L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo VIII. La donna pietosa e gentile ovvero Filosofia

Ella ha tutti i connotati necessari per essere amata, è “giovane e bella molto”[2] e, da una finestra, guarda l’amante afflitto. E non si trascuri che, a fronte di queste notazioni realistiche, tratte dall'”ambito della tradizionale impostazione cortese”[3], la donna “riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta”.  L’episodio della donna gentile e pietosa riconferma il contrasto interiore del personaggio autobiografico esaminato nel corso dell’analisi della Vita Nuova:

“Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensiero: “Or voi solevate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, e ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate”.” (V.N. XXXVII, 1-2)

Il protagonista non può amare la donna gentile e pietosa senza venir meno alla purezza del primo amore; deve allora convincersi che ella lo “mira” soltanto perché “le pesa de la gloriosa donna” che lui suole piangere. Ora che, morta Beatrice, potrebbe essere pago di celebrarne la lode disinteressatamente, malgrado tutti i fallimenti fin qui analizzati, egli non abbandona il suo ruolo, quello cioè di essere in primo luogo amante, persistendo nel proposito di amare una donna degna d’amore, ma da cui comunque bisogna tenersi lontano per non gettare fango sulla memoria di Beatrice. Bestemmia, allora, maledice i suoi occhi (“maladetti occhi”), e si torce nel tentativo di respingere il pensiero consolatore e vile ispiratogli dalla donna gentile[4]. Intanto l’episodio ha aperto un nuovo orizzonte, un personaggio inaspettato ha fatto la sua comparsa, un nuovo schermo sembra ora inserito tra l’amante e Beatrice ormai morta. E difatti la donna gentile e pietosa eredita la funzione della donna schermo, arricchita da una connotazione adatta a questo stadio della finzione dantesca: ella è appunto “pietosa”, e in quanto tale serve a consolare l’amante addolorato dall’amara perdita di Beatrice. È, vorremmo dire, un ostacolo del fabulare, che coll’impedire il dispiegarsi della narrazione, la punzecchia, la sprona, offrendole la possibilità di superare l’ostacolo medesimo, e di espandersi al di là del limite posto.

Col cap. XXXVIII si rinnova la battaglia dei pensieri avversi e favorevoli alla donna gentile e pietosa, finché anche questo personaggio deve uscire di scena, almeno per il momento:

“Contra questo avversario de la ragione si levoe un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me, che mi parea vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi. Allora cominciai a pensare di lei secondo l’ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia de la ragione: e discacciato questo malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice.” (V.N. XXXIX, 1-2)

Il sentimento ispirato dalla donna pietosa e gentile è definito “avversario de la ragione” e l’amante giudica vile il “desiderio” provato per questa donna. Beatrice interviene, “deus ex machina”[5] a reprimere il “desiderio” vile e “malvagio” dell’amante, lo stesso “desiderio” mille volte represso e mille volte insorgente che noi abbiamo individuato e seguito nelle pagine della Vita Nuova. Quest’opera deve avere una conclusione edificante, utile a quanti la leggeranno, e quindi Beatrice deve farsi protagonista di una visione che neutralizzi il “desiderio malvagio” dell’amante abbandonato ed indotto in tentazione. Ella ricompare così, come la prima volta noi la vedemmo all’inizio del racconto; e l’amante allo stesso modo la rivede, con le stesse “vestimenta sanguigne[6], come nell’età in cui la prima volta la vide. La narrazione ritorna là da dove ha preso il via[7], e questo accade non senza motivo. Fatto è che nella Vita Nuova la dialettica tra “desiderio” e virtù rimane irrisolta, ed è in sostanza riconfermata dall’episodio conclusivo della donna gentile e pietosa.

La visione di Beatrice che fa “pentere” l’amante del suo “malvagio desiderio” conclude la vicenda[8]. Ma si tratta di una conclusione provvisoria, del tutto esteriore: la donna pietosa ricomparirà “come variante del topos, del “macrosegno” culturale allegorico sulla filosofia”[9] nell’opera che fa da “pendant strutturale alla Vita Nuova[10]: il Convivio. Intanto, però, il “libello” deve attestare le acquisizioni a cui l’Alighieri è pervenuto, da cui risulti chiaramente lo stato del personaggio autobiografico che dovrà essere protagonista di una vicenda ancora da narrare. Al termine della Vita Nuova il personaggio autobiografico dantesco, attore e narratore ad un tempo, quando ormai nessuna distanza separa le due funzioni narrative, poiché il narratore ha già raccontato per intero l’esperienza dell’amante-poeta, formula i suoi proponimenti:

“Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula benedictus.” (V.N. XLII, 1-3)

“Una mirabile visione” determina nel narratore il proposito di non parlare più in lode di Beatrice, fino a che egli possa “più degnamente trattare di lei” e alla fine “vedere la gloria de la sua donna”. Questo è il proposito che il libello trasmette al Convivio, e che nel Convivio sarà rinnovato; e col proposito trasmette anche la complessità della finzione. L’Alighieri ha creato un solido personaggio autobiografico che giustamente potrà ancora parlare di sé, e lo ha reso attore di una vicenda che interessa ormai profondamente al lettore. Egli potrà parlare di sé perché il racconto ha mostrato che l'”intenzione” dell’amante era “altra”, ed era moralmente buona. Tuttavia, contro la sua volontà, il protagonista è rimasto irretito in una storia in cui si sovrappongono e si intrecciano inevitabilmente virtù divine e passioni terrene, in cui l'”altro parlare” acquista una sua interna necessità. È qui che noi senza dubbio vediamo la mano sapiente dell’artefice, dello scrittore, dell’Alighieri. È l’Alighieri, difatti, ad aver dato vita ad un personaggio-narratore che d’ora innanzi dovrà “scusarsi” col lettore per non essere riuscito a far comprendere chiaramente l'”altro intendimento” che era nelle sue parole. Ricordiamo quanto è detto nelle prime pagine del Convivio: è concesso parlare di sé per due ragioni, per “scusarsi” di qualche “infamia”, e per essere di grande “utilitade” all’uomo[11]. La complessa finzione della Vita Nuova avvalora l’una e l’altra “scusa”. Essa infatti ha mostrato un personaggio esposto all'”infamia” del lettore (l’episodio del “gabbo” delle donne gentili e di Beatrice è il più significativo), e che quindi ha diritto a parlare di sé per discolparsi; ed ha mostrato anche un personaggio (poeta della lode disinteressata e prosatore-commentatore) che ha sempre rivendicato un’altra intenzione, certamente buona. La sua vicenda si configura infatti anche come una ricerca interiore, autorizzata da presagi divini e da interventi miracolosi (le apparizioni di Amore, della stessa Beatrice, il numero nove, ecc.) che rendono legittimo considerare la Vita Nuova come una storia edificante[12], che darà ammaestramento e “utilitade” (gioverà) a quanti sapranno leggerla e, dirà il commentatore del Convivio, a quanti non si fermeranno al senso “litterale” delle parole. Questa finzione, oltre al proposito (che, ripetiamo, rimarrà tale) di non parlare più di Beatrice  fino a quando il poeta non saprà “trattare più degnamente” di lei, è la ricca e complessa eredità che il “libello” giovanile trasmette al Convivio.

Nel sistema dei personaggi del Convivio, il narratore acquista una fisionomia del tutto diversa rispetto a quella della Vita Nuova. Si ricordi la bella definizione che il Singleton dava del narratore della Vita Nuova: “colui che conosce la fine, la metà e il principio di tutto ciò che è accaduto”[13]. Certamente questa definizione non è del tutto valida per il narratore del Convivio. Per parafrasare il Singleton, diremo che il narratore conosce solo il principio e la metà delle vicende che egli, in forma di trattato, racconta. Né il trattato richiederebbe la duplice funzione di attore e narratore, che tuttavia qui rimane operativa, tra le righe dell’opera, perché il Convivio nasconde in sé la storia della propria genesi, ovvero il risultato precario della fabula della Vita Nuova. Non si può non riconoscere nel Convivio, dentro la forma del trattato, un nucleo fabulistico continuamente fiaccato dalla funzione egemone del commentatore, di cui crediamo di aver spiegato a sufficienza la genesi. Inoltre, ad un attore statico, incapace di muovere l’azione, corrisponde un narratore che non rammemora più la propria vicenda, perché in verità non ne conosce né lo sviluppo né la fine. “La memoria, in effetti, non esercita nel Convivio alcuna funzione costruttiva”[14]. Il piano dell’opera, pur essendo annunciato (“La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate…” (Conv. I, i, 14) ), è ben presto disatteso[15]. Il narratore ha ormai abbandonato il suo alto punto di osservazione retrospettivo e rammemorante (quello occupato nella Vita Nuova); non gli rimane altro, allora, che riprendere la conclusione della vicenda giovanile narrata nella Vita Nuova – soprattutto i due elementi conclusivi: il personaggio della donna gentile e pietosa e il proposito di “trattare più degnamente” di Beatrice -,  riutilizzandola e trasformandola, come fa uno scultore che insista sulla stessa pietra fino a quando non le abbia dato la forma voluta; salvo poi abbandonarla in un canto, qualora un più ardito e risoluto progetto gli si affacci alla mente (la Divina Commedia).

Il personaggio della donna pietosa e gentile, abbiamo detto, è ripreso nel Convivio:

“Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina secondo diversi tempi, apresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo colli angeli e in terra colla mia anima, quando quella gentile donna, cui feci menzione nella fine della Vita Nova, parve primamente, accompagnata d’ Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. E sì come è ragionato per me nello allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch’ io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici.” (Conv. II, ii, 1-2)

Questo narratore dimidiato ci avverte così che l’intervento di Beatrice e la “mirabile visione”, in sul finire del “libello”, non ha posto fine al suo rapporto con la donna pietosa che, insegna M. Marti, “non può essere identificata se non con la prima, della quale parla Dante nei capitoli XXXV-XXXVIII della Vita Nuova[16]. Si noti come la ripresa di questo personaggio coincida con la citazione dantesca del “libello” giovanile; esiste cioè una decisa volontà di Dante di continuare il racconto di quella vicenda, svolgendolo e approfondendolo nelle sue immanenti possibilità; e così la finzione narrativa ripresa dalla Vita Nuova, nell’ultima estenuata riproposizione, non può che presentare al lettore l’unica sua risorsa: la “digressione” e il “comento”. Il Convivio, difatti, deve “giovare” alla rilettura, questa volta priva di fraintendimenti, della Vita Nuova (Convivio, I, i, 16). L’amante-poeta-commentatore e narratore della vicenda giovanile si ripresenta a noi come colui che ha sacrosanti motivi per parlare di sé, non solo per discolparsi, ma anche per giovare agli altri con la propria dottrina. Lo ripetiamo: questi compiti s’impongono al protagonista del Convivio come una necessaria reazione all'”infamia” ricevuta e a causa del fraintendimento della poesia giovanile e a causa dell’immeritato “essilio”. E se d’un narratore dimidiato si tratta, tuttavia è tale che parlerà con “durezza” e “gravezza”, e in volgare[17]. Agisce nel Convivio un solido personaggio autobiografico, ancora una volta amante, il cui oggetto d’amore è la donna pietosa, senso “litterale” che occorre però superare subito nell'”allegoria”: colei che riempie di sé il cuore dell’amante dopo la morte di Beatrice è Filosofia:

“E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore, fu la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora puose nome Filosofia.” (Conv. II, xv, 12)

In verità, Dante non ha detto nessuna “cosa equivoca”, come sembrava al Vossler. Difatti nella struttura dell’opera al commentatore è assegnata la precisa funzione di avvertire il lettore del vero signicato da attribuire alla donna pietosa nel Convivio[18], al fine di impedire che il lettore, che aveva frainteso la poesia della Vita Nuova, fraintenda ora anche le canzoni del Convivio. Con la teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia è confermata all’interno della finzione narrativa la frattura tra poesia e prosa già presente nella Vita Nuova, lì giustificata nel XXV capitolo in cui il narratore, per salvaguardare l’equilibrio dell’ opera, assegnava al commentatore il compito di “aprire per prosa” le proprie poesie. E si era chiarito il motivo fondamentale per il quale  era necessario l'”aprire per prosa”: il ripristino del “verace intendimento” da contrapporre all'”altro parlare” della poesia giovanile dell’amante-poeta che appariva ancora troppo legato al vecchio mondo cortese. Una maggiore urgenza, un più ansioso desiderio di riscatto e di rivalsa anima la teoria dei quattro sensi d’interpretrazione della poesia elaborata nel Convivio, che possiamo considerare come il provvisorio risultato raggiunto dal protagonista in seguito al fallimento della lode di Beatrice. S’intenda: non vogliamo dare alcun giudizio di merito sulla poesia della lode, ma semplicemente constatare che nel gioco dialettico del “libello” la lode di Beatrice è una semplice funzione narrativa, il cui vero significato risulta dal rapporto con l'”altro intendimento” dell’amante-poeta. Pertanto noi crediamo che essa debba essere considerata solo come un momento, presto superato (il che non toglie che sarà poi ripreso e reinterpretato nel “sacrato poema”), dell’evoluzione poetica e ideologica dell’Alighieri, un elemento, sia pure importante, della finzione dell’opera, destinato non certo a rimanere isolato, bensì ad entrare in conflitto con l'”altro parlare” dell’amante-poeta. È un fatto: già alla fine della Vita Nuova e poi nel Convivio si afferma e si ribadisce che di Beatrice è bene non parlare più. La “mirabile visione” con cui termina la Vita Nuova ha indotto l’amante nel proposito “di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. Nel Convivio abbiamo la conferma di questo proposito:

“…sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento.” (Conv. II, viii, 7)

La ferma decisione con cui è riformulato il “proponimento” diviene comprensibile solo se il lettore è passato attraverso l’esperienza della Vita Nuova, e il fallimento della lode di Beatrice. Sarà possibile “più degnamente trattare di lei” solo dopo aver ripristinato il “verace intendimento” della poesia in lode di Beatrice, cui contribuirà il dotto commento alle canzoni per la donna pietosa come riprova della moralità dell’opera di Dante, contro ogni “altro parlare”, cioè contro quell’elemento della fabula grazie al quale s’è sviluppata la dialettica irrisolta del “libello”, e che in realtà tanto più è presente nel Convivio quanto più il narratore tenta in ogni modo di esorcizzarlo[19]. Non a caso il narratore della Vita Nuova aveva aggiunto al suo “proponimento” finale: “E di venire a ciò [e cioè a una “più degna lode di Beatrice”] io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente”. Anche qui ci troviamo dinanzi all’esito ultimo del fallimento della poesia della lode, confermato nelle pagine del Convivio. Così l’amante che avevamo visto languire prima e dopo la morte di Beatrice, rinasce a nuova vita come “amatore di sapienza”[20],  secondo la definizione di “Pittagora” (Conv. III, XI 5). Egli, studioso di Boezio e di Tullio, va ricercando la donna pietosa e gentile, ovvero Filosofia, nei luoghi ove ella è celebrata:

“E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero”. (Conv. II, xii, 7)[21]

L'”amatore di sapienza”, prima di poter “più degnamente” lodare Beatrice, dovrà cacciare e distruggere “ogni altro pensiero”, e qualunque opinione che veda nell’opera presente e passata riferimenti alle passioni terrene. Leggiamo:

“Onde, acciò che questa natura si chiama mente, come di sopra è mostrato, dissi ‘Amore ragionare nella mente’, per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione di me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione. ” (Conv. III, iii, 12)

Ogni sospetto deve essere fugato, ogni riferimento alle passioni terrene allontanato, perché il poeta possa aspirare alla lode disinteressata della donna amata. I quattro sensi d’interpretazione della poesia, ripresi da una tradizione esegetica e retorica plurisecolare, sono qui assunti come il prodotto della finzione del personaggio-poeta, nato dalla vicenda inconclusa della Vita Nuova, che deve dire molto intorno alla sua poesia per poter “degnamente” lodare un giorno Beatrice. La poesia deve essere compresa a fondo, e nei modi in cui il commentatore la “apre”, perché il poeta non tollera alcun fraintendimento della sua opera. Sicché tutta la struttura e la finzione narrativa del Convivio a noi appare pervasa dalla vicenda della Vita Nuova; e non solo perché è fondata su quella vicenda, ma perché quella vicenda ripropone in forme nuove, più elaborate e più complesse, che però non riescono a nascondere del tutto “la suprema soluzione”, “l’antinomia di amore celeste ed amore terreno” cui “il “libello” approda”[22] e che è ripresa ed approfondita, sia pure con esito diverso, nelle pagine del Convivio.

Note


[1] M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit., p. 66.

[2] Cfr. S. Accardo, Morte di Beatrice e trasfugurazione (XXVIII-XLlII), AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit, p. 89: “(…) le notazioni hanno soprattutto un rilievo psicologico soggettivo; esprimono cioè, oltre l’apparente oggettività, il modo di percepire e il sentimento di Dante; (…)”.

[3] Cfr. G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 298. Ricordiamo che già F. Tateo, La prima esperienza allegorica, in Questioni di poetica dantesca, cit., p. 87, rilevava “il riferimento “realistico” della finestra”. Ma neppure a A. Oxilia, Vita Nuova e Rime, in AA.VV., Dante minore, cit., p. 32, sfuggiva questo “particolare realistico”. Cfr. anche P. Zumthor, La misura del mondo, Il Mulino, Bologna 1995 (1993), p. 79 che rileva il “tipo” della donna alla finestra presente nella tradizione romanza, e la definisce “figura ideale, dalla patetica equivocità”.

[4] A proposito della donna gentile della V.N. riportiamo il giudizio di M. Marti, Lo Stil nuovo di Dante e l’ unità della Vita Nuova, in Storia dello Stil nuovo, cit., p. 457: “(…) un momento di debolezza, di delusione, di smarrimento, generato dal bisogno di conforto, che emerge dalla memoria viva e dolorosa del passato, e che vien superato alfine nella fede suprema di un amore che ritorna santo per l’eternità”.

[5] D. De Robertis, Il libro della “Vita Nuova”, cit., p. 170: “Ora l’epilogo non è affatto sviluppo di queste premesse, non è frutto di un ulteriore approfondimento o anche solo di una dimostrazione; è dato, imposto dall’esterno o dall’alto. Contro la storia, a cancellare quest’ esperienza, si leva, vero deus ex machina, l’ immagine eterna di Beatrice (…)”.  E cfr. anche il giudizio di G. Favati, Dante Alighieri, in op. cit., p. 299, secondo cui l’episodio della donna gentile “è stato ideato in funzione di una nuova (si direbbe sperimentale ex negativo) affermazione dell’eccezionalità di Beatrice (…)”.

[6] In V.N. II, 3 Beatrice appare per la prima volta all’ amante: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia”.

[7] M. Marti, Lo Stil nuovo e l’ unità della Vita Nuova, in Storia dello Stil Nuovo, cit., p. 446, ci rammenta che la V.N. è “costruita a parti successive e ritornanti dall’inizio (visione di Beatrice) al centro (Donna pietosa) e da questo centro alla fine (altra visione di Beatrice) secondo intervalli accuratamente studiati e ritmicamente ripetuti (…)”. Si rinvia alla nota n° 38 della stessa pagina per una breve storia di questa precisazione. Cfr. anche G. Favati, Dante Alighieri, in op. cit., pp. 299-301 che individua nella ripartizione dei 42 capitoli della V.N. un “ritmo compositivo (…) sostanzialmente ternario”, con esclusione dei capitoli XXXV-XXXVIII (quattro capitoli) dedicati alla donna gentile.

[8] Cfr. K Vossler, La Divina Commedia, II, La genesi etico-politica, cit., p. 167, che giustamente sintetizzava: “Non sono azioni, sono sogni, propositi, desideri che chiudono il romanzo”.

[9] Cfr. Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 77. Le pp. 74-77 sono dedicate alla dimostrazione che la donna gentile è un topos della letteratura medievale, da Boezio ad Arrigo da Settimello, da Alcuino a Marziano Capella.

[10 ] Maria Corti, ibidem, p. 91.

[11] Si rinvia al capitolo II del presente studio.

[12] Pertanto non si può dare torto, ma nei limiti della finzione narrativa da noi ricostruita, a B. Croce, La poesia di Dante, cit., p. 41, quando scrive il suo celebre giudizio: “In realtà, la Vita Nuova, è scritta al modo di un libretto di devozione, con chiaro intento pio e con procedimenti conformi (…)”.

[13] Si rimanda al Capitolo IV, p. 45 del presente studio.

[14] M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit., p. 90.

[15] Ciò non toglie che Dante possedesse “uno schema scritto di tutta l’opera, (…); prova dello schema non è solo il dato che in III, xiii, 4 Dante prevede un quarto trattato su questioni sociali, ma che in IV, xxvii preannuncia al par. II il penultimo trattato sulla giustizia riprendendo l’informazione dataci in I, I 4 sui quindici trattati, uno di proemio e 14 di commento ad altrettante canzoni”. Lo scrive Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 133.

[16] M. Marti, Lo Stil nuovo di Dante e l’unità della “Vita Nuova“, in  Storia dello Stil Nuovo, cit., pp. 435-458, a cui si rimanda per i numerosi riferimenti bibliografici. Il critico risolve anche la vexata quaestio, connessa a quella dei rapporti tra donna gentile della V.N. e donna gentile del Conv., riguardante la presunta “doppia redazione” della V.N., e dopo aver discusso la posizione di vari critici (Pietrobono, Nardi, Barbi), conclude che “l’ipotesi di una doppia redazione del giovanile libretto (…) è dunque ormai da considerarsi morta agli studi, e viva soltanto come momento storiografico o cronachistico in sé concluso e definitivamente superato” (Storia dello Stil Nuovo, cit., p. 445). Sui rapporti tra donna gentile della V.N. e del Conv.  cfr. anche E. Gilson, Dante e la filosofia, cit., pp. 86-96 e D. Consoli, Il Iibro del Convivio, in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit., pp. 125-129.

[17] Si rimanda al Capitolo II e III del presente studio.

[18] Cfr. K. Vossler, La Divina Commedia, II. La genesi etico-politica, cit., p. 174: “Quanta fatica non hanno speso tanti bravi e coscienziosi dantisti per far concordare la donna gentile della Vita Nuova colla donna gentile del Convivio! Là è una creatura compassionevole, che se ne sta alla finestra e piange. Qui è la Filosofia. E Dante ci assicura espressamente che sono la stessa identica persona! Io non voglio certo sostenere che egli abbia avuto l’intenzione d’ingannarci. Ha detto però indubbiamente una cosa equivoca. E’ l’equivoco intrinseco del mistico amore, che si cela in tutto il Medioevo e qui diviene manifesto”. Naturalmente sulla questione noi accogliamo in pieno il giudizio di D. De Robertis, Avvertenza al commento alle Canzoni, in Dante Alighieri, Convivio, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, vol. II, tomo I, Milano-Napoli 1995, p. XC: “Da non confondere sono interpretazione letterale e interpretazione allegorica (ossia della Donna gentile come Filosofia), sola competente al Convivio e non ribaltabile sulla Vita Nuova (…)”.

[19] Scrive E. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 97: “Dichiarando che non ne parlerà più per proponimento, Dante suggerisce che egli elimina dalla sua opera qualcuno che non può eliminare dalla sua mente. È ciò che si chiama in francese: s’abstenir d’en parler, e ci si astiene dal parlare di ciò a cui si pensa e di cui si avrebbe anche voglia di parlare (…)”.

[20] Già A. Vallone, La prosa del “Convivio”, cit., p. 35, poi in Dante, cit., p. 134, notava che “il tema dell’amore è proprio della Vita Nuova (…). Nel Convivio scompare; ma se c’è, è nella prospettiva di meditazione o di stimolo; amore come “studio” (II, XV, 10), disposizione dell’intelletto”. Cfr. inoltre Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 93, che sul tema del rapporto Amore-studio, cita giustamente Conv., III, xii, 2.

[21] Per la datazione di questa fase della biografia dantesca cfr. Dante Alighieri, Convivio (commento a cura di D. De Robertis e C. Vasoli), ad locum,: “non è difficile fissare cronologicamente questo periodo dell’esperienza di Dante tra la fine del 1291 e il 1294-95”.

[22] E. Sanguineti, Prefazione alla “Vita Nuova”, cit., p. 45, ora in Dante reazionario, cit., p. 32.

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