Parole, parole, parole 34. Il morbus anglicus

Le cose si complicano se consideriamo l’enorme diffusione dei prestiti integrali, parole della lingua inglese accettate senza adattamenti, che si riconoscono come forestierismi per la loro estraneità formale. Nomi di cibi e di bevande (brandy, curry, gin, whisky), parole del linguaggio politico (leader, meeting, premier), dell’attività sociale e mondana (dandy, fashion, festival), dell’economia (boom, business, check, copyright, export, fiscal drag, manager, marketing, stock, ticket, trademark), dello sport (derby, outsider, performance), del cinema e della televisione (cult, news, zapping), della comunicazione (call center, show, stand-by), della pubblicità (marketing, sponsor, spot, testimonial), del gergo giovanile (dark, punk, wow), della vita quotidiana e professionale (boss, boy-scout, flop, gangster, killer, mobbing, outing, shopping, recital, snob).

Troppo spesso usiamo parole inglesi quando avremmo a disposizione forme italiane perfettamente funzionali e anche più comprensibili. Abusiamo di parole come e-commerce (invece di “commercio elettronico”), food e drink (come se in italiano non esistessero “cibo”e “bevanda”), selfie (invece di “autoscatto”), perché sembrano più seducenti. Sono onnipresenti e insopportabili location (invece di “luogo”, “sede”) e mission (invece di “scopo”, “programma”). È in crescita endorsement (riferito prevalentemente a un candidato politico) invece di “appoggio”, “sostegno”. In molti casi accattiamo espressioni inglesi inutili con atteggiamento snobistico, allo scopo di sembrare internazionali; e non ricorriamo a parole italiane, che presentano enormi vantaggi di chiarezza e di efficacia.

La sovrabbondante presenza di anglicismi è questione largamente dibattuta che coinvolge, oltre all’italiano, le lingue dell’intero pianeta, comprese quelle di grande storia e di ricca tradizione culturale. L’atteggiamento delle istituzioni e dei singoli di fronte alla preponderanza della lingua inglese varia fortemente, oscillando dall’accettazione scarsamente meditata alla chiusura quasi pregiudiziale altrettanto irriflessa. L’Accademia della Crusca condivide la richiesta, proveniente anche da non specialisti e per certi versi collettiva, di privilegiare, ove possibile, l’impiego di termini italiani nelle leggi, negli articoli di giornali, nella comunicazione della Pubblica Amministrazione e delle imprese, e anche nella comunicazione quotidiana, in particolare quando l’anglicismo sia scarsamente trasparente e appaia dettato da moda o addirittura da snobismo. 

Dal 2015 è attivo presso l’Accademia il gruppo “Incipit”, con lo scopo di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede. “Incipit” esprime pareri sui forestierismi di nuovo arrivo nei campi della vita civile e sociale; respinge ogni autoritarismo linguistico e, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica, suggerisce alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune. Tra le proposte di utilizzare espressioni in lingua italiana di facile comprensione, in luogo di concorrenti inglesi, si segnalano “centri di identificazione” (invece di hot spots), “collaborazione volontaria” (invece di voluntary disclosure), “lavoro agile” (invece di smart working), ecc. In nessun caso le forme italiane possono essere imposte, solo la condivisione collettiva ne può sancire l’affermazione. Ma, come succede in paesi europei come la Francia e la Spagna, sarebbe opportuno usare, nelle disposizioni, negli atti ufficiali e nella lingua di ogni giorno, le parole straniere solo a condizione che siano impiantate nell’uso e che non esista già una “onesta” parola o espressione italiana per designare la stessa cosa o esprimere la stessa idea.

La vita o la morte dell’italiano dipende solo da noi, dal nostro attaccamento per la nostra bellissima lingua e, mi sento di aggiungere, per la nostra cultura e per la nostra storia.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’1 novembre 2024]

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14 risposte a Parole, parole, parole 34. Il morbus anglicus

  1. Arcadi Letizia scrive:

    Il testo discute l’influenza crescente degli anglicismi nella lingua italiana, un fenomeno che suscita preoccupazione per il possibile impoverimento del vocabolario italiano a causa dell’eccessiva adozione di parole inglesi. Inizia richiamando il concetto di morbus anglicus di Arrigo Castellani, una critica ironica al fenomeno. L’autore ammette che l’adozione di termini stranieri può arricchire una lingua, ma sottolinea la necessità di un’attenta osservazione per evitare un’influenza eccessiva.
    Negli ultimi decenni, la diffusione dell’inglese è aumentata a livello globale, soprattutto con la crescita dell’American English dopo la Seconda Guerra Mondiale e il boom economico. Il testo evidenzia come molti anglicismi siano diventati comuni e ormai integrati nell’italiano, come “bistecca” e “grattacielo”, parole che non vengono più percepite come straniere.
    Tuttavia, il problema sorge con i prestiti integrali (ad esempio, “meeting”, “fashion”, “shopping”) che, a differenza dei termini ormai “italianizzati”, mantengono una chiara estraneità e rischiano di compromettere l’identità linguistica italiana. L’autore critica l’uso eccessivo e talvolta immotivato di parole inglesi per esprimere concetti per i quali esistono valide alternative italiane.
    In risposta a questa tendenza, l’Accademia della Crusca e il gruppo Incipit hanno lanciato iniziative per monitorare e suggerire alternative italiane agli anglicismi più recenti. Pur non volendo imporre termini italiani, l’Accademia mira a incoraggiare una riflessione critica e consapevole sull’uso delle parole inglesi, promuovendo l’utilizzo di termini italiani per rafforzare l’identità linguistica.
    Il messaggio finale è un appello ad amare la lingua e la cultura italiana, sottolineando che il destino dell’italiano dipende dall’uso consapevole che ne fanno i suoi parlanti. In generale, il testo offre una riflessione profonda sulla salvaguardia della lingua italiana, invitando a trovare un equilibrio tra apertura alle influenze linguistiche esterne e preservazione dell’identità nazionale.

  2. Clara Colazzo 1CL scrive:

    Dopo aver letto questo breve testo di Rosario Coluccia, ci accorgiamo di quanto quello detto sia condivisibile e attuale. Gli anglicismi oggi sono molto usati dai giovani, poichè queste parole risultano accattivanti e modaiole, ma sono maggiormente usate nel mondo lavorativo come ad esempio nel settore industriale, televisivo eccetera. Nel caso in cui i vocaboli in questione siano già presenti nella nostra lingua non vedo il motivo dell’utilizzo di parole straniere, ma al giorno d’oggi con la globalizzazione moltissimi termini, per comodità, vengono utilizzati in più paesi nella stessa lingua. Anche alcune parole italiane, però sono utilizzate in altri paesi, ad esempio “pizza, pasta, parmigiano” eccetera. Dobbiamo, oltre all’italiano, preservare i nostri amati dialetti. Come sappiamo in Italia abbiamo ne moltissimi, tutti importanti, e in alcune regioni si parlano addirittura lingue come il tedesco e il francese. È importante conservare l’italiano e i dialetti, ma dobbiamo anche realizzare che molte parole fanno ormai parte del nostro linguaggio vero e proprio.

  3. Andrea Miccoli 1cl scrive:

    Ritengo interessante riflettere sull’uso degli anglicismi nella nostra lingua. Da un lato, comprendo le preoccupazioni di chi teme che l’italiano possa perdere la sua identità e ricchezza lessicale. Dall’altro, è innegabile che la lingua si evolve e si arricchisce anche grazie all’incontro con altre culture. Forse la chiave sta nel trovare un equilibrio: accogliere i termini stranieri quando sono davvero necessari, senza però dimenticare di valorizzare le parole italiane già esistenti, che spesso riescono a esprimere lo stesso concetto con altrettanta efficacia.

  4. Djamila Bellomonte scrive:

    Sono del tutto d’accordo con l’autore,
    Credo che la nostra lingua sia tra le più belle, e che alcune parole non necessitano di essere sostituite da altre in lingua straniera, che molto spesso sono complicate da interpretare, rischiando quindi di creare confusione e malcontento nelle persone che non sono in grado di conoscerne il significato; se penso però al discorso di inclusione, di cui oramai si parla spesso, devo riconoscere che avere dei termini in comune con tutte le nazioni può aiutare a non sentirsi a disagio, specie quando siamo fuori dalla nostra terra e a poter comunicare in maniera più semplice.

  5. Giulia scrive:

    Il tema degli anglicismi nella lingua italiana è interessante e merita di essere considerato con attenzione. È vero che l’inglese ha un grande influsso su di noi, ma dobbiamo stare attenti a non lasciarlo entrare troppo nella nostra lingua. In effetti, scambiare parole tra lingue diverse può arricchirci, ma non dovrebbe mai mettere in pericolo la nostra identità culturale e linguistica.
    Negli ultimi anni, stiamo vedendo sempre più parole inglesi in settori come il commercio e la tecnologia. Spesso, le persone scelgono termini inglesi perché li trovano più moderni. Ma tante parole italiane già esistono e funzionano benissimo! Per esempio, usare “e-commerce” invece di “commercio elettronico” o “selfie” invece di “autoscatto” può sembrare inutile e può anche creare confusione tra chi sa l’inglese e chi no.
    In questo senso, l’idea dell’Accademia della Crusca di usare più parole italiane, soprattutto nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione, è davvero un buon passo. È importante non solo tenere viva la lingua italiana, ma anche farla capire meglio a tutti. L’iniziativa “Incipit” è un modo per farci riflettere sulla lingua e scambiare nuove idee. Però, è importante che non diventi un’imposizione, ma che aiuti le persone a essere più consapevoli del linguaggio che usano.
    In conclusione, non possiamo ignorare quanto l’inglese influenzi il nostro modo di parlare, ma dobbiamo anche proteggere e valorizzare la nostra lingua. La vera sfida è trovare un equilibrio tra l’aprirsi a nuove parole e il rispetto per le nostre tradizioni linguistiche e culturali. Solo così possiamo assicurarci un futuro interessante e vario per l’italiano.

  6. Angelica Mengoli scrive:

    Il testo riflette su come l’italiano sia sempre più influenzato dall’inglese, fenomeno chiamato “morbus anglicus.” Da un lato, è normale che le lingue si arricchiscano scambiando parole; dall’altro, l’uso eccessivo di termini inglesi rischia di far perdere identità all’italiano. A volte sembra più una moda che una vera necessità. La sfida è capire quando l’uso dell’inglese arricchisce davvero la lingua e quando, invece, si potrebbe valorizzare di più l’italiano.

  7. Angelica Mengoli scrive:

    Il testo affronta il tema di molte parole inglesi nell’italiano, fenomeno chiamato “morbus anglicus”.
    Da una parte le lingue straniere sono un arricchimento, ma rischiamo di dimenticarci dell’uso dell’italiano.
    La maggior parte delle volte si usano parole inglesi per essere più alla moda trascurando la chiarezza di un termine italiano. Dobbiamo iniziare a riflettere di più sul rapporto tra tradizione linguistica e innovazione.

  8. Omar Abboubi scrive:

    Nell’uso quotidiano della lingua italiana si stanno aggiungendo molte parole inglesi, e ciò sta fa perdere originalità alla lingua italiana.

  9. Rachele De Florio 1ªCL scrive:

    Sono d’accordo con l’autore. Secondo me gli anglicismi vanno usati solo quando è necessario.

  10. Matteo Nathan Giuri scrive:

    Il testo riflette sull’invasione degli anglicismi nella lingua italiana, una questione di grande attualità. L’autore richiama il concetto di *morbus anglicus* di Arrigo Castellani, suggerendo che l’uso degli anglicismi non è un male in sé, ma va monitorato con attenzione. Le lingue viventi, infatti, si arricchiscono di prestiti, ma il problema sorge quando si adottano parole inglesi senza adattamento, creando un’esigenza artificiale di “moda” o “snobismo”, quando esistono già termini italiani equivalenti.

    L’autore critica l’uso di anglicismi come *e-commerce*, *selfie*, *location*, che spesso sostituiscono parole italiane più chiare. Sottolinea l’importanza di preservare la lingua italiana, che è ricca di espressioni precise e comprensibili. In questo senso, l’iniziativa dell’Accademia della Crusca e del gruppo “Incipit” è significativa: monitorare e suggerire alternative italiane, evitando imposizioni, ma promuovendo una scelta consapevole.

    L’autore invita a un equilibrio tra apertura e preservazione: non una chiusura totale agli anglicismi, ma un uso ragionato della lingua che rispetti le necessità comunicative e valorizzi l’italiano. La lingua italiana deve evolversi, ma senza perdere la propria identità culturale.

  11. Giorgia mengoli scrive:

    Penso che il morbus anglicus sia soltanto un vizio della nostra lingua che ha tanti termini utilizzabili, ma noi comunichiamo con parole inglesi. Quindi faremmo meglio a ricorrere nella nostra bellissima lingua italiana.

  12. Marra matteo 1CL scrive:

    L’inglese è oggi la lingua più parlata al mondo, infatti ci permette di comunicare con persone provenienti da diverse parti del mondo.
    In una società multiculturale come la nostra è inevitabile che le diverse culture si influenzino a vicenda.
    Soprattutto nei paesi occidentali, possiamo vedere come le mode sono tutte uguali. Oppure mangiano del cibo che è tipico della cucina orientale. Questo scambio avviene anche a livello linguistico, tanto che nella lingua italiana vengono spesso utilizzate parole di lingue straniere oppure sono nati nuovi termini. In particolare sono proprio i ragazzi ad utilizzare questi nuovi termini che derivano dall’ inglese, soprattutto termini legati a internet e ai social media come twettare, linkare, taggare, oppure spoilerare.
    Questi termini e il loro utilizzo aumentano sempre di più nonostante l’italiano sia una lingua ricca di vocaboli , ma difficile da comprendere e da apprendere da chi non la conosce.

  13. Filippo Colopi scrive:

    La lingua inglese influenza la nostra lingua ormai da tempo. Secondo me, non dovremmo esagerare troppo con gli anglicismi perché l’uso di questi termini crea confusione a livello della comunicazione. Perché usare l’inglese se l’italiano ha tutti i termini necessari? Perché non diciamo fine settimana ma week-end? Spesso dietro questo uso dell’inglese c’è l’illusione di apparire più alla moda, moderni. Questa tendenza ci influenza anche a causa dei social media, perché questi cambiano il nostro modo di esprimerci. Bisogna riflettere sull’uso che facciamo della lingua, usare una parola piuttosto che un altra non perché pensiamo che l’italiano sia una lingua superiore ma perché è la nostra lingua e dobbiamo difenderla.

  14. Paolo scrive:

    Secondo me l’autore ha ragione, anche perché al giorno d’oggi l’uso di parole inglesi è sempre più frequente a discapito di quelle italiane. Tutto ciò viene definito anglicismo. L’anglicismo è una parola o una costruzione della lingua inglese che viene recepita in un’altra lingua. Alcuni esempi sono: marketing, show, shopping, business, selfie, fashion, parole usate quotidianamente e questo può portare al prosciugamento del nostro vocabolario italiano. Quindi bisogna cercare in tutti i modi di difendere la nostra storia e la nostra cultura.

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