Alla morte, si trasformano le vite in un destino (lo diceva Febvre per Lutero) e torsi in mezzibusti (stavolta, è Carlo Ginzburg sulla narrazione storica di Zemon Davis). Bisognerebbe evitarlo, ma non è facile sfuggire alla tentazione di leggere nella biografia di Eric Hazan tutti i segni del contropelo della grande storia del Novecento. Nato a Parigi nel 1936, i genitori erano entrambi usciti dalla diaspora ebraica: la madre era di origine rumena ma nata in Palestina, il padre invece era egiziano. E quest’ultimo sviluppò la sua industria prima nel settore nello zucchero, poi nell’editoria d’arte: ma da grande parvenu mai integrato nell’élite, il padre editore non concesse all’inquieto figlio il privilegio di studiare la storia. Sarebbe stato meglio fare medicina; così fu, e Eric Hazan divenne chirurgo cardiovascolare e pediatrico.
Ma erano gli anni Sessanta e Settanta, e il medico si impegnò, da politico, affianco alla rivoluzione anticoloniale algerina del Fronte di Liberazione Nazionale – linea di faglia, questa, fondatrice per la Francia contemporanea, perché l’estrema destra della dinastia dei Le Pen fuoriesce proprio dalla reazione contro quel processo rivoluzionario. E negli anni Settanta, dopo aver praticato i primi aborti clandestini, Eric è invece in prima linea come medico in Libano durante la guerra. È difficile immaginare un osservatorio migliore per sviluppare un pensiero anticolonialista, e attento al Medio Oriente e ai suoi conflitti: sostenne la lotta palestinese da ebreo, convinto di una soluzione di uno Stato binazionale, e oggetto più e più volte di accuse di antisemitismo.
A 47 anni, abbandona il mestiere di medico e riprende la «fabbrica» di famiglia, la casa editrice Hazan.. Ma la svolta avviene negli anni Novanta, con la fondazione della casa editrice La Fabrique. Contrariamente a chi aveva creduto che la caduta del muro fosse la pietra tombale sull’alternativa al capitalismo, la casa editrice parigina di Hazan divenne il binario su cui ripensare le categorie della critica, non orfana ma libera dalle case-madri partitiche e di fazione, aperta a tutte le incursioni più radicali e finanche urticanti.
Nel 2007, viene pubblicato L’insurrection qui vient, un piccolo libretto scritto da un collettivo anonimo che si chiama Comité invisible. Il testo è una diagnosi critica, ma con stile apodittico e suggestivo, del disastro sociale creato dal capitalismo, e indica l’insurrezione come via d’uscita privilegiata. Il modello di lotta sociale indicato è quello sviluppato nelle banlieus parigine nel 2005. L’opera è coltissima: l’analisi sociale è divisa in «gironi», in analogia con quelli della Divina Commedia, a significare l’inferno che viviamo. L’anno dopo, alcune persone che vengono legate al Comité sono arrestate nel quadro di un’inchiesta sul sabotaggio delle linee di alta velocità (Tgv); secondo il teorema dei giudici, sono un gruppo terroristico organizzato. Ancora peggio del teorema Calogero, che il 7 aprile del 1979 mandò in galera decine di militante dell’area dell’Autonomia operaia, anche l’affaire di Tarnac finisce in un nulla di fatto: tutti assolti. Ma il libro è un successo spettacolare, la casa editrice conquista la une e diventa cruciale nel dibattito culturale della sinistra radicale francese, peraltro sempre più frammentata.
A squadernare il catalogo, l’elemento che colpisce di più è la capacità dell’editore Hazan di stare continuamente in posizione aggressiva rispetto all’attualità, senza rinunciare alla profondità della grande tradizione, non solo (e non tanto) materialista. Tutti i nomi del marxismo eterodosso sono lì, ma in grande compagnia: Alain Badiou, Antonin Bernanos, Judith Butler, Eric Fassin, Frédéric Lordon, Jacques Rancière, Edward Saïd, Françoise Vergès, Slavoj Žižek. Senza rinunciare a progetti ambiziosissimi. Nel 2013, un volume di più di 1.000 pagine esce sugli scaffali francesi: è la traduzione del Baudelaire di Walter Benjamin (la prima edizione è italiana e dell’anno precedente), un progetto di ricerca e di libro imponente che tutti pensavano abbandonato per ragioni materiali e sotto la sferza dei rapporti difficili con Adorno. E invece, le foto di Walter Benjamin chino sulle schedine della Biblioteca Nazionale di Francia avevano prodotto un materiale enorme, fatto di note e di appunti, che Benjamin affidò a George Bataille prima della partenza da Parigi nel 1940 che l’avrebbe condotto verso la tragica fine. Il saggio su Baudelaire doveva essere un incunabolo del volume su Parigi che oggi leggiamo con il titolo di Passages e che consiste in una massa multiforme di testi e immagini tutte organizzate a fare della città-capitale francese il cuore pulsante della modernità capitalista dell’Ottocento e la sua messa in forma urbana. Di questo progetto, Baudelaire rappresentava in qualche maniera il doppio «lirico»: negli appunti, la sua poesia diventa la forma che permette la piena leggibilità degli attori sociali di questa modernità, il flâneur, la prostituta, lo spleen, la folla, e questi antesignani dei centri commerciali noti, appunti, come passages.
Baudelaire, Benjamin, Parigi: è la triade che può spiegare il ruolo di detonatore che Eric Hazan ha voluto mantenere nel panorama culturale francese. Da un certo punto di vista, Hazan ha concretizzato come editore il progetto incompiuto di Benjamin. Nei Passages viene accarezzata e definita un’idea di conoscenza come percezione e intuizione fulminea; il modello di questa esperienza conoscitiva è il flâneur, colui che passeggia e si perde nei contesti cittadini, e che è «licantropo inquieto che vaga nella selva sociale». La metropoli dell’Ottocento si offre al passeggiatore come un puzzle di luci, pubblicità, informazione da decifrare; perdersi nella città significa esporsi al continuo choc della novità: si rimane sognanti, si mantiene l’attenzione. I passaggi coperti di Parigi, con i suoi negozi e i suoi manifesti e le sue luci, si appoggiano su questa promessa continua di «nuovi prodotti» che invecchiano immediatamente per la concorrenza, e l’esperienza di questa attenzione sognante è, per Benjamin, quella della leggibilità del Capitale. Hazan ha ostinatamente mantenuto, nel suo programma culturale-editoriale, quest’idea doppia, di un mondo fantasmagorico che va letto, compreso, e che possiede in sé stesso un potenziale emancipativo e liberatorio. Una forma di materialismo gnoseologico in forma di catalogo.
Una specola di questo programma è nel più importante libro di Hazan, L’invention de Paris, uscito nel 2002 e diventato un vero best-seller. Tutti gli altri libri di Hazan sono, in qualche maniera, la riscrittura e lo sviluppo di questa enciclopedia della deambulazione benjaminiana per le strade di Parigi. Il flâneur ha bisogno di una guida nella città sempre più sotto la presa della gentrificazione. Hazan ci prende per mano insegnandoci a riconoscere, attraverso la fantasmagoria neoliberale che trasforma tutto in un omogeneizzato urbano, l’impronta della storia. Passeggiare significa conoscere i limiti. Per Parigi, i limiti sono le cinte murarie continuamente sfondate dal popolamento, dalle mura di Filippo Augusto e Carlo V alle ultime tracce di muraglia conservate all’altezza della Piazza della Bastiglia, dove nulla resta di una prigione buttata giù; passeggiare attraverso i limiti significa riconoscere la cinta dei quartieri, poi dei mitici faubourgs popolari e infine delle municipalità finalmente inglobate nel confine cittadino.
Non si tratta solo, però, di riconoscere le informazioni da guida turistica, che vedono nei nomi delle anguste strade del Quartiere Latino – l’Estrapade, la Contrescarpe, la rue des Fossés-Saint-Jacques – i resti della costruzione duecentesca di Filippo Augusto che stringeva il primo e più importante quartiere studentesco d’Europa. La Parigi di Hazan realizza il programma benjaminiano di una storia dei vinti laddove inciampa continuamente nel conflitto sanguinoso che ha visto la città non teatro ma protagonista di una stagione rivoluzionaria che dal 1789 prosegue attraverso i moti del 1830 e poi soprattutto nelle sanguinose giornate del giugno del 1848. Come aveva ben visto Blanqui, eroe di un socialismo insurrezionale e clandestino, le giornate rivoluzionarie del 1848 «si piangono come la madre che reclama il cadavere del figlio». La rivoluzione spaccò Parigi in due parti: dalla porta St. Denis la rivolta dilagò fino al triangolo dell’Arsenale (il vecchio porto commerciale), invase il sagrato di Notre Dame e si installò sulla bellissima rue de Charenton e nel sobborgo di St. Antoine, dietro la Bastiglia. La rivolta seguì un itinerario fatto di barricate, il simbolo vero e proprio della rivoluzione di giugno: la fortificazione volante, costruita con mezzi di fortuna, che permetteva lo sviluppo della guerriglia urbana e proteggeva gli insorti dall’assedio militare, spesso soverchiante in termini numerici. Ma seguendo l’itinerario delle fortificazioni del giugno, si vede come la resistenza degli insorti si giocava negli spazi dove la nuova popolazione operaia che aveva cominciato a popolare sempre di più la Parigi della monarchia di Luglio (dal 1830): le osterie e i luoghi di ritrovo e di aggregazione politica. Se il centro di gravità rimaneva il potere – e quindi il municipio, l’Hotel de Ville – la Parigi rossa e resistente si spostava a nord-est, creando una nuova geografia sociale.
Haussmann era consapevole della potenza di fuoco della resistenza sociale, e il progetto urbanistico di risistemazione dei grandi assi parigini mostra la cattiva coscienza di chi ha paura degli insorti. A Parigi si passeggia sulle macerie, si calpestano i vinti. La rivoluzione del 1789 aveva promesso un’emancipazione che metteva a braccetto borghesia e popolo. Il giugno del 1848 segna à jamais il divorzio da quell’unione, e il panorama si comincia a popolare dell’odio dei ricchi per questa massa di diseredati che salgono sulle fortificazioni e si difendono per giorni, alla Bastiglia, dalla violenza dei gendarmi. Bestie feroci, barbari: la plebe parigina diventa spaventosa per Balzac, Lamartine, Tocqueville, Dumas, Berlioz, Delacroix. Il disgusto porta i ricchi a spostarsi sempre di più verso nord-ovest, e i vecchi quartieri medievali si svuotano della mixité.
La barricata serve per difendersi: lo sapeva Blanqui, ne era consapevole Hazan. Ma è una scintilla che ricompare a ogni tornante della storia. Quelle della Comune del 1871 furono ancora più violente, ma la traccia di sangue del 1848 è, secondo Hazan, la più conflittuale, e irrisolvibile. Victor Hugo, che vi assistette dalla parte dei legalisti, ne fece i conti tutta la vita, e cercò di far rientrare quella ferita all’interno di un discorso consensuale che fu a lungo in bocca ai socialisti e democratici. Ma è una «furfanteria» per Hazan, perché nel 1871 quegli stessi socialisti erano a Versailles e sostennero il bagno di sangue degli insorti. Quando il 10 maggio 1968 i rivoltosi del ’68 di rue Gay-Lussac, dietro la Sorbona, iniziarono a strappare i pavé e a ricostruire le barricate, non volevano prendere il potere, dice Hazan; era un tentativo deliberato e sperimentale di sbrogliare i meccanismi di dominio facendo risorgere dal suolo il fantasma della rivoluzione.
Hazan sapeva che il suo era un ruolo di passeur. Anche nelle città più normalizzate, nella Napoli di Airb’n’b e nella Parigi dei Giochi Olimpici e nei quartieri dove i ristoranti cambiano gestione e luci ogni sei mesi, i fantasmi della lotta sociale reclamano il diritto alla memoria. Passeggiare, pubblicare, significa non perdere mai di vista la ricerca delle tracce evanescenti dello spettro e del conflitto nelle narrazioni furfantesche e nelle fantasmagorie neoliberali.
[“Jacobin Italia” dell’8 giugno 2024]