Edson Arantes do Nascimento è un uomo. Pelè è un prodigio. Davanti a Dio (si può chiamare Dio, il tempo?) sono la stessa creatura. Davanti agli uomini sono due persone diverse. Di fronte al tempo, Edson Arantes do Nascimento diventa un uomo con il sorriso stanco, che cammina lento, si mantiene in equilibrio a stento, barcolla, vacilla, saluta il pubblico alzando il braccio tremante; ad un certo punto dice, con rassegnazione sapiente, forse con finta ironia: Se Dio (quel tempo chiamato Dio) mi ha dato delle scarpette nuove, perché non farle vedere?
Pelè invece non è un uomo, non ha età. E una fiaba, una narrazione, la leggenda del migliore calciatore di ogni tempo, campione del mondo per tre volte, 1281 gol in 1363 partite, Pérola Negra, la perla nera. ‘O Rei. Il Re.
Il calcio che si sogna, che incanta, sbalordisce.
Ancora Gianni Brera. Una volta prese quel diamante sfolgorante che è “La sera del dì di festa” (“Dolce e chiara è la notte e senza vento”) ed elaborò una tessitura comparativa fra i versi di Leopardi e i movimenti di Pelè durante una partita. Alla fine Brera scrisse: “Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelè. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione”.
Il primo tempo srotola con equilibrio, in fondo. Dieci minuti prima della fine, Roberto Boninsegna riporta la gara in parità. Nel secondo, Gérson, Jairzinho e Carlos Alberto disintegrano ogni parvenza d’illusione. 4-1.
Per Pelè è il terzo titolo di campione del mondo.
Poi, un altro giorno. A Rio de Janeiro, sul palco della presentazione del campionato carioca, c’è un uomo con il deambulatore e quelle sue scarpe nuove, che come tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni luogo, ad un certo punto deve fare i conti con la legge del tempo. Ma nella memoria e nell’immaginario di tutti e di ciascuno c’è la leggenda di quel mostro. Leggenda è una dimensione che supera la Storia, che mette insieme realtà e fantasia, che oltrepassa i confini degli accadimenti, delle circostanze.
Sul palco c’è un uomo che si confronta a viso aperto con il tempo e il destino, non si nasconde: si mostra, nella sua fragilità, nella sua decadenza. Tanto sa, lo sa anche lui, che quel sé che sta mostrando, quel corpo offeso, producono l’effetto di riattivare altre immagini, di ricondurle nel pensiero: la sua leggerezza, l’imprevedibilità dei suoi movimenti, la tecnica superba, il guizzo, l’incomparabilità dell’estro.
Il Re sa che dalla vita ha avuto molto. Forse pensa che quello che ha avuto gli basta. La fama, il successo, gli bastano. Ha battuto molti record. In uno però non c’è riuscito. A segnare cinque volte di testa in una sola partita, il Re non c’è riuscito. Quel record appartiene ad un altro giocatore, a João Ramos do Nascimento: Dondinho. Suo padre. Quel record non è riuscito a batterlo, Pelè. Forse è contento. A volte si pretende di lasciare alla propria origine qualcosa di insuperato. Forse Pelè ha voluto lasciare a Dondinho quei cinque gol di testa insuperati. Come una riconoscenza, un omaggio, una gratitudine verso il padre, i padri.
Il tempo non guarda in faccia mai nessuno. Il tempo è indifferente nei confronti dell’esistenza degli esseri. Non riconosce i re. Sa perfettamente di essere il vero Re, l’unico, l’assoluto, quello che nulla e nessuno può spodestare, quello al quale spetta l’eternità del trono.
All’inizio del secondo tempo, tutti o comunque molti si aspettano l’ingresso in campo di Rivera. Invece entrano gli stessi undici del primo tempo. Dopo il terzo gol, a partita già andata, sulla panchina degli azzurri si nota qualche movimento. Ma non entra Rivera. Entra Antonio Juliano al posto di Bertini. Rivera entrerà negli ultimi sei minuti. La folla innalza statue e poi le abbatte, si sa. Così la folla aspettò Ferruccio Valcareggi a Fiumicino per lapidarlo con i pomodori e le uova marce.
Pelè odiava i calci di rigore. Li considerava un modo vile per segnare. Però, nella partita con il tempo, come in quelle di pallone, è previsto il calcio di rigore. Quello che chiude la contesa, la battaglia, che mette fine alla festa. La differenza è data dalla condizione che nella partita di pallone il rigore si può anche parare, in quella con il tempo non accade mai. Non serve la tecnica, non serve la bravura, non serve l’intuizione. Non serve nemmeno la fortuna. La partita con il tempo va così: si sa già chi sarà a segnare l’ultimo punto, e non c’è neppure la speranza della monetina, la possibilità di affidarsi alla sorte che decide.
Quattro giorni primi l’Italia aveva giocato la partita del secolo, con la Germania Ovest. Quattro noi, tre loro. (Ma quella non fu una partita di pallone. Quella fu uno scontro tra titani, una contesa su un prato verde dell’olimpo, un medaglione del tempo che appartiene alla storia).
Il tempo non ha riguardi per nessuno. Nemmeno per gli eroi. Nemmeno per i miti. Il tempo passa, insulta, sbeffeggia, oltraggia, devasta. Impietosamente. Barbaramente. Forse questa mancanza di rispetto si può chiamare anche giustizia, si può chiamare anche equanimità. Va bene così, si può dire; va bene che tutti siano uguali davanti alla legge dell’eterno. Però certe volte questa giustizia può anche fare impressione, suscitare emozioni più forti, più profonde riflessioni. Fa impressione, suscita un’emozione più forte, fa riflettere più profondamente vedere Edson Arantes do Nascimento che cammina con il deambulatore. A molti può anche sfuggire chi sia l’uomo che risponde al nome di Edson Arantes do Nascimento. Tutti invece sanno chi è Pelè.
Intorno alla mezzanotte, sugli schermi dei televisori scorrono le immagini dei brasiliani che festeggiano la vittoria. In Italia si spande un silenzio ghiacciato.
Una porta si apre lentamente sul vicolo senza uscita della città vecchia, e un uomo con la canottiera bianca e una tristezza nera si siede sulla soglia. Il cane accanto a lui annusa l’aria afosa e ha la sua stessa tristezza sconfinata, greve. La città si rintana in un silenzio stupefatto, impenetrabile, ostinato, che dilaga per le strade, le corti, le piazze, sale fino ai balconi, s’attacca ai frontoni delle chiese, alle facciate dei palazzi. Qualsiasi altro silenzio è una diversa cosa. Il silenzio dopo quella partita è una sospensione del tempo: è come se tutto fosse già accaduto, come se nulla possa più accadere. E’ come se all’improvviso si fosse spalancato un cratere e tutto andasse sprofondando in quel cratere, le voci, i suoni, i rumori, le ansie, i desideri, le illusioni.
Con il Brasile perdemmo la finale dei mondiali. Succede. Le partite di pallone si vincono e si perdono. Come quelle della vita: a volte si vincono, a volte si perdono.
[“ Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 3 novembre 2024]