La maschera ti guarda e ti dice: io sono te. Non ti rassomiglio. Sono te. Tu sei esattamente così, come mi vedi. Tu non sai ribellarti. Sei un inetto. Ti sei lasciato sopraffare dalla mediocrità. Ti sei fatto servo e cerchi di riscattarti con la volgarità. Chiedi continuamente scusa senza avere nessuna colpa se non quella di esistere tuo malgrado. Tu sei un borghese piccolo piccolo che ha soltanto l’aspirazione di diventare medio. Ti fai sfruttare e non reagisci, sperando che possa ritornarti un qualche vantaggio. Strisci per fare carriera ma non sai quali rinunce comporta fare carriera. Fantozzi non sono io; Fantozzi sei tu. Così dice la maschera. Sei tu goffo, tristemente comico, senza garbo. Sei tu che ti fai umiliare, che ti fai malmenare, che affoghi la tua faccia nelle torte, che ti fai usare come parafulmine, che inciampi ad ogni passo. Fantozzi non sono io. Fantozzi sei tu. Sei quello che sogna la ribellione ma è pavido, pusillanime, codardo.
Paolo Villaggio ha rappresentato la maschera dell’incapace, dello sciocco, del credulone, con tratti esagerati, esasperati, deformati. Ma quell’eccesso voleva essere una maniera per costringere ciascuno a guardare se stesso. La sua maschera voleva essere uno specchio.
Ha rappresentato l’uomo senza qualità. L’uomo che si sente estraneo, inappartenente a tutto: al suo mondo, al suo lavoro, alla famiglia. Che non ha affetti o che li nasconde; oppure si tratta di affetti sofferenti. E’ l’uomo perso dietro i risentimenti e le fantasie di rivincite da niente, nell’aspirazione a insignificanti vendette.
E’ stato la maschera dell’uomo consapevole dell’inevitabile fallimento, di colui che è inadeguato all’esistenza, incapace di confrontarsi con la realtà, di governare in qualche modo gli eventi, di affrontare qualsiasi problema. Una psicologia sfilacciata. Una insicurezza sconfinante nella patologia.
Uomo che non sa prendere decisioni e subisce qualsiasi decisione di altri. Angosciato. Angustiato. Sottomesso in ogni luogo, in ogni azione. La maschera ti guarda e ti dice: io sono te. Se non lo sono potrei diventarlo. Potrei diventare te, da un momento all’altro. Senza nemmeno che tu te ne accorga, io potrei diventare te. Basta poco; basta davvero poco. Basta solo un attimo di distrazione e ti ritrovi precipitato nel pozzo del qualunquismo, del disimpegno, dell’apatia. Basta semplicemente che ti lasci portare dall’onda del luogo comune, dell’opinione comune, del consenso acritico, basta che ti lasci impastoiare dalle convenzioni, dalle comodità del così fanno tutti, dalla ideologia della settimana bianca, basta che tu dica sì una volta, due volte, tre, e da quel momento in poi dirai sempre sì a tutto, a tutti.
Ma dietro la sembianza d’inetto, la maschera nasconde sogni.
“Allora, prenderò l’autobus al volo”, dice
Fantozzi. “No, Ugo! L’autobus al volo
no! Dice la moglie”.
“No, papà!” dice la figlia. Fantozzi: “Sì, saltando dal terrazzino, guadagnerò
almeno due minuti!”.
Pina: “No, Ugo! Non l’hai mai fatto… non hai
il fisico adatto…”
Fantozzi: “Non l’ho mai fatto… ma l’ho sempre sognato!”.
E’ questo che, senza pronunciarlo, dice la maschera scolpita da Paolo Villaggio: che chiunque può avere un sogno. Che chiunque ha il diritto, o il dovere, di averlo.
Il giorno che morì, Roberto Benigni disse: “Con Fantozzi, Paolo ha creato la prima vera maschera nazionale, qualcosa che durerà in eterno”.
Un’altra maschera. Stupefatta. Farfugliante. Anche questa incapace di ogni decisione. Timida. Insicura. Persa nei
ragionamenti mai conclusi, nei progetti mai realizzati. Che prova rammarico per il modo in cui è. Triste. Distratta.
Forse l’arte di Massimo Troisi si stringeva tutta nel silenzio, a volte compassionevole, a volte tagliente. Raccontava soltanto con lo sguardo: la meraviglia, il disagio, il confronto con le storie che gli accadevano intorno, lo raccontava soltanto con gli occhi che si alzavano come ad implorare o che si abbassavano come a cercare distrattamente sotto i piedi qualcosa che aveva perduto. Ma la sua narrazione era uno biascicamento; mai una frase che cominciasse e che finisse; mai un’argomentazione davvero compiuta, enunciata, definita. Il suo cinema era consegnato all’incompiutezza della parola, allo smozzicamento di essa, ad un sillabare incerto, balbettante. Quasi a dire a chiunque lo guardasse, lo ascoltasse: ecco, tieni questo abbozzo, adesso continua tu, compensa la mia incertezza con la tua certezza, la mia timidezza con la tua sicurezza. Soltanto i grandi artisti possono fare a meno del linguaggio lineare. Soltanto i grandi artisti possono affidare la loro espressione allo sguardo, agli occhi che si sbarrano o che si socchiudono dicendo tutto quello che si deve dire, al movimento delle labbra che fanno per pronunciare qualcosa e invece si ritraggono, tacciono, o si limitano al sussurro, quasi incomprensibile, all’arrotamento e allo sfarinamento delle sillabe, ad un logos franto, spezzato, sempre inevitabilmente inconcluso.
Massimo Troisi poteva farlo perché era un grande artista. Da grande artista si poteva concedere il privilegio di lasciare intercorrere da una parola all’altra lunghi silenzi, perché il suo volto, il suo sguardo, quella maschera stupefatta, stranita, avevano una tale potenza semantica da poter fare a meno della parola.
Sono trent’anni che non c’è più Massimo Troisi. Se ne andò il 4 giugno del Novantaquattro, a quarantuno. Sentii la notizia al giornale radio, intorno alle otto del mattino, in un treno delle ferrovie Nord sulla tratta Limbiate – Milano. Mi sembrò che fosse una delle sue assurde trovate, una vetta della sua ironia affettuosa e allo stesso tempo lancinante.
La sua comicità aveva tutte le venature visibili della inguaribile tristezza. Com’è ogni vera comicità, in fondo. Aveva una energia stanca e una stanchezza energica: una sorta di taedium vitae, una serena e irrimediabile spossatezza, un abbandono senza alcun rimpianto alla fatalità, al caso, una consapevolezza dell’assurdo, della banalità che ci assedia. Era la maschera che rappresenta e racconta il nostro impaccio davanti a quello che ci accade e che non siamo capaci di governare. Se dovessi necessariamente trovare un paragone, il solo che mi verrebbe, per l’intensità della tristezza dello sguardo, sarebbe quello di Charlie Chaplin: perché come Chaplin, la maschera di Troisi è metafora e archetipo. Troisi era triste com’è triste ogni grande clown. Troisi era allegorico, allusivo, problematico, enigmatico, autoironico, malinconico, fragile e spietato nell’individuare le forme del nonsenso che si nascondono nel mondo e che di tanto in tanto si mostrano per farci ridere, sorridere, o per spaventarci.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 novembre 2024]