L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo VII. Poesia e prosa

Il “dicitore per rima”, senz’altro assimilato alla figura del poeta in lingua latina, si mosse a comporre poesie in volgare per fare intendere a donna il suo dire d’amore. Dire per rima equivale, se si bada alle origini e allo sviluppo della poesia volgare, a dire d’amore. La riflessione sulla poesia non può dunque prescindere da questo fatto fondamentale, assunto come punto di partenza della “digressione”. Una distinzione è subito introdotta: quella tra “poete” e “prosaici dittatori”; ai primi è “conceduta maggiore licenzia” di parlare secondo “figura o colore rettorico”, ai secondi un ruolo che è così giustificato:

“Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, si come fossero sustanzie e uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d’aprire per prosa.” (V.N. XXV, 8)

La questione formulata nelle prime righe del XXV cap. è già risolta. Il “dicitore per rima” può far parlare cose vere e non vere, animate ed inanimate, sulle orme dei poeti in lingua latina che in questo modo composero le loro opere. La conclusione è che Amore è sì una “sustanzia intelligente”, ma il “dicitore per rima” non potrà parlarne se non attraverso “figura o colore rettorico”; pertanto è giusta la definizione di Amore come “accidente in sustanzia”, perché il primo termine (“accidente”) rimanda all’altro (“sustanzia”) per via della “figura o colore rettorico” di cui è rivestita la poesia e che appunto consente al dicitore di dire verosimilmente che Amore si muove ride e parla come se avesse un corpo. Della “sustanzia”, difatti, nulla si potrebbe sapere se il poeta, usando i suoi artifici e la sua tecnica, non materializzasse questo concetto astratto in forma di “accidente” (le sembianze di Amore), che può essere compreso senza difficoltà poiché cade sotto i sensi dell’uomo. Qui per la prima volta l’Alighieri si pone anche il problema di come rappresentare il divino e, per così dire, renderlo verosimile, problema che tanta parte avrà nelle preoccupazioni artistiche della Divina Commedia (si pensi, ad es. a Par. IV, 37-45). E non v’è dubbio che la teoria allegorica fa qui le sue prime prove, non certo per un’esigenza critica avvertita dall’autore[4], ma perché il narratore deve assegnare al commentatore lo spazio che è stato liberato dalla morte dell’amante le cui vicende, trasfigurate poeticamente nell’ambito della finzione narrativa, hanno reso necessaria l’esegesi, ovvero la prosa del libello.  Il valore di un “dicitore per rima”, difatti, si conosce chiaramente solo se questi sappia “aprire per prosa” e mostrare al lettore la “ragione” delle proprie poesie. Prescindendo dai vari esempi che il narratore adduce per comprovare le sue affermazioni (e cita Virgilio, Orazio, Lucano, Ovidio), leggiamo la conclusione del XXV cap.:

“E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.” (V.N. XXV, 10)

La “digressione” che avrebbe dovuto soltanto risolvere una questione particolare (se Amore sia “sustanzia intelligente” o “corporale”) pone dunque problemi che espandono l’ambito del discorso e fondano e consolidano la finzione narrativa. La poesia della lode -già lo si è visto- ha agito con forza negativa nei riguardi della fabula, ha annientato la possibilità d’azione del protagonista che già stentava a procedere tra gli schermi della finzione. L’amante esce di scena[5], e il poeta rimane solo a reggere il peso dell’intero “libello”. Ma, guarda caso, le donne gentili proprio il poeta avevano gabbato, mostrando di rinvenire in lui l’amante, come se costoro, prima ancora del prosatore-commentatore, sapessero che dire per rima val solo dire d’amore. E la materia amorosa presenta tutte le ambiguità che condizionano la scrittura della Vita Nuova. Avvilita la funzione dell’amante, il poeta è affiancato dal commentatore, nuovo schermo della finzione dantesca, il quale si pone tra lettore e poesia per imporre un modo particolare di leggere la propria poesia; da qui all’interpretazione allegorica del Convivio il passo, come si intende, è breve. L’allegoria, difatti, inizia qui a “configurarsi come rapporto perfetto tra figura, lavoro poetico, e intendimento, dettato interiore scaturito dalle reazioni psicologiche dell’avventura amorosa”[6]. La teoria dell'”aprire per prosa”, secondo la quale bisogna che il “dicitore per rima”, quando sia “domandato”, sappia “denudare” le sue poesie dalla “vesta” degli abbellimenti retorici, è tutta in funzione della necessità di far acquisire al lettore un “verace intendimento” della propria poesia. Stiamo trattando la preistoria della finzione autobiografica dantesca del Convivio, dove, con la teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, questi problemi troveranno una più accurata, anche se non definitiva, sistemazione. E giustamente F. Tateo rinveniva nelle parole su citate “la premessa dell’impegno allegorico che caratterizzerà la futura poesia di Dante”[7]. L’accento batte sempre, difatti, sulla necessità di leggere la poesia (qui la poesia di cui è autore il protagonista della vicenda narrata) secondo una maniera particolare che l’esegeta si assume il compito di illuminare, in realtà per imporre al lettore un modo di leggere il testo, o per meglio dire, la verità. Diamo pertanto ragione al Singleton quando afferma che “questo capitolo non è un’enunciazione di allegoria, bensì della responsabilità che i poeti devono avere nei confronti della verità”[8]. La rivendicazione del commentatore che le poesie siano lette secondo un “verace intendimento”, conseguibile solo se il “dicitore per rima” sappia “aprire per prosa” le proprie poesie, conferma, con un atto di volontà attestato dal ripetersi di una parola chiave (“intendimento”), l'”altro intendimento” che la donna gentile nel cap. XVIII aveva ipotizzato contro l’ “altro parlare” del protagonista. L’Alighieri sta giustificando teoricamente il suo ruolo di commentatore, di cui la finzione ha bisogno per definire l’ambito in cui nuova finzione potrà essere prodotta. E difatti – già lo si è visto – il rapporto di subordinazione tra poesia e prosa è ripreso sistematicamente nel Convivio[9] dove le canzoni premesse ad ogni trattato (eccettuato il primo) sono sovraordinate al “comento” che, grazie ai quattro sensi d’interpretazione della poesia, consente al lettore di capirle a fondo, e non soltanto nel loro significato “litterale”.

Si deve comprendere che la finzione dell’opera, tanto nella Vita Nuova quanto nel Convivio, consiste proprio nell’affermazione d’un tale rapporto tra poesia e prosa, – testo e commento, come “per i testi sacri (ma anche per certi testi profani)” –[10], al quale corrisponde un analogo rapporto tra poeta e commentatore. Sarebbe gravissimo errore richiedere alla finzione dell’opera il contributo che spetta invece alla ricostruzione critica. Seguendo le indicazioni del commentatore della Vita Nuova e del Convivio, e intendendole come universalmente valide, si misconoscerebbe l’autonomia dei due campi della letteratura, e i due modi distinti di produrla; si finirebbe col richiedere ad ogni poeta di “aprire per prosa” le proprie poesie. In realtà nelle parole su citate, come in ogni brano di commento, accade qualcosa di molto più importante. L’esegeta, indirizzando secondo il suo proposito la lettura dell’opera, difende e scusa le mancanze dell’amante-poeta, mostra che fra lui e l’attore v’è affinità d’intenti, oltre che una comune natura autobiografica, che, insomma, si tratta pur sempre d’un medesimo personaggio, scisso soltanto per dar luogo alla finzione del “libello”. Da questo punto di vista, concordiamo con M. Corti quando con lucidità afferma a proposito del rapporto poesia-prosa del Convivio – che, ripetiamo, nel XXV cap. della Vita Nuova ha il suo antecedente più significativo -: “Sono allora due i canali di comunicazione del linguaggio amoroso applicato alla contemplazione filosofica, alla speculatio, quello della poesia e quello della prosa; solo correlandoli si colgono alcuni pertinenti segnali indispensabili a comporre il quadro dello sviluppo creativo dantesco dall’amore angelicato all'”amoroso uso di sapienza”, a interpretare quanto ci viene detto in Conv., I, I 16 sul rapporto fra Vita Nuova e Convivio: “non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella””[11]. Qualsiasi operazione critica tendente a mettere in evidenza quella correlazione, deve tener conto del gioco serrato della finzione dantesca in cui il rapporto poesia-prosa nasce e si sviluppa; solo cogliendo questo rapporto e comprendendone il significato, si riescono a tenere insieme i legami fittissimi con cui l’autore ha voluto unire saldamente Vita Nuova e Convivio.

Si noti come all’esaurirsi della fabula faccia riscontro l’espansione del commento. Il commentatore pone riparo allo smacco dell’attore e, dove questi è fallito, lì subentra con le parole di commento; a tal punto che la fabula narrata è stata interpretata come “mero velo, continuamente infatti violentato e franto, di una sostanza saggistica, modo di un discorso teorico”[12]. Il che, a nostro avviso, risponde a verità, sempre che non si perda di vista il complesso gioco della finzione, nella quale il commento e le “digressioni” hanno un ruolo direttamente dipendente dalla fabula narrata. Nell’Alighieri è presente un pensiero critico, ma sempre operante attraverso l’esegeta in funzione dell’opera, mai per darci indicazioni determinanti sul modo di leggerla. Pertanto non si deve dimenticare, nella ricostruzione critica del “libello”, il gioco della finzione dantesca, il cui asse portante è nel rapporto tra poeta e commentatore. In questa seconda parte dell’opera, più che nella prima, l’invasione del commento e delle “digressioni” – ancora tuttavia ben tenuta a freno -, deve essere considerata come la conseguenza diretta dello smacco dell’attore e della fine del movimento drammatico dell’opera. Il commento, in definitiva, non avanza le idee critiche dell’Alighieri, e non tenta mai di costituirsi come autonomo sistema di pensiero critico scisso dalla fabula, bensì ad essa fa riferimento, ed è anzi un elemento della finzione, essenziale all’equilibrio dell’opera.

La fabula langue ancora nel cap. XXVI (la gloria che Beatrice ha acquistato presso le genti) dove sono riportati e “aperti” i sonetti Tanto gentile e tanto onesta pare e Vede perfettamente onne salute; e langue nel capitolo XXVII in cui il poeta deve interrompere la composizione di una canzone (Sì lungiamente m’ha tenuto Amore) a causa della morte di Beatrice (cap. XXVIII) di cui è meglio non parlare[13]. La “legenda Sanctae Beatricis”, secondo la celebre definizione di A. Schiaffini [14], come già l’amante malato si prefigurava nel cap. XXIII (“di necessitade conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia”) presuppone la morte di Beatrice medesima; paradossalmente, ma in realtà proprio per l’eccesso a cui giunge la poesia della lode, la morte di Beatrice è strettamente connessa alla volontà del poeta di eludere qualsiasi riferimento alle passioni terrene che potrebbero macchiare la purezza della lode. Cosicché quella morte è l’evento atteso dal lettore che già abbia compreso la morte dell’amante. Come in una tragedia (“Dante non ha affatto una colpa morale, ma una colpa tragica“, ci ricorda la felicissima intuizione di L. Spitzer[15] ), la fabula della Vita Nuova ha la sua giusta e coerente conclusione con la morte degli amanti. E se la fabula continua a tacere è appunto per dire la loro morte.

Poeta e commentatore non possono tenere a lungo, e da soli, le fila del “libello”. Dal capitolo XXIX al capitolo XXXV le parole di commento in lode di Beatrice morta confermano la fine del movimento drammatico. Il commentatore si attarda a spiegare il significato del numero nove (XXIX) [16], mentre il narratore racconta d’avere scritto “a li principi de la terra” per riferire loro la condizione “di questa desolata cittade”, priva ormai di Beatrice (XXX, 1), elevando così “un fatto di cronaca spicciola ad evento degno della più alta segnalazione”[17]. “Che spasimante balzano, antidantesco è mai questo che alla morte della sua amica scrive ai signori del paese una lettera latina, si atteggia a profeta Geremia e comincia: “Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium?”[18], si chiede stranito il Vossler. Il narratore non riporta l’intera epistola latina “però che” – dice – “lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare”, così come aveva promesso a “questo mio primo amico”, il Cavalcanti (XXX, 2-3).

Nel cap. XXXI il poeta per “disfogare la mia tristizia”, scrive la canzone Li occhi dolenti per pietà del core a cui questa volta premette la partizione; ed è significativo che il “nuovo metodo” venga introdotto proprio a partire da questo punto della narrazione, a testimonianza del fatto che, mortificata la funzione dell’amante, rilievo acquista ora la funzione del commentatore [19].

Nel cap. XXXII il narratore riporta il sonetto Venite a intender li sospiri miei, scritto per

uno, lo quale secondo li gradi de l’amistade, è amico a me immediatamente dopo lo primo, e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l’era. E poi che fue meco a ragionare, mi pregoe ch’io li dovessi dire alcuna cosa per una donna che s’era morta, e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d’un’altra, la quale morta era certamente: onde io, accorgendomi che questi dicea solamente per questa benedetta, sì li dissi di fare ciò che mi domandava lo suo prego” (V.N. XXXII 1-2).

Perché questo secondo amico non dice chiaramente il nome di Beatrice? Perché “simula”? Anche in questo caso il narratore usa uno stile ellittico, fatto di differimenti, mediazioni, tanto che a ragione M. Apollonio definisce questo episodio un “altro gioco di schermi”[20]. “(…) Il pensiero è rivolto alla donna mediante un rapporto di amicizia, che, (…) vale come a velare il sentimento d’ amore”[21]. E si noti come anche questo personaggio, il fratello di Beatrice, non assurga a figura autonoma di significato, bensì sia semplicemente usato per il fine che il narratore si promette di conseguire; vediamo quale.

Il commentatore così divide il sonetto:

“ne la prima chiamo li fedeli d’Amore che mi intendano; ne la seconda narro de la mia misera condizione (V.N. XXXII, 4).

I fedeli d’Amore sono il destinatario dichiarato del sonetto, come anche delle due stanze di canzone che seguono, scritte per lo stesso amico, poiché “vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di questa gloriosa” (V.N. XXXIII, 1). Il poeta dunque approfitta della simulazione dell’amico per procrastinare il gioco cortese della prima parte della V.N., e comincia anche lui a “simulare”:

“E però, anzi ch’io li dessi questo soprascritto sonetto, sì dissi due stanzie d’una canzone, l’una per costui veracemente, e l’altra per me, avvegna che paia l’ una e l’altra per una persona detta, a chi non guarda sottilmente; ma chi sottilmente le mira vede bene che diverse persone parlano, acciò che l’una non chiama sua donna costei, e l’altra sì, come appare manifestamente. Questa canzone e questo soprascritto sonetto li diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l’ avea.” (V.N. XXXIII, 2-3)

Stando così le cose, i fedeli d’Amore che leggeranno le due stanze corrono il rischio di cadere in errore, se non le considereranno “sottilmente”, cioè razionalmente[22], poiché esse potrebbero sembrare, anzi sembrano[23] “per una persona” dette. La verità è che, “chi sottilmente le mira”, comprende che “altro” è lo scopo del poeta, e cioè, coerentemente con lo “stilo de la loda”, quello di celebrare la “…spirital bellezza grande,/ che per lo cielo spande/ luce d’ amor…”

I fedeli d’Amore intenderanno sonetto e stanze come esprimenti un dolore fraterno, di colui, cioè, per cui il poeta “solo fatto l’avea”. Ma il lettore della V.N. sa, non perché sia “sottile”, ma perché è avvertito dal commentatore, che il poeta, volgendo a suo vantaggio la simulazione dell’amico-committente, ha scritto versi in cui “due persone si lamentano, l’una de le quali si lamenta come frate, l’altra come servo, naturalmente d’Amore. Certo è che ancora una volta i fedeli d’Amore sono destinati dal gioco della finzione dantesca a fraintendere la poesia del poeta-amante. Per riassumere, il poeta sta al gioco del suo interlocutore, gli fornisce sonetto e stanze, celebra per conto dell’amico la donna amata, ma lascia uno spazio per sé, senza dir nulla a nessuno, per la sua esclusiva celebrazione di Beatrice; e tutto questo il narratore lo spiega solo ora, nella prosa della V.N. . Chi, conoscendo la genesi del “libello” qui narrata, potrebbe imputargli qualche colpa? Semmai stolto fu chi non seppe leggere la poesia “sottilmente”!

Da quanto si è detto, risulta chiaro che la funzione del commentatore è necessaria al fine di apprendere l’intenzione del narratore che in definitiva è la vera anima della finzione dantesca.

Nel cap. XXXIV il narratore racconta che, mentre era intento a disegnare “uno angelo sopra certe tavolette”, “volsi li occhi, e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore. E’ riguardavano quello che io facea…” (V.N. XXXIV, 1-2).

A costoro che scuotono dallo stato catatonico-contemplativo l’addolorato poeta, questi scrive un sonetto con due cominciamenti (ma uguale è il primo verso: Era venuta ne la mente mia), in cui si continua la celebrazione di Beatrice trasfigurata.

Insomma, tutto conferma la fine del movimento drammatico dell’opera. Una vicenda che ci si è sforzati di mostrare come divina si è ormai conclusa; ma in una forma tutta condizionata dalla volontà del narratore di escludere dalla pagina l’amante, e di privilegiare il ruolo del poeta e del commentatore. Morta Beatrice, l’amante non solo ha perso l’oggetto del suo amore, ma anche, e ora in modo pressoché definitivo, la sua funzione. “Quale amore, anche il più  disinteressato, può sopravvivere a una privazione del genere?”[24]. Né il poeta e il commentatore possono sostituire a lungo l’amante. “E l’operazione poetica di Dante non può che indugiare, adesso, alle soglie di una perpetua ripetizione: cristallizzata l’immagine amorosa, assunta la donna “in loco degno”, come “spirital bellezza grande”, ogni sviluppo è impedito, la dialettica del “libello” è spenta”[25]. Ciò è vero in relazione all’intreccio principale della Vita Nuova, nel quale il narratore aveva contratto l’obbligo col lettore di raccontare le vicende dell’amante-poeta; il lettore, cioè, si chiede qual sia il destino del protagonista, ed è compito del narratore rispondere a questa domanda. Per dirla con M. Guglielminetti, “il destino di Dante, in altri termini, è di nuovo in gioco” [26].


Note


[1] Charles S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 95-96.

[2] Cfr. il commento di D. De Robertis, Vita Nuova, cit., ad locum.

[3] Idem, ibidem.

[4] Sulla mancanza di “prospettiva critica” di Dante nel cap. XXV della Vita Nuova, cfr. A. Vallone, Vita Nuova XXV e la cultura di Dante, in Ricerche Dantesche, cit., p. 81,  poi in Dante, cit., pp. 105-109; la citazione è a p. 107.

[5] Scrive il Singleton, La poesia della Divina Commedia, cir., p. 98: “Il capitolo XXV della Vita Nuova elimina il dio trovatorico”.

[6] E. Trevi, Amore, figura e intendimento. Osservazioni sull’allegoria in Cavalcanti e nella Vita Nuova, cit., p. 157.

[7] F. Tateo, “Aprire per prosa”, in Questioni di poetica dantesca, Bari 1972, pp. 70-71. Alla stessa conclusione, sembra giungere M. Marti, “…L’ una appresso de l’altra maraviglia”, cit., p. 496: “L’apertura per prosa dei componimenti poetici a bella posta trascelti da Dante per la costruzione della Vita Nuova, e a suo tempo composti nell’ottica di una luce diversa, ha la continua funzione di filtro metamorfico (…), attraverso il quale eventi letterari originariamente anche realistici, o autobiografici, o biografici, o storico-culturali, vengono insigniti di un valore che va al di là delle parvenze, e collocati più o meno armoniosamente nel quadro generale di una narrazione che gioca a tutto campo tra immanenza e trascendenza, tra realtà e simbolo, tra storia e allegoria”. Cfr. infine Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 90: “(…) nell’operetta giovanile “fervida e passionata” (Convivio, I, I 16) l’allegoria è a parer nostro ancora in fase aurorale, per ciò il simbolizzato si configura abbastanza generico (…)”.

[8] Charles S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, cit., p. 97. Ricordiamo che, secondo il critico “la Vita Nuova non è un’allegoria. Il “libello” dantesca è pieno di simbolismo e di analogia mistica, ma simbolo e analogia non sono allegoria” (p. 96).

[9] Cfr. C. Grayson, Dante e la prosa volgare, cit., pp. 56-57 ed anche A. Vallone, La prosa della “Vita Nuova”, cit., pp. 26-33, poi in Dante, cit., pp. 79-80.

[10] M. Picone, Rito e narratio nella Vita Nuova, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca,cit., p. 142.

[11] Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 73. Dall’analisi di questa correlazione nel Convivio la Corti ottiene ottimi risultati laddove distingue il “filone aristotelico figurato dell’ amore filosofico” che agisce nella prosa dei trattati II  III, dal “filone mistico” che “predomina a livello delle due canzoni” (ibidem, p. 87 e passim).

[12] E. Sanguineti, Prefazione alla “Vita Nuova“, cit., p. 11, poi in Dante reazionario, cit., p. 5. Cfr. anche il commento di D. De Robertis, Vita Nuova, ad locum, secondo cui il capitolo in questione “vale non solo come interpretazione del parlar poetico per metafore, ma come “poetica” dello stesso libro”.

[13] Per i motivi che inducono il narratore a non parlare della morte di Beatrice rimandiamo al testo (V.N. XXVIII, 2) ed al commento di C. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova“, cit., pp. 45-48.

[14] A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, cit., pp. 91-94.

[15] L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, cit., p. 121.

[16] In proposito si legga B. Martinelli, L’ ora di Beatrice. Genesi del simbolismo numerico della Vita Nuova, in “Critica letteraria”, (1995), 86-87, pp. 29-67. A p. 64 leggiamo: “Che il rito dell’ora nona sia una escogitazione dantesca, introdotta successivamente al momento di articolare il “libello” per dare coerenza e significatività al tracciato romanzesco e biografico, è cosa che non mi pare possa essere messa in discussioni, dal momento che la traccia non sussiste assolutamente nella compagine dei testi poetici”.

[17] G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 276.

[18] K. Vossler, La Divina Commedia, III, La genesi letteraria, cit., p. 121. Nella stessa pagina così il critico commenta “le allusioni bibliche”: “(…) particolarmente nella Vita Nuova le allusioni bibliche non fanno buona impressione, appaiono mancanze di gusto, ornamenti sdolcinati. Stanno, entro lo stile di Dante, come un altro stile, straniero”. Cfr. invece A. Vallone, Dante, cit., p. 45, secondo cui “il ricorso ad un versetto delle lamentazioni di Geremia (I 12), con che si dà inizio al sonetto

O voi che per la via d’ Amor passate

attendete e guardate

s’elli è dolore alcun, quanto ‘l mio, grave

è un modo di dare cittadinanza letteraria e retorica alla propria materia; ma anche un tentativo, qui e altrove, di rispettare o atteggiare al sacro la propria vicenda interiore”.

[19] Cfr. S. Accardo, Morte di Beatrice e trasfigurazione (XXVIII-XLII), in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit., p. 84.

[20] Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 380.

[21] Idem, ibidem, p. 86.

[22] In Conv., IV, II 13 leggiamo la definizione dell’ aggettivo “sottile”: “(…) e dice “sottile” quanto alla sentenza delle parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono”. Il pensiero naturalmente va al De vulgari eloquentia (I, X, 2) in cui Dante definisce l’esperienza stilnovistica con due avverbi poetari dulcius  subtiliusque. Scrive in proposito M. Corti, Percorsi dell’invenzione, cit., p. 103: “I due avverbi esprimono come meglio non si potrebbe la poetica dello Stilnovo, riferendosi ai temi e motivi di tradizione lirico-mistica (dulcius) e razionale (subtilius, che rievoca la sottigliansa attribuita da Bonagiunta alla complessa elaborazione concettuale e filosofica dei testi poetici bolognesi)”. 

[23] S. Accardo, Morte di Beatrice e trasfigurazione (XXVIII-XLII), in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit , p. 87.

[24] C. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova”, cit., p. 129.

[25] E. Sanguineti, Prefazione alla “Vita Nuova“, cit., p. 45, ora in Dante reazionario, cit., p. 31.

[26] M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit., p. 65.

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