Il Nuovo Museo Archeologico di Ugento

di Francesco D’Andria

La situazione dell’archeologia ad Ugento non era granché cambiata nei primi anni settanta del secolo scorso, rispetto a quanto descriveva, quasi cent’anni prima, Cosimo De Giorgi nei suoi Bozzetti di viaggio (1888): «Ho veduto io stesso nel fondo Colonne, per esempio, una serie di queste tombe tutte messe sossopra; gli scheletri dispersi e rotti; i vasi di più grossolana fattura ma pur tanto importanti per la scienza, ridotti in cocci dalla zappa o dall’aratro dei contadini.»

Anche la straordinaria scoperta della statua in bronzo di Zeus, avvenuta alla Vigilia di Natale del 1961, si era svolta in circostanze molto avventurose: gli operai, che scavavano le fondamenta di una terrazza, estrassero dal sottosuolo la statua da essi definita «il pupo», che restò tutta la notte abbandonata sopra il cumulo della terra di risulta, accanto ai pezzi del caratteristico capitello con l’abaco ornato da una fila di rosette a rilievo. Ore di buio, con il rischio che il capolavoro venisse trafugato e sottratto per sempre al nostro Patrimonio nazionale, sulla scia di tanti reperti che, in quegli anni, raggiungevano clandestinamente i mercati dell’arte nel nord Europa e negli Stati Uniti. Com’è noto, questo straordinario esempio della scultura tarantina arcaica fu poi recuperato grazie all’intervento della signora Sofia Codacci Pisanelli e dell’insegnante Salvatore Zecca, appassionato cultore di memorie locali. Sull’onda di questa scoperta venne istituito, nel 1968, il Museo Civico, affidato alla direzione dello stesso Zecca, il quale cercava di recuperare il salvabile, da esporre nelle antiche celle dell’ex-Convento dei Francescani, intitolato a Santa Maria della Pietà. E un’altra scoperta sensazionale avvenne nel 1970, quando, lungo la via Salentina, altri lavori edilizi portarono alla luce la “Tomba dell’Atleta”, con il suo corredo di ceramiche figurate e di vasi di bronzo, trasferiti subito a Taranto, per essere studiati e pubblicati dal Soprintendente Gino Felice Lo Porto, che in quegli anni aveva il monopolio dei corredi di vasi di eccezionale valore che, in tutta la Puglia, le tombe indigene restituivano in gran numero. Ma i lastroni della semicamera, recanti i resti di pitture, furono lasciati a Ugento.

Questa voce è stata pubblicata in Archeologia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *