occasionali scorribande sessuali, in realtà si sta lanciando anima e corpo nell’autoinganno ammantato di nobili propositi ; “se io stesso ho fatto questo investimento è solo per un atto d’amore nei confronti del nostro territorio … Noi intellettuali dobbiamo sporcarci le mani … Noi per primi abbiamo il dovere di impegnarci in questa battaglia civile prima che culturale, altrimenti non si salva il nostro Meridione”. Ma, a mio modo di vedere, sa già che il proposito, per quanto di grande respiro civile, resterà s-proposito squisitamente velleitario.
Con quest’ultima fatica, l’Autore sembra approdato infine ad un suo stile che predilige la narrazione di tematiche afferenti il costume umano, con personaggi presi dalla realtà ma resi universali attraverso l’ambientazione che è metafora di qualsiasi contesto salentino e più largamente meridionale, il ritmo narrativo diviene funzionale al momento del racconto che consiste nell’adozione più ampia del vocabolario, perciò non tralascia termini desueti, esclusivi, talora direttamente assunti dalla lingua latina: parole dotte che si addensano e si amalgamano a espressioni anche gergali, con parole della quotidianità, termini presi in prestito da lingue straniere; è l’affermazione di un registro linguistico che da tempo l’autore ha allevato attraverso la sua vasta produzione che risalta per vive, espressionistiche, forti e raffinate descrizioni, talora essenziali ma anche a profusione argomentate e descrittive, in cui trasfonde il suo sentire morale di fustigatore del malcostume e delle bassezze umane, quasi sempre con sferzante sapidità ma anche con lieve ironia.
Questo di Paolo Vincenti è un romanzo di impegno. Un romanzo che non si accontenta di ben narrare; ma anche e soprattutto di porre sorridenti questioni, di instillare icastiche domande.
I suoi sono interrogativi sul Sud carente di occasioni di affermazione per i giovani che finiscono per impanarsi nell’inedia al punto da trovare giustificazioni all’esterno della propria coscienza.
Parla di giovani che all’obbligata grama quotidianità contrappongono l’auto-giustificazione, come se non fosse mai possibile ribellarsi per ricostruire la propria vita.
Parla di giovani che si lasciano andare senza reazione, di giovani che affogano nel disimpegno piatto e privo di sorprese, consumando inutilmente il tempo o suicidando nel paradiso degli allucinogeni, del sesso e delle chiacchiere da bar ogni possibile esperienza alternativa.
Questo romanzo ci fa interrogare sulla tipologia di ruolo che gli intellettuali devono attuare per contribuire al progresso delle genti meridionali. Laddove gli intellettuali di solito presumono che l’acquisizione dei saperi sia un punto di arrivo e di status che contribuisce, molto probabilmente per inconsapevolezza, ad accumulare sterilità, quando invece dovrebbe essere momento di partenza, di investimento sociale, di fecondità comunitaria.
Le storie dello scirocco non sono una narrazione senza speranza.
L’Autore a me sembra fiducioso che la condizione di arretratezza del Sud possa essere capovolta in modello di sviluppo e di autodeterminazione.
Il romanzo di Vincenti forse, il tempo ce lo dirà, è un ulteriore contributo che va in direzione della crescita di una nuova narrativa meridionale e meridionalistica, che in Verga trovò il campione della prima ora, ma che oggi annovera decine e decine di scrittori che nella cultura, nella rettitudine, nell’intraprendenza intravedono la possibilità del risorgimento del Mezzogiorno.
Roncegno Terme, 12 nov. 2024