A settembre scorso, Giorgia Meloni, nel suo intervento all’assemblea generale di Confindustria, ha sottolineato che “il Sud nel 2023 è stato la locomotiva economica d’Italia, non il fanalino di coda”, attribuendo al suo Governo il merito di questo risultato. L’evidenza empirica suggerisce, tuttavia, un’interpretazione in larga misura diversa da quella proposta dalla Presidente del Consiglio, per due ragioni:
1) Banca d’Italia registra che la crescita dell’economia meridionale, e la tendenza a un leggero recupero della convergenza con quella del resto del Paese, si è determinata a partire dal 2019, fino al 2023. A fronte di una crescita dell’economia del Centro-Nord del 3.3%, quella del Sud ha fatto registrare incrementi del Pil pari al 3.7%. Si è trattato, quindi, di una dinamica indipendente dall’azione di questo Governo, perché precedente al suo insediamento (ottobre 2022). La convergenza è stata di entità molto lieve ed è verosimilmente da attribuire agli aumenti eccezionali di spesa pubblica nella fase della crisi pandemica: aumenti – ci si riferisce, soprattutto, al Reddito di Cittadinanza – dei quali hanno beneficiato soprattutto le regioni più povere del Paese, soprattutto, nel primo caso, per la maggiore numerosità di famiglie povere residenti. Vi è, inoltre, da considerare l’effetto statistico sulla dinamica congiunturale della convergenza derivante dal rallentamento delle economie delle aree più sviluppate del Paese – maggiormente sincronizzate con il ciclo economico tedesco – a ragione della recessione della Germania e, dunque, del calo degli ordinativi per le produzioni intermedie italiane, realizzate, in larga misura, nelle regioni del Nord.
2) Il Mezzogiorno ha sperimentato un aumento dell’occupazione (il tasso di disoccupazione si è ridotto del 3.6%), ma, al tempo stesso, un suo peggioramento qualitativo. È vero quanto il Governo, sostiene, e cioè che, nell’ultimo biennio, il numero di occupati al Sud è aumentato, ma è anche vero che l’aumento è stato quantitativamente più consistente nel Centro-Nord (con un incremento di 219.000 unità) e soprattutto si è trattato di lavori di bassa qualità. Lo dimostrano le ultime rilevazioni ISTAT sull’aumento, negli ultimi anni, dell’economia sommersa. Lo si rileva dal fatto che gli infortuni sul lavoro sono in aumento (circa l’1% dallo scorso anno). Lo dimostra, inoltre, il dato per il quale, nel Mezzogiorno, i maggiori incrementi occupazionali si registrano nel settore della ristorazione e che le migrazioni intellettuali (già nella fase dell’iscrizione all’Università) sono in continuo aumento, generando – secondo SVIMEZ (2023) – una perdita netta di oltre il 20% della popolazione universitaria nelle sedi meridionali (https://lnx.svimez.info/svimez/lemigrazione-universitaria-penalizza-il-mezzogiorno/).
L’espansione del lavoro povero è soprattutto il risultato di una specializzazione produttiva – quella meridionale – largamente basata su settori a basso valore aggiunto e sulla prevalenza di imprese di piccole dimensioni, che, data la scala dimensionale, non possono sfruttare economie di scala.
Desta preoccupazione, in particolare, nella Legge di Bilancio 2025, il ripristino del blocco delle assunzioni (al 75%) negli Enti locali. Si tratta di una misura irragionevole e in evidente conflitto con gli obiettivi dichiarati, per queste ragioni. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica non è neutrale sul piano territoriale, come è stato ampiamente dimostrato dall’esperienza fatta negli anni Dieci, dal momento che danneggia soprattutto le aree – il Mezzogiorno, in particolare – popolate da imprese poco esposte alla concorrenza internazionale, comprimendo la domanda interna. In più, occorre considerare che la nostra P.A. (soprattutto al Sud) è già notevolmente sottodimensionata per numerosità di dipendenti in rapporto alla popolazione, occupa lavoratori con età media elevata (circa 60 anni), basso titolo di studio, basse retribuzioni (si veda L. Aimone Giglio e altri, Il personale negli enti territoriali. Il Mezzogiorno nel confronto con il centro nord, Banca d’Italia – Occasional Paper, 2022). Questa misura rende, inoltre, palesemente più difficile realizzare nei tempi dovuti e con efficacia, gli obiettivi previsti per il PNRR e gestire la transizione digitale (in considerazione, appunto, dell’elevata età media dei dipendenti pubblici) e aggiunge due ulteriori problemi a quelli già esistenti in merito alla dinamica dei divari regionali:
a) Obbliga, dal 2027, gli Enti locali a reperire risorse aggiuntive per finanziare la riduzione del numero di aliquote fiscali per le addizionali locali (che si ridurranno da 4 a 3). L’effetto prevedibile consiste in un’ulteriore riduzione, quantitativa e qualitativa, della fornitura di servizi pubblici locali, soprattutto da parte di quelle Istituzioni – in particolare, nel Mezzogiorno – localizzate in territori con basso reddito e, dunque, con basso gettito fiscale.
b) L’ultima rilevazione ISTAT sull’economia sommersa (ottobre 2024) stima un aumento del lavoro non dichiarato, fra il 2021 e il 2022, del 9.6%, con una forte concentrazione, in particolare, nel settore della ristorazione (con un incremento, su base annua, del 18.5%) e ne certifica la maggiore diffusione nelle aree più povere del Paese. A fronte di questa evidenza, la Legge di Stabilità riduce i finanziamenti con la massima incidenza soprattutto all’ispettorato nazionale sul lavoro, cioè proprio al principale strumento di cui lo Stato dispone per contrastare il lavoro nero, in una condizione nella quale l’Ispettorato sconta già una rilevante carenza di personale.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 31 ottobre 2024]