di Antonio Devicienti
Talvolta compio una sorta di esercizio mentale: da Salentino e Mediterraneo, nato e da sempre immerso nella luce meridiana, mi sforzo di capire (o d’immaginare) le sensazioni e i pensieri di chi, figlio del Nord, giunge a Sud delle Alpi.
Sono germanista di formazione accademica e ho familiarità con i testi di chi, fin dal Settecento, intraprendeva il grand tour dell’Italia; io stesso, meridionale, sono letteralmente affascinato dai paesaggi e dalle architetture che si vedono attraversando la Germania fino ad arrivare a due mari completamente diversi dal “mio” (il Mar del Nord e il mar Baltico). Si tratta, forse, di una sorta d’attrazione per il polo opposto.
Ebbene, a parte l’innegabile e riconosciuta maestria di Wiliam Turner, negli acquerelli che dipinse durante e dopo il suo viaggio in Italia c’è una trasparenza che non è soltanto luce e sublime tocco del pennello insieme con il sapientissimo dosaggio delle mescole, ma metamorfosi dello sguardo in un tutto che, azzurrità e serena lontananza, pulsa vivente materia.
Castel dell’Ovo fluttua, isola dell’immaginazione e della visione, nell’ampiezza del Golfo e Capri si profila, maravigliante riflesso di nuvole, mare, spazio, lontananza, respiro, musica.
L’acquerello è del 1819 – Turner lascia l’Italia l’anno dopo, ci vorranno ancora tredici anni perché Giacomo Leopardi venga a Napoli: che cosa si sarebbero detti il sublime pittore inglese e il sublime poeta e filosofo italiano scendendo insieme dalla Via di Chiaia per raggiungere Castel dell’Ovo?