di Antonio Errico
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Maschere del loro tempo. Maschere di una certa strana Italia, un po’ vera e un po’ immaginaria: quella degli anni che vanno dalla fine dei Sessanta alla metà dei Novanta. Maschere di vizi innocenti e nessuna virtù. Di stereotipi e condizioni dell’esistenza individuale, di quella sociale. Maschere senza scaltrezza: ingenue, rassegnate. Paolo Villaggio. Massimo Troisi. Artisti assoluti. Quindi maschere.
“Io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo
sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande
“perditore” di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un
impero coloniale, otto – dico otto! – campionati mondiali di calcio
consecutivi, capacità d’acquisto della lira, fiducia in chi mi governa… e la
testa, per un mostr… per una donna come te”.
Così parlò il ragionier Ugo Fantozzi. L’Italiano che non vince mai, che
perde sempre. Il ragionier Ugo Fantozzi parla e le sue parole, le sue forme
verbali, le sue frasi s’infiltrano nel linguaggio della gente, sfuggono ai loro
contesti naturali e diventano esclamazioni, modi di dire, espressioni di
situazioni ordinarie che si trasformano in paradosso, stramberia, assurdità.
Ugo Fantozzi non è un personaggio. E’ una maschera.
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