L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo VIII. La donna pietosa e gentile ovvero Filosofia

di Gianluca Virgilio

Eccola la nuova, ultima “fascinosa tentazione”[1] della Vita Nuova:

“Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti, tanto che mi faceano parere de fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta.” (V.N. XXXV, 1-2)

Beatrice è morta e, avvilita anche la funzione dell’amante, il racconto si sarebbe dovuto concludere. Ma il narratore deve preservare l’opera da una conclusione che impedisca il rinnovarsi della finzione medesima. L’amante ritrova tutta la sua vitalità nell’episodio della donna pietosa e gentile, che inaugura un nuovo stadio della finzione dantesca.

Già si è visto come la poesia della lode abbia informato di sé la parte centrale del “libello”, e quali conseguenze ciò abbia determinato nella struttura dell’opera. Il ruolo dell’esegeta-prosatore, povero nei primi capitoli della Vita Nuova, è divenuto preminente, e la sua funzione è stata teorizzata come necessaria per sopperire alle ambiguità e alle carenze dell’attore; questi, d’altro canto, ha perso la sua caratteristica essenziale: quella d’essere in primo luogo amante. E si è visto come perseverando in questa direzione, la finzione dell’opera finisca per esaurirsi in un gioco irreale e privo di prospettive future. La donna gentile e pietosa, riattivando la fabula del “libello”, riattiva anche la funzione dell’amante, e in questo modo rimette in movimento la dialettica della Vita Nuova.

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