L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo IX. Il tempo dell’attesa

“Onde, sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente vedere per ragione, e per consequente [si crede poter essere], che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto pote[r] avere ragione, e per consequente pote[r] essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza, [ch’ è]’l proveduto desiderare; e per quella nasce l’operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e i Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e della veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono.” (Conv. III, xiv, 14-15)

Le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, nascono dalla Filosofia e conducono alla “veritade etterna”, a Dio. L’amore per Beatrice, che nella prima parte della Vita Nuova costituiva la verità di cui l’amante non poteva parlare, e che lo costringeva a serbare il segreto, nel Convivio comincia ad assumere il vero aspetto dell’amore divino. Il protagonista avrà una più lontana meta da raggiungere, e il suo cammino sarà lungo e faticoso. Da questa impostazione della finzione dantesca deriverà anche un diverso ruolo del personaggio di Beatrice, che non sarà più il fine ultimo della ricerca interiore del protagonista, bensì sarà mezzo funzionale all’ascesa verso la visione di Dio, la speciale guida di Dante del Paradiso.

Intanto i postumi del fallimento della poesia in lode di Beatrice continuano a far sentire il loro peso nelle pagine del Convivio. Le “digressioni” schiacciano sotto il loro peso la possibilità di creare una qualsiasi trama narrativa che faccia riferimento alla vicenda autobiografica; l’autobiografismo è presente tuttavia tra le pagine dottrinali, “qua e là sembra travalicare”[2], epperò soggiace alla necessità del commento; questo, come una spessa siepe adombra e infiacchisce le culture d’un piccolo giardino, così illividisce e smorza ogni possibile intreccio di cui sia motore e ostacolo a un tempo il personaggio autobiografico. L’esperienza della Vita Nuova, e la lode di Beatrice, deve giacere silenziosa in un canto, ammonitrice del passato fallimento e del nuovo proposito. Il poeta parlerà “più degnamente di lei” solo dopo che il commento alle canzoni del Convivio avrà mostrato che l'”amatore di sapienza” non una donna ama, bensì Filosofia e, attraverso Filosofia, Dio; allora non sarà più “amatore di sapienza”, ma umile pellegrino in cerca della salvezza spirituale, e Beatrice sua guida in un luogo dove nessun fraintendimento è più possibile, il paradiso; allora lo “stile della lode” avrà “compiuto il suo corso” e “perso ogni necessità”, “dove il rapporto torna ad essere quello che il desiderio chiedeva, e che non aveva potuto essere in terra: rapporto diretto, “facie ad faciem”: l’essenza stessa della beatitudine. In una parola: del Paradiso”[3].

Intanto il lettore trova ancora la confutazione della propria malizia:

“Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato; per che, a tòrre via questa riprensione, nullo migliore argomento era che dire quale era quella donna che m’ avea mutato. Ché per la sua eccellenza manifesta avere si può considerazione de la sua vertude; e per lo ‘ntendimento de la sua grandissima vertù si può pensare ogni stabilitade d’ animo essere a quella mutabile, e però me non giudicare lieve e non stabile. Impresi dunque a lodare questa donna, se non come si convenisse, almeno innanzi quanto io potesse; e cominciai a dire: Amor, che ne la mente mi ragiona.” (Conv. III, i, 11-12)

Dante dimostra di intuire bene le attese ed i dubbi dei lettori; in realtà è lui a provocarli con la sua finzione, provvedendo poi subito ad eliminarli con la teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia. E non sembri straordinario che i testi poetici  presentino un “gioco” e un “movimento delle immagini” che rientrano “ancora nella poetica stilnovistica”[4]. In verità  tutto il mondo poetico della Vita Nuova, poesia e prosa, è pienamente operativo nelle canzoni dottrinali e determina e qualifica la prosa e l’accumulo del commento erudito; per questo motivo il critico deve considerare sullo stesso piano fabulistico la Vita Nuova e il Convivio, perché, dinanzi al naufragio dell’opera dantesca da cui nulla è fatto salvo (non possediamo neppure una parola scritta dalla mano di Dante!), questa considerazione può illuminare il mondo dell’Alighieri.  

L’amante non è venuto meno al suo “primo amore”, perché il nuovo amore per Filosofia non ha in sé nulla di riprovevole, bensì chi si innamora di Filosofia non può essere giudicato “lieve e non stabile”. La donna pietosa e gentile o Filosofia è nel Convivio il mezzo necessario per accedere al vero amore di Dio, celebrato nel “sacrato poema”,  in cui soltanto troverà posto una più degna lode di Beatrice.

***

“Le dolci rime d’ amor, ch’ i’ solia

cercar ne’ miei pensieri,

convien ch’io lasci; non perch’io non speri

ad esse ritornare,

ma perché li atti disdegnosi e feri,

che nella donna mia

sono appariti, m’hanno chiusa la via

dell’ usato parlare.”

(Conv. IV, canzone III, vv. 1-8)

Due trattati (il II e il III) hanno esaurito ormai la possibilità della finzione allegorica. La fabula, soperchiata dal “comento” e dalle “digressioni”, stenta a riconoscersi tra l’incalzare delle interpretazioni dell’esegeta. Conviene allora “lasciare” “le dolci rime d’amor”, e considerare la crisi irrimediabile della finzione dantesca. E veramente, come scrive Maria Corti con finezza di gusto , “è come se un sapore di perduto paradiso circolasse all’inizio del trattato IV”[5]. Invano tuttavia cercheresti in questo quarto trattato il ripudio netto dell’esperienza passata. In realtà il poeta dice e il commentatore conferma di nutrire la speranza di “ritornare” alle “dolci rime d’ amor” non appena cesseranno “li atti disdegnosi e feri, / che ne la donna mia / sono appariti”:

“Dico adunque che ‘a me conviene lasciare le dolci rime d’amore le quali sogliono cercare li miei pensieri; e la cagione assegno, perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare d’amore, ma però che ne la donna mia nuovi sembianti sono appariti, li quali m’hanno tolto materia di dire al presente d’amore.” (Conv. IV, ii, 3)

Il progressivo approfondimento della finzione dantesca, fondato, come sappiamo, sul fallimento della poesia in lode di Beatrice, approda col IV trattato alla rinuncia “di dire al presente d’ amore”. Giunge così il tempo dell’ attesa: “E poi che tempo mi par d’ aspettare”(Conv. IV, Canzone  III, v. 9), che il poeta e il commentatore impiegheranno per confutare le false opinioni sulla “nobilitade”. La più lunga canzone e il più disteso commento del Convivio, in cui Maria Corti giustamente ravvisa lo schema della quaestio medievale[6], hanno per oggetto di “riducere la gente in diritta via sopra la propia conoscenza de la verace nobilitade” (Conv. IV, I 9). Non serve più, a questo punto, “sotto alcuna figura parlare” (Conv. IV, i, 10). Come si è già visto all’inizio del presente studio, il IV trattato del Convivio segna l’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, di cui il commentatore si era avvalso nel II e III trattato. E se in questi trattati il narratore aveva trascurato il senso morale e il senso anagogico, includendoli nel più vasto senso allegorico, ora dichiara apertamente che “non sarà dunque mestiere nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare” (Conv. IV, i, 11). L’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia coincide dunque con la rinuncia a “le dolci rime d’amor”, dietro le quali è tutta la dialettica irrisolta della Vita Nuova e del Convivio, che ora conviene, nell’attesa, ripensare. Non ci si meravigli, allora, che il Convivio rimanga interrotto al quarto trattato. “Più in là non si poteva andare”[7], scrive giustamente Aldo Vallone. La struttura del Convivio, tutto il “sistema” dell’ opera”[8], fondato sull’esposizione del senso “litterale” e “allegorico” delle canzoni, entra in crisi proprio col quarto trattato, rivelando l’insufficienza della teoria allegorica, il suo venir meno a questo stadio della finzione. Al commentatore non serve più la teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, perché il tema della “verace nobilitade”, per quanto possa essere oggetto di opinioni false e contrastanti, non può essere frainteso. “Dante lascia “le dolci rime d’amore”, e ci mette una canzone a cui manca la “veritade ascosa”, e che si distingue dalla prosa soltanto perché è scritta in versi. La fictio nel senso dell’ invenzione a doppio senso non c’è più”. Così il Grayson[9]. Tuttavia, sebbene la struttura del Convivio mostri i suoi cedimenti, ancora una volta è riproposta la vecchia frattura tra poesia e prosa, e con questa estenuata riproposizione ha termine il libro del Convivio, ovvero l’esperienza giovanile e della prima maturità di Dante.

Caduta la necessità di far conoscere al lettore ciò che è al di là del senso “litterale” (l'”allegoria”), rimane semplicemente il desiderio di dire la verità, di ripristinarla contro coloro che la negano. L’austero Catone assurge pertanto a “controfigura” del narratore, scrive M. Guglielminetti, in quanto portatore “di un contegno morale e mentale avvertito [da Dante] attinente a se medesimo”[10]. Al ristabilimento della verità concorrono sia la poesia che la prosa, cui non sono più attribuite funzioni diverse, com’era accaduto nel II e III trattato.  “Nel trattato IV Dante si impegna in una struttura più ardua, oltre che nuova: la prosa ha solo apparentemente funzione servile di fronte alla canzone; in realtà si costruisce come argomentazione precisa e vasta su concetti socio-culturali e politici appena accennati nella canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia[11]. Pertanto la frattura tra poesia e prosa ci appare, nel IV trattato, immotivata – mentre era pienamente motivata nel II e III trattato, poiché lì bisognava interpretare allegoricamente, in prosa, le canzoni -, se è vero che il commentatore ripeteva, con “digressioni” ed aggiunte, quanto il poeta aveva già detto  sinteticamente e in forma poetica nella canzone. La perdita di significato e di funzione della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, risultato della fine della fabula della Vita Nuova, del suo esaurirsi in un gioco dialettico irrisolto, concomitante alla perdita di significato e di funzione della frattura di poesia e prosa nel quarto trattato, giustificano l’incompiutezza dell’opera, l’abbandono di essa da parte dell’autore, la rinuncia, provano il suo cosciente fallimento, da cui è fatto salvo solo l’anelito per la verità. Insomma, nel luogo in cui (il IV trattato) la frattura tra poesia e prosa non trova più una giustificazione all’interno della fabula, in quel luogo ha termine, scompare, per non ripresentarsi mai più.

Come sia accaduto che la tensione linguistica dantesca tra poesia e prosa sia stata riassorbita dalla terzina della Commedia, sarà oggetto della trattazione seguente. Per ora anticipiamo che non è difficile riconoscere nella malleabilità prosimetrica della terzina dantesca, ricondotta ad unità, l’antica scissione tra poesia e prosa delle opere giovanili e della prima maturità[12]. Comunque sia, in questo stadio concluso della finzione dantesca, che nulla promette per il futuro se non il desiderio di dire la verità, si deve collocare lo smarrimento di Dante che Virgilio giunge in tempo a salvare dall’oscurità della selva. Così la Divina Commedia eredita la finzione autobiografica dantesca delle opere giovanili, utilizzandola come punto di partenza del lungo itinerarium in Deum che Dante sta per iniziare.

Note


[1] Per una dotta discussione di questo passo, si legga B. Nardi, Dal “Convivio” alla “commedia”. Sei saggi danteschi, Roma 1960, pp. 62-66.

[2] A. Vallone, La prosa del “Convivio“, cit., p. 81, poi in Dante, cit., p. 150, scrive: “L’autobiografismo, che qua e là sembra travalicare, non è atto isolato, ma modo costante, che si evolve continuamente. Se laddove trabocca è più tangibile e scoperto, non per questo nelle parti più solide e dotte è meno presente”. Concorda sostanzialmente A.E. Quaglio, “Convivio”, cit., p. 57: “(…) spesso tra i blocchi rigidi della quaestio medievale, folta di distinzioni, domande, obiezioni, risposte, rigirata nei corollari, nei parallelismi (…), tra comparazioni, prove e controprove, scorre la vena del personale entusiasmo, quasi una commozione controllata dalla fatica della scoperta, che è poi il tratto individualizzante dell’opera stessa (cfr. III, v, 22 e III, xii, 3-4)”. Infine ricordiamo il giudizio di B. Nardi, Dante e la cultura medievale, cit., p. 58: “In fondo in fondo, c’è più poesia in certi mirabili squarci della prosa del Convivio, ove tu avverti un ragionare concitato e il prorompere della passione che non nelle canzoni tolte a commentare”.

[3] D. De Robertis, Dante e Beatrice in Paradiso, in “Critica letteraria”, anno XVIII – Fasc. I-II – N. 66/67 1990, p. 154.

[4] Commentando la canzone Amor, che ne la mente mi ragiona premessa al III trattato del Convivio, M. Marti, Lo Stil nuovo di Dante e l’ unità della Vita Nuova, in Storia dello stil nuovo, cit., p. 458, afferma: “Eppure sembra impossibile che il lessico sia sostanzialmente quello di prima; che il gioco e il movimento delle immagini rientrino ancora nella poetica stilnovistica. Palpita, invece, la presenza di una poesia nuova, nella quale vibra una lucida tensione verso l’ ineffabile e urge un’incalzante e insopprimibile brama di conoscenza e di verità”. Riascolteremo questa canzone nel II canto del Purgatorio, modulata dal musico Casella. Cfr. in proposito G. Gorni, La nuova legge del Purgatorio, in Lettera numero nove. L’ordine delle cose in Dante, cit., p. 209, che nell’episodio di Casella vede l’ultima eco della vicenda della donna gentile: “Questo evento realizza altresì un simbolico “contrapasso” tra purgatio animi e poesia amorosa dantesca segnando la liquidazione del ciclo della “donna gentile”, alla quale, per espressa dichiarazione d’autore, la canzone era rivolta”.

[5] Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 93-94: “L’ incanto è rotto, il piacere dolce della metafora e dell’ allegoria d’amore si spegne: l’ultima canzone del Convivio avrà solo un solido senso letterale. Divenuta daccapo forestiera quella donna gentile che era stata oggetto della musicale figurazione, è come se un sapore di perduto paradiso circolasse all’ inizio del trattato IV. Ma forse era questo il percorso necessario per raggiungere un altro paradiso, quello celeste della Commedia“.

[6] Idem, ibidem, p. 124: “La coerenza nei riguardi della struttura argomentativa della quaestio, che obbliga a ripetere due volte in forma negativa e poi positiva, gli suggerisce probabilmente di raddoppiare la misura del trattato: non più i 15 capitoli dei trattati II e III, bensì 30″.

[7] Cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 118: “Più in là non si poteva andare. Dante sospende e taglia lo sviluppo perché quel piano, lungamente e ancor più fervidamente predisposto, gli si frantuma tra le mani (…). L’interruzione non è segno di intemperanza o solo di sollecitanti pressioni di altre opere (e saranno Inferno e Monarchia) che sono già nella mente e nel cuore, ma proprio un segno di disagio o meglio di civile coscienza e maturazione culturale”. Ma si veda anche A. Vallone, La prosa del “Convivio”, cit., pp. 36-37.

[8] Cfr. Maria Corti, La felicità mentale, cit., p. 67.

[9] C. Grayson, Dante e la prosa volgare, cit., p. 53. Cfr. pure D. Consoli, Il II libro del “Convivio”, in AA.VV. Nuove letture dantesche, VIII, cit., pp. 142-143.

[10] Cfr. Convivio IV, V 16; IV, VI 9-10; IV, XXVIII 15, analizzato da M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit., pp. 95-99. Cfr. anche B. Nardi, Dante profeta, in Dante e la cultura medievale, cit., p. 269, che, a questo proposito, definisce “ottimismo etico” il sentimento che “pervade il quarto trattato del Convivio e la Monarchia“. Sulla figura di Catone Cfr. K. Vossler, La Divina Commedia. La genesi letteraria, III, cit., p. 210. Cfr. M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 534 che rinviene nella conclusione del Convivio “l’appello alla moralità individuale. Infine cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 506: “Nulla è perduto; ma di nulla v’è rimpianto. Non v’è nessuna elegia. Dubbi non ce ne sono. V’è scelta, se mai. Un tema c’è, e netto: nobiltà-virtù”.

[11] Lo scrive Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 132-133.

[12] Notevoli osservazioni in proposito si leggono in C. Grayson, Dante e la prosa volgare, cit., pp. 33-60.

Questa voce è stata pubblicata in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *