Dov’è la Calmucchia? Geopolitica nascosta

I Calmucchi combatterono nell’esercito nazista nella seconda guerra mondiale e per questo tradimento Stalin fece massacrare l’elite politica del paese e deportò i Calmucchi nei gulag siberiani nel 1945. Nel 1957, Kruscev permise al popolo calmucco di tornare a casa dove però essi trovarono un territorio ormai devastato e desertificato. Furono costretti a sottostare alle dure condizioni imposte dall’ Unione Sovietica e in particolare ai soprusi dei coloni ucraini che fecero, della regione, propria terra di conquista. Con la caduta dell’Urss, la Calmucchia divenne repubblica autonoma nel 1992 e cominciò ad autogovernarsi sotto il presidente Kirsan Iljumzhinov, un personaggio quasi letterario, grazie al quale la Calmucchia si guadagnò la fama di “paese degli scacchi”. In pratica, la nazione caucasica si identificò con la Federazione mondiale degli scacchi, dato che per decenni Iljumzhinov di questa fu presidente. Grande appassionato del gioco, il leader calmucco portò il paese agli onori delle cronache e cercò di risollevare la debilitata economia con un’industrializzazione un po’ farlocca che non ebbe gli effetti sperati. La città di Elista è divenuta la capitale degli scacchi (la piazza di Marostica sembra scolorire al confronto) da quando, in occasione delle Olimpiadi degli scacchi del 1998, Iljumzhinov fece costruire un grande quartiere al centro della città interamente dedicato al gioco dove chiunque può divertirsi ancora oggi provandosi in partite a scacchi. E la passione del gioco sembra benedetta dal Buddha di cui ad Elista esiste la statua più grande al mondo, una sorta di Colosso di Rodi, alta 9 metri e interamente ricoperta d’oro. Iljumzhinov era anche uno spregiudicato affarista che intratteneva illeciti affari con i governi di paesi stranieri. Ad un certo punto, nel 2010, sparì per alcuni giorni e ritornato al potere affermò di essere stato rapito dagli alieni. Oggi la Calmucchia, un unicum come paese che professa il buddismo tibetano in Europa, è molto povera nonostante gli sforzi dell’ex Presidente Orlov[1]. Che il piccolo staterello russo non versasse in buone condizioni economiche mi era stato subito chiaro dalle poche battute scambiate con Jurij: “it’s a very small and poor country in the middle of Caucaso”. Il suo abbigliamento dimesso e l’estrema gentilezza dei modi facevano contrasto con la fierezza dello sguardo, mentre diceva: “My family lives in Elista. Do you know Elista?”. 

Comunque, la Calmucchia fa parte dell’Onu ma vi sono nel mondo tanti stati de facto e non de iure, ossia riconosciuti da pochissimi o nessun paese e non riconosciuti dall’Onu.

Sono territori auto dichiarati indipendenti che non vengono ammessi dalla comunità internazionale perché non rispettano i parametri stabiliti dall’art. 1 della Convenzione di Montevideo del 1993. Lasciamo da parte il caso della Palestina, che è drammaticamente all’attenzione delle cronache mondiali in questi giorni per il nuovo incendio di guerra che è divampato in Medio Oriente. Dalla guerra in Ucraina, tutti abbiamo sentito parlare della Transnistria, piccola striscia di terra tra la Moldavia e l’Ucraina, riconosciuta solo dai paesi dell’ex Unione Sovietica ma non dall’Onu. Dichiaratasi autonoma dalla Moldavia nel 1990, appoggiata dalla Russia, con cui condivide spirito di ideali comunisti, ha intrapreso una guerra con la repubblica moldava che l’ha vista rendersi autonoma. La sua potenza bellica era dovuta soprattutto ai finanziamenti della Russia e ai proventi delle attività illecite, come il narcotraffico, che ancor oggi opera la Sheriff, azienda pubblica che di fatto controlla il governo, facendo eleggere suoi membri come presidenti e ministri.

La Repubblica del Somaliland, nell’Africa centrale, fra Etiopia, Gibuti e Somalia, affacciata a nord sul Golfo di Aden, si è staccata nel 1991 dalla Somalia, di cui faceva parte, dichiarandosi indipendente. Conta 3,5 milioni di abitanti, la capitale è Hargesia.  Il governo di Mogadiscio non ha mai accettato l’indipendenza e così anche l’Unione Africana, che non riconosce la piccola repubblica. Nel 1993, venne eletto Presidente Mohamed Ibrahim Egal che è rimasto in carica fino al 2002. 

Nei tg ogni tanto sentiamo parlare del Nagorno Karabach, repubblica armena indipendente, staccatasi nel 1992 dall’Azerbaigian. Il distacco provocò la guerra civile con la repubblica azera e nel 1994 si giunse ad un accordo di pace per cui il Nagorno Karabach, o Artsakh in lingua armena, appoggiato dalla Russia, si poté autodeterminare, anche se la conflittualità con l’Azerbaigian è sempre continuata, spesso sottotraccia, a volte con scontri armati. Nel 2020 buona parte del territorio dell’Artsakh è ritornato sotto controllo dell’Azerbaigian che, nonostante la tregua stabilita grazie all’intermediazione della Russia, ha attaccato di nuovo nel 2023, quando ha preso il controllo di tutto il territorio spingendo migliaia di abitanti all’esodo in Armenia.

L’Abkazia è uno staterello, con capitale Sukhumi, che si trova nel Caucaso, storicamente parte della Georgia, da cui si è politicamente staccata nel 1992 con il susseguente conflitto armato. Appoggiata dalla Russia, non è riconosciuta dalla comunità internazionale, proprio come l’Ossezia del Sud, altra repubblica che si è separata dalla Georgia con l’appoggio della “madre Russia”. I separatisti vorrebbero unirsi all’Ossezia del Nord, repubblica federale russa. I separatisti osseti si sono staccati dalla Georgia nel 2008 ma Tiblisi ha scatenato la “guerra dei cinque giorni” per riprendersi il territorio.

Davvero sintomatica la presenza di queste piccole e semi sconosciute repubbliche, che fanno pensare a quelle strampalate e inesistenti inventate dagli sceneggiatori cinematografici degli action movies dei vari Stallone, Schwazzenegger, Liam Nesson, Jason Statham, Van Damne.

La Repubblica democratica araba del Sahrawi è una striscia di terra africana fra il Marocco e la Mauritania, nel Sahara occidentale. La particolarità è che la capitale di questa repubblica si trova in un altro stato, cioè Tindouf, in Algeria. In pratica, questo territorio era colonia spagnola. Si staccò dalla madrepatria nel 1975 e subito venne occupata dal Marocco che promosse una massiccia emigrazione di marocchini nel Sahrawi. Gli esponenti indipendentisti del Fronte Polisario proclamarono la repubblica nel 1976, cosa che portò ad un lungo conflitto fino al 1991, quando si stabilì una divisione del paese fra Marocco e Fronte Polisario in cui però il Marocco fece la parte del leone con più dell’80% del territorio occupato. Ciò provocò le rimostranze del Fronte Polisario che chiese un referendum popolare mai celebrato. Per giunta, il governo del Sahrawi fu costretto all’esilio e si stabilì appunto in Algeria da dove continua la lotta con Rabat, chiedendo il riconoscimento della propria legittimità. 

Questione insoluta è anche quella del Taiwan, ovvero l’isola di Formosa. Già Repubblica Popolare di Cina, l’isola, dopo la vittoria di Mao nel 1949, offrì ricetto a tutti i fuoriusciti cinesi che non si ritrovavano nel comunismo maoista e, col nome di Taiwan e con l’avallo degli Stati Uniti, venne riconosciuta dall’Onu come repubblica indipendente. Con gli anni, le cose si complicarono perché la Cina iniziò a far la voce grossa rivendicando la sovranità sull’isola e molti paesi del mondo si dissociarono dal governo di Taipei e Taiwan venne anche estromessa dall’Onu nel 1971 per fare entrare invece la Cina. La situazione è ambigua e ancor oggi molto tesa con il governo cinese che ripetutamente minaccia di invadere l’isola[2]. Insomma, dalla Calmucchia alle repubbliche separatiste ucraine di Doneck e Lugansk, dal Sahrawi a Cipro, ci sono nel mondo tante situazioni geografiche e politiche sospese e contese su cui mi è piaciuto indugiare e, se tanto mi dà tanto, anche questo pezzo non sarà mai, né potrebbe esserlo, riconosciuto dagli studiosi accreditati.


[1] Fonte: Marco Valle, La nazione degli scacchi fra Buddha e ufo rapitori, in «Il Giornale», 20 aprile 2018, p. 23.

[2] Fonte Osvaldo Spadaro, Controstorie. Tutti ne parlano ma non esistono. Storia dei Paesi che non sono Stati, in «Il Giornale», 1 settembre 2017, pp. 16-17.

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