Chi, da bambino (ma credo anche in età adulta), non è rimasto letteralmente estasiato dai tanti racconti e dicerie – quasi sempre bisbigliati sottovoce – che avevano come prim’attori questi mitici e inafferrabili Sciacuddhi?
Personaggio fantastico delle leggende pugliesi di ieri e di oggi, indefinibile tanto nella sua sfuggente iconografia di satirello o elfo, quanto nel nome (Sciacuddhi a Galatina e nella Grecìa Salentina, Monaceddhu a Gallipoli e dintorni, Laùru e Laurieddhu nelle zone del Gargano e Capitanata come a Lecce e nel Capo di Leuca, ma altrove noto anche come Diaulicchiu, Carcagnulu, Scarcagnulu, Scazzamurrieddhu, Uru, e simili), questo sapido spiritello tutto pepe, animato da un carattere burlone e dispettoso, è stato per i nostri antenati, e lo è ancora per noi, l’assoluto protagonista di altrimenti inspiegabili beffe, birbonate, furtarelli e tiri mancini, giocati allegramente alle nostre spalle.
In alcune zone dell’alta Murgia e nella Grecìa salentina, quando si va ad abitare in una casa nuova, permane l’usanza di preparare un banchetto notturno per ingraziarsi il folletto del luogo, e se la mattina del giorno dopo le vivande risultano consumate (oppure no), è segno preciso del gradimento (benigno oppure no) della presenza in quella casa dei nuovi abitanti.
A Lecce, sul parapetto del Palazzo Belli, è possibile ammirare la testa scolpita di un Laùru o Uru. E all’interno del castello di Noha, frazione di Galatina, ai primi del Novecento, il ‘mastro’ contadino-muratore Cosimo Mariano, proprio per agevolare nel luogo la residenza degli Sciacuddhi aveva costruito per loro, e a loro misura, le casiceddhe (casette), oggi un po’ trascurate, ma ancora visibili e concrete.
Pur continuando a darmi qualche piccola noia (in specie quando mi fa sparire d’improvviso – facendoli poi ricomparire quando meno me l’aspetto – gli oggetti di cui in quel preciso momento ho più urgente bisogno (come le chiavi di casa o gli occhiali di lettura), confesso che, fin dalla mia infanzia, ho sempre sentito una sorta d’incanto, e un’istintiva complicità, per le mirabolanti birbonate di questo ineffabile mattacchione – che ho sempre familiarmente chiamato Piripicchiu –, sognando perfino d’incontrarlo…
Magari nella stalla di qualche vecchia masseria, intento ad intrecciare le criniere di asini e cavalli o ad annodargli le code; oppure in procinto di disturbare il sonno a qualche sventurata fanciulla, saltellando nottetempo sul suo letto, e sul petto, per farle mancare il respiro; o, ancora, a mettere sottosopra cucine e dispense alle povere massaie, fracassando piatti e bicchieri, battendo rumorosamente i coperchi delle pentole, rubacchiando e nascondendo cibarie o disperdendo mestoli e stoviglie…
Discolaccio. Sfacciato. Impertinente. Birbone. Canaglia. Ma sempre (o quasi) simpatico e gioviale.
Questo, nel nostro immaginario, era ed è lo Sciacuddhi. Le cui origini misteriose, pur alla lontana comparabili con alcuni personaggi delle culture popolari di tradizione anglosassone e nordeuropea, e in parte riconducibili anche all’universo fiabesco di Andersen o dei fratelli Grimm, sono ben distinte e caratterizzate in tutto quello che fu il Regno di Napoli, e particolarmente nel territorio della Puglia centro-settentrionale e nell’antica Terra d’Otranto.
Per chi l’avesse dimenticato, diremo ancora che lo Sciacuddhi – e, nello specifico, lo Scarcagnulu (com’è di solito chiamato in tutto il Brindisino) – fu perfino celebrato, nel 1954, da Domenico Modugno in una delle sue prime canzoni e incisioni discografiche.
Nativo di Polignano a Mare, Mister Volare, com’è noto, visse la propria giovinezza a San Pietro Vernotico, e le sue iniziali produzioni musicali – da Ventu de scirocco a La donna riccia, passando per Lu pisce spada, Mùsciu nìuru, Lu pupu, Sirinata a na dispettosa e lu Scarcagnulu – ispirate in gran parte ai vecchi “cunti” delle nostre contrade, furono appunto create in dialetto salentino, all’epoca erroneamente scambiato (o forse volutamente strumentalizzato) per siciliano.
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Sull’etimologia dei vari nomi del nostro impareggiabile folletto, molte sono le congetture. L’assai diffuso termine Laùri – e quindi Laurieddhi, che sarebbero gli spiriti dei bambini morti prematuri e non battezzati – deriverebbe verosimilmente dalle antiche divinità protettrici della casa, i Lari di tradizione romana.
Secondo lo storico Luigi Giuseppe De Simone (1835-1902), che nel 1876 ne fece uno studio approfondito in una specifica sezione del suo interessante volume La vita nella terra d’Otranto, essi sono appunto da considerare “le anime dei buoni antenati della famiglia, legate strettamente alla casa che si curano di proteggere”, vegliando sul raccolto e sul bestiame, riempiendo di caramelle le culle dei bambini, operando talvolta generose regalie o fornendo le informazioni per il ritrovamento di tesori nascosti (la leggendaria acchiatura – alla lettera: “trovatura” –, di cui nel Salento ancora oggi si favoleggia).
Quanto appena detto riguarda ovviamente i Laùri buoni, perché i Laùri maligni o semplicemente spiritosi e burloni, si divertono a fare i dispetti più vari, come quello classico già prima descritto, che tende ad affaticare il respiro delle persone prese di mira durante la notte, appisolandosi sul loro petto dopo essersi resi per di più molto pesanti.
Il termine Carcaluru o Carcagnulu – con cui il folletto dispettoso viene indicato in varie altre zone della Puglia centrale e meridionale – proviene appunto da tale molesta abitudine di ‘calcare’ (comprimere) l’addome dei malcapitati, provocando conseguentemente malesseri e insonnie.
Stando alle differenti testimonianze di chi ha avuto la ventura d’incontrarli, gli Sciacuddhi avrebbero un aspetto curioso e bizzarro, mescolando talora caratteristiche diverse, congeniali di volta in volta a nani, gnomi, elfi, folletti: alcuni sono dotati di coda come i satirelli, e alloggiano di solito fra le travi del tetto, dentro gli anfratti dei camini, nei pertugi di soffitte, cantine o sottoscala, e comunque negli angoli più segreti e irraggiungibili della casa.
Arguti e sorridenti, hanno occhi penetranti e mobilissimi, e quando sono di buonumore fanno sentire i loro risolini maliziosi, fischiando o squittendo come topolini, senza smettere mai di saltellare e giocare, e architettando imprevedibili scherzi.
Va infine detto che gli Sciacuddhi si affezionano non tanto alla casa, ma alla famiglia e alla gente che vi abita. Per cui, quando avviene un trasloco, è più che sicuro che traslocano anche loro.
A tale proposito, la nonna Anna ci raccontava, sempre divertita, che un certo Cosimo Sasà e la di lei moglie Concetta, contadini di un paese nel Capo di Leuca, spazientiti dello Sciacuddhi che gliene combinava di tutti i colori, pur di toglierselo dai piedi, avevano deciso di cambiar casa, andandosene fuori paese. Caricarono quindi le masserizie su un carretto a mano e si avviarono di buon passo verso la nuova abitazione.
Durante il tragitto, la moglie si accorse di non aver preso e portato con sé la scopa, che gli sarebbe stata indispensabile per le pulizie: «Nah, Cosiminu – esclamò verso il marito – La scupa mi rescurdai! (La scopa dimenticai!)…».
«…Nu te preoccupare! – le fece eco una vocina da dietro – L’aggiu pigghiata ieu! (L’ho presa io!)…».
Era, manco a dirlo, il loro ineffabile e fedele Sciacuddhi, che li seguiva placido, con la scopa sulle spalle, anch’egli diretto verso la nuova casa!
[Tratto da Misteri prodigi e fantasie in Terra di Puglia, Capone Editore, Lecce 2015]