“Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov’io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo “Amore, aiuta lo tuo fedele”, m’addormentai come un pargoletto battuto lagrimando.” (V.N. XII, 1-2)
L’amante si allontana dalle “genti”, dapprima “in solinga parte” per dare sfogo alle lagrime, poi in uno spazio privato già incontrato in V.N. III, 2, “lo solingo luogo d’una mia camera”, dove può, indisturbato, piangere e lamentarsi, e invocare Amore. E Amore per la terza volta gli appare, in sogno[2], nelle sembianze di un “giovane vestito di bianchissime vestimenta”, che piange “pietosamente” sulla condizione dell’amante e parla oscuramente, e in latino (“Fili mi, tempus est ut praetermictantur simulacra nostra”), tanto che l’amante non lo comprende[3]. Gli dà poi questo consiglio:
“…voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che li le dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontade, la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati”. (V.N. XII, 7)
Amore invita il poeta a scrivere “parole per rima” nelle quali Amore stesso testimoni la sua “forza” sopra l’amante, perché alla fine Beatrice sappia la verità, ed aggiunge:
“Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e no lo mandare in parte, sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che sarà mestiere.” (V.N. XII, 8)
Amore suggerisce qui una nuova strategia, e “la necessità di una metamorfosi”[4] dell’amante. Difatti, se per celebrare Beatrice dapprima era sufficiente la poesia per le donne schermo, ora, una volta che questo espediente si è ritorto contro lo stesso amante (Beatrice, difatti, gli nega il saluto), Amore consiglia di affidare alla poesia l’incarico di raggiungere Madonna. La tecnica è quella della “prosopopeia”[5], il cui impiego, di solito relegato nell’ultima strofe, è qui esteso a tutta la ballata; il poeta esorta la ballata (“una furberia da avvocato” che “ha la semplice funzione di interprete, di intermediario, di negoziatore” dice L. Spitzer[6]), a recarsi in compagnia di Amore da Madonna per ristabilire la verità, e per “scusare” (l’esconding della tradizione provenzale) l’amante ingiustamente calunniato: “Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore / e con lui vade a Madonna davante / sì che la scusa mia, la qual tu cante, / ragioni poi con lei lo mio segnore.”
Nel capitolo XIII il narratore riporta i quattro “pensamenti” riguardanti Amore, che il poeta riassume nel sonetto Tutti li miei penser parlan d’Amore. I quattro “pensamenti” tolgono all’amante “lo riposo de la vita” sicché egli si trova “in amorosa erranza” e non gli rimane altro che “chiamare mia nemica,/ madonna la Pietà, che mi difenda.” (vv.13-14)
La fabula sembra qui costretta ad una sosta forzata: evidentemente l’autore intende darci particolareggiate notizie sullo stato d’animo del personaggio. La ripresa della fabula avviene con un episodio che mette in crisi la funzione narrativa dell’amante. Questi, in compagnia di una “persona la quale uno suo amico a l’estremitade de la vita condotto avea”, si reca in casa di un terzo comune amico per festeggiarne il matrimonio:
“E lo vero è che
[le donne gentili] adunate quivi erano a la compagnia d’una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo.” (V.N. XIV, 3)
L’amante va a festeggiare lo sposo e a servire la sposa, e le donne che intorno a lei si sono adunate. Avviene qui la “trasfigurazione”[7] dell’amante:
“E nel fine del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice.” (V.N. XIV, 4)
Gli occhi non hanno ancora visto l’immagine di Beatrice, che già il cuore ne avverte la presenza e la comunica a tutto il corpo. L’amante incomincia a tremare, si nasconde perché ha paura che qualcuno se ne accorga; infine leva gli occhi che gli confermano la presenza dell’amata. Il “tremare” dell’ amante annuncia che il suo corpo sta trasfigurandosi:
“Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo, per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: “Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la meraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari.” (V.N. XIV, 5-6)
È certamente il momento più cavalcantiano dell’intero “libello”. Gli spiriti animatori del corpo dell’amante vengono meno non appena avvertono la presenza di Beatrice, soccombono all’irresistibile potenza di Amore, che non lascia neppure agli “spiritelli” della vista la facoltà di godere della visione celeste: “un fenomeno che” – ricorda G. Favati – “non rimarrà chiuso nelle pagine della Vita Nuova“[8]. L’amante è qui già trasfigurato, egli è “altro che prima”, o, come dice all’amico (“(e si pensa al Cavalcanti, quantunque sia meglio lasciare alla prosa quel vago incanto dell’indeterminato)”[9], suggerisce A. Vallone), che lo conduce lontano dalle donne che lo gabbano[10], egli è stato l’attore d’un evento che trascende l’umana esperienza:
“Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”. (V.N. XIV, 8)
La presenza di Beatrice ha causato una morte temporanea del corpo dell’amante[11], spiegabile col fatto che l’amore necessita della continua negazione (dunque, della sublimazione) d’ogni passione terrena; qualsiasi riferimento, come dice A. Asor Rosa, alle “dinamiche corporali”[12] deve essere bandito, a meno che non sia funzionale all’azione, come in questo caso. Delle “dinamiche corporali” qui si parla appunto per negarle; ma attenzione: nell’evolvere della vicenda, ciò comporta la morte dell’amante, la soppressione, cioè, della sua funzione narrativa, in quanto il racconto della trasfigurazione altro non vuol significare che il tentativo dello scrittore di eliminare dalla pagina ogni istanza che risponda alle sollecitazioni dell’amante. Prima dell’episodio della morte di Beatrice, noi leggiamo nel capitolo XIV l’episodio della morte dell’amante, non meno importante per lo sviluppo della fabula della Vita Nuova. A contrastare la drammaticità dell’evento, ma tuttavia coerenti col proposito del narratore di fiaccare la funzione narrativa dell’amante, le donne gentili, dinanzi a lui, “si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima” (V.N. XIV, 7). La scena, “con la sua violenza scontrosa” d’un realismo senza precedenti[13], indica bene qual sia, a questo stadio della finzione, il rapporto tra il poeta-amante e Beatrice. S’intenda bene: Beatrice è qui il nucleo intorno al quale ruota il mondo stilnovistico-cortese[14] delle donne gentili, è l’amata, e quindi anche il destinatario privilegiato della poesia, raggiunto finora attraverso strategie improprie e indirette, consigliate peraltro da Amore. Ebbene, le donne gentili con Beatrice “gabbano” l’amante, svuotando d’ogni drammaticità la sua funzione, insomma, non gli accordano credito, e lo rimandano nel chiuso del suo spazio privato, che ormai ci è divenuto familiare. Separatosi dall’amico, l’amante ritorna
“ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: “Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe”. (V.N. XIV, 9)
Per la terza volta seguiamo l’amante afflitto nel suo rifugio (“la mia camera”) e assistiamo al suo pianto mentre è lontano da tutti. La vergogna dell’amante è nell’umiliazione subita e nell’amara consapevolezza che dopo il fallimento delle strategie indirette suggerite da Amore (la poesia per le donne schermo, l’invio di Ballata a Beatrice), neppure è valso incontrare direttamente Beatrice. L’amante, difatti, dinanzi a lei non è padrone del proprio corpo, non riesce a reggere la sua presenza, è condotto via dall’amico. Il poeta allora ha cura, essendo salva la sua funzione, di riallacciare i legami con il proprio destinatario, Beatrice; e quanto più prima ella è stato raggiunta per vie tortuose e a seguito di varie procrastinazioni, tanto più ora è apostrofata senza altra mediazione, direttamente. I sonetti Con l’altre donne mia vista gabbate (cap. XIV), Ciò che m’incontra ne la mente more (cap. XV), e Spesse fiate vegnomi alla mente (cap. XVI), sono gli unici della Vita Nuova nei quali il poeta si rivolge a Beatrice, e le racconta come a destinatario privilegiato e finalmente reso esplicito, gli effetti sconvolgenti che provoca in lui la visione dell’amata ed il “gabbo” di lei e delle donne gentili.
La fabula nei capitoli XV e XVI langue, a conferma che un importante risultato già è stato raggiunto: l’amante sopravvive ormai soltanto perché il poeta insiste a dirci i suoi tormenti d’amore. E al poeta si affianca il commentatore che “divide” in “parti” le poesie. In verità l’amante non ha più forza narrativa propria, non agisce più. Lo sa bene l’attento narratore che nel capitolo XVII tira le prime fila dell’opera:
“Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la dicerò, quanto potrò più brevemente.” (V.N. XVII, 1-2)
Il poeta ha assolto al suo compito: ha confessato direttamente a Beatrice le sue pene d’amore. D’ora in avanti non parlerà più a Beatrice e prenderà “matera nuova e più nobile che la passata”. C’è qui l’ammissione e il riconoscimento che l’esperienza passata aveva in sé qualcosa di meno nobile rispetto alla “matera nuova” di cui il poeta parlerà. Il riferimento è inequivocabilmente alle “passate passioni” di cui al capitolo XV[15], che occorrerà rimuovere per fare spazio alla lode disinteressata di Beatrice.
L’incontro con le donne gentili del cap. XVIII, in assenza di Beatrice, è il passo decisivo compiuto dal poeta nella direzione della poesia della lode. Possiamo considerare le donne gentili come il destinatario-critico del poeta; a questi, infatti, esse chiedono spiegazioni e chiarimenti, e avanzano i propri dubbi, “non senza una punta di cattiveria”[16]. Riportiamo una parte del dialogo[17]:
“”Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta questa tua beatitudine”. Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: “In quelle parole che lodano la donna mia”. Allora mi rispuose questa che mi parlava: “Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento”. Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partio da loro, e venia dicendo fra me medesimo: “Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la donna mia, perché altro parlare è stato lo mio?”.”(V.N. XVIII, 6-8)
L’amante si ritira con vergogna dal cospetto delle donne gentili che dubitano (“Se tu ne dicessi vero…”) della veridicità dell'”altro intendimento”; “altro” invero è stato il “parlare” del poeta-amante che ora si interroga invano sul “perché altro parlare è stato lo mio?”. Che cosa vuol dire tutto ciò se non che, lungi dall’esservi riprovazione dell’esperienza poetica passata, vi è invece un primo importante segnale che indica (e non forse prescrive?) al lettore qual sia d’ora innanzi il dovere cui il lettore stesso dovrà adempiere, e cioè rinvenire nell'”altro parlare” della poesia giovanile un “altro intendimento”? Non c’è stata corrispondenza tra parola e intendimento nella poesia giovanile di Dante, e lontano è ancora il tempo in cui ciò che il cuore “ditterà dentro” il poeta saprà significare. Ora è tempo di bandire ogni equivoco: pertanto il poeta prenderà “per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima”. (V.N. XVIII, 9)
Il tema della lode disinteressata e senza richiesta di mercede[18] non rimane un semplice enunciato che attesti la buona intenzione del protagonista, bensì entra in collisione con l'”altro parlare”; in più, dalla dichiarazione della donna gentile deduciamo che nelle parole dell’amante-poeta è almeno lecito ipotizzare un “altro” significato. L’aggettivo “altro” è il perno vago e ancora una volta equivoco intorno al quale ruota tutto il discorso. In realtà, il narratore sa bene che la lode disinteressata di Beatrice, malgrado le dichiarazioni dell’amante avvilito, non può esistere come unica funzione dell’opera, ma deve contrapporsi ad una diversa funzione (l'”altro parlare”). Di qui nasce la finzione del “libello”, il suo interno equilibrio, raggiunto grazie ad un gioco compensativo destinato a mantenere e accrescere l’interesse del lettore per l’opera, e la possibilità d’un ulteriore sviluppo dell’opera medesima.
“… e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con desiderio di dire e con paura di cominciare.” (V.N. XVIII, 9)
La lode di Beatrice è considerata “troppo alta matera”, e noi siamo persuasi che l’incertezza in cui il poeta si dibatte, ove il “desiderio di dire” è represso dalla “paura di cominciare” a dire, deve essere letta come la necessaria reazione ai dubbi della donna gentile e all’impasse del protagonista. Ripetiamo: alla poesia della lode è affidato il preciso compito di segnalare l'”altro intendimento” contro l'”altro parlare”, e di ripristinare la verità. Al contempo, la donna gentile ha indicato la via da seguire per il futuro: l'”altro intendimento”, difatti, dovrà essere chiarito dettagliatamente dal poeta-commentatore, e porterà diritto all’interpretazione allegorica della poesia.
Lo sviluppo drammatico dell’opera, ancora una volta, e per lungo tratto, sembra essere bloccato. Il poeta-amante esce di scena in quanto amante e vi rimane solo come poeta, coadiuvato da un austero commentatore delle poesie in lode di Beatrice. Giustamente M. Guglielminetti sostiene che a questo punto dell’opera “la materia non tollererà affatto i condizionamenti della confessione in prima persona e muterà altrove gli schemi dell’elogio di Beatrice, per virtù e per forza di scrittura artistica (di “parole” in prosa e in rima)”[19]. Come dire che a questo stadio della fabula l’amante ha smesso il suo ruolo e che il gioco ora lo dirige il poeta ed il commentatore.
La fabula langue nei capitoli XIX, XX e XXI, occupati dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e dai sonetti Amore e ‘l cor gentile sono una cosa e Ne gli occhi porta la mia donna Amore; segue l’episodio della morte del padre di Beatrice (cap. XXII), scritto in funzione della lode di Beatrice e che conferma la fine del movimento drammatico dell’opera. “Si osservi” scriveva il Flamini “come qui anche l’intensità del dolore di Beatrice sia trattato, per filosofici argomenti (secondo la tendenza comune nella Vita Nuova all’intero racconto), ad avvalorare la loda di lei”[20]. La morte del padre, difatti, rimane sullo sfondo, mentre balza in primo piano il dolore di Beatrice raccontato all’afflitto poeta dai gruppetti di donne che ritornano a casa dopo essersi “adunate a cotale tristizia”, “secondo l’usanza de la sopradetta cittade”, “colà dove codesta Beatrice piangea pietosamente” (V.N. XXII, 3); e il poeta ne fa due sonetti: nel primo, Voi che portate la sembianza umile, chiede alle donne notizie di Beatrice, nel secondo, Se’ tu colui ch’ hai trattato sovente, al poeta rispondono le donne che ritraggono Beatrice piangente:
“Ell’ha nel viso la pietà si scorta,/ che qual l’avesse voluta mirare/ sarebbe innanzi lei piangendo morta.” (vv. 12-14); non senza avere prima notato i cambiamenti fisionomici del poeta addolorato: “Se’ tu colui ch’hai trattato sovente/ di nostra donna, sol parlando a nui?/ Tu risomigli a la voce ben lui,/ ma la figura ne par d’altra gente.” (vv. 1-4)
Non c’è alcun dubbio che costoro siano proprio le stesse donne gentili che avevano in precedenza “gabbato” l’amante. Evidentemente il narratore con questo episodio tenta di risollevare le sorti dell’amante. Ma com’è cambiata la sua “figura” rispetto al passato! Intanto i due sonetti ci hanno condotto alle soglie del cap. XXIII dove leggiamo la malattia dell’amante, episodio questo coerente col resto del dettato dantesco, perché vi si continua il processo fin qui analizzato di avvilimento della funzione dell’amante, cui compaiono visioni che prefigurano la morte di Beatrice. All’amante
“giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: “Tu pur morrai”. E poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: “Tu se’ morto” “. (V.N. XXIII, 4)
Abbiamo qui la conferma di quanto si è già mostrato sul piano delle funzioni narrative: la morte dell’amante. Sicché non ci stupiamo quando questi, sullo sfondo di scenari apocalittici di ascendenza biblica e virgiliana[21], prefiguratasi la morte di Beatrice (“…imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: “Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo””(V.N. XXIII, 68) ) invoca francescanamente[22] la propria morte: “Dolcissima Morte, vieni a me, non m’esser villana…” (V.N. XXIII, 9). Alle donne che, dopo aver allontanato “una donna giovane e gentile”, “la quale era di propinquissima sanguinitate congiunta” (V.N. XXIII, 11-12), si avvicinano al letto dove giace l’amante ammalato, questi racconta la sua visione, ripresa poi senza sostanziali novità contenutistiche nella canzone Donna pietosa e di novella etade. In definitiva, il tema della lode, spinto all’eccesso, assunto come unico motivo dell’opera, annulla la fabula, impedisce il movimento drammatico, irretisce i personaggi, e ci conduce verso forme stilizzate d’un soggetto incapace di dare respiro al racconto. Il prosieguo della Vita Nuova conferma l’assenza della fabula. È introdotto, infatti, un episodio analogico: Beatrice e Giovanna (“donna di questo primo mio amico”, cioè il Cavalcanti) compaiono sulla scena del “libello” come Cristo e San Giovanni nelle Sacre Scritture[23]. La narrazione si avvia verso forme mistiche e diafane, d’una allegoria ancora latente, che fa qui le prime prove. E siamo al capitolo XXV, dove il narratore sostituisce al poeta il commentatore che spiega qual è stato, qual è e quale dovrà essere d’ora innanzi il suo ruolo.
Note
[1] E. Sanguineti, Prefazione alla “Vita Nuova“, Milano 1965, p. 24, poi in Dante reazionario, Roma 1992, p. 15.
[2] Cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 360: “Certo è curioso, ma sintomatico, notare che queste visioni hanno bisogno sempre di raccoglimento, di silenzio attorno e di quella umile cameretta per invadere l’animo del poeta (…)”.
[3] Ciò non toglie che “Dante e Amore” sembrino “davvero una duplice rifrazione, una scomposizione allegorica dello stesso personaggio” (Cfr. E. Trevi, Amore, figura e intendimento. Osservazioni sull’allegoria in Cavalcanti e nella Vita Nuova, in “La Cultura”, 27, 1989, 1, p. 147). Vedi anche quanto afferma L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, in op. cit., pp. 120-122.
[4] Si legga quanto scrive E. Trevi, Amore, figura e intendimento. Osservazioni sull’allegoria in Cavalcanti e nella Vita Nuova, cit, p. 147: “Amore qui indica a Dante la necessità di una metamorfosi: enuncia, se mi si consente l’espressione, un “dover essere” che superi l’attuale essere impuro dell’amante, irretito nel ludus cortese (e ormai inadeguato) delle donne dello schermo”.
[5] In Convivio III, IX, 2 leggiamo la definizione di questa figura retorica: “…ed è una figura questa, quando a le cose inanimate si parla, che si chiama dalli rettorici prosopopeia; e usanla molto spesso li poeti”.
[6] L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, in op. cit., p. 123.
[7] Naturalmente la definizione dell’episodio appartiene a Dante. In V.N. XV, 1 è scritto: “Appresso la nuova trasfigurazione…”. Cfr. in proposito G. Contini, Un’interpretazione di Dante, in Varianti e altra linguistica, cit., pp. 394-395, poi in Un’idea di Dante, cit., pp. 98-99. Il critico accosta l’episodio in questione all'”altra trasfigurazione da pianto, alla notizia di Beatrice affranta per la morte del padre (“ma la figura ne par d’altra gente”, nel sonetto Se’ tu colui). La Vita Nuova potrebbe essere, letteralmente, il romanzo di queste trasformazioni, e la Commedia è l’iperbole, spinta oltre i confini umani consueti (…)”.
[8] G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 279: “(…) un fenomeno che non rimarrà chiuso nelle pagine della Vita Nuova, ma si rinnoverà, moltiplicato d’effetto, nel Paradiso terrestre al riapparire di Beatrice, che Dante identifica prima in forza del “tremore” (“men che dramma / di sangue m’ è rimaso che non tremi”) che gli suscita dentro (“conosco i segni dell’ antica fiamma”), che in grazia d’ un riconoscimento fisiognomico (Purg. XXX, 22-48)”.
[9] A. Vallone, Dante, cit., p. 361.
[10] Sull’ argomento del “gabbo” si legga G Barberi Squarotti, Interpretazione del “gabbo”, in L’ artificio dell’ eternità, cit. pp. 107-129.
[11] Si legga quanto scrive in proposito Paola Rigo, La discesa agli inferi nella Vita Nuova, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, I, cit., pp. 159-176. Il critico sostiene che la Vita Nuova si modella sull’esegesi medievale dell’Eneide. In particolare per l’ episodio del gabbo (p. 172 e seg.) il riferimento è al VI libro dell’ Eneide, ovvero la discesa agli inferi.
[12] Scrive A. Asor Rosa, La fondazione del laico, in op. cit., p. 55: “Non si può comunque fare a meno di precisare che questa efficacia degli sconvolgimenti psico-fisici su Dante va presa nel senso più letterale del termine (…). Mi rendo conto che a chi è stato abituato da una tradizione plurisecolare a leggere la Vita Nuova come un trionfo della spiritualità, riuscirà forse difficile accettare che questo trionfo della spiritualità sia il prodotto di così intense dinamiche corporali”.
[13] Cfr. M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 364. Inoltre A. Accame Bobbio, Presagi di morte e rime della lode (Vita Nuova XI-XXVIII), in AA.VV. Nuove letture dantesche, VIII, cit., p. 64 afferma che Beatrice “E’ pur sempre una donna concepita come reale, che si prende gioco di Dante “con l’altre donne”. E poco più avanti definisce l’episodio “tra i più oserei dire, “realistici” della Vita Nuova, sia pure d’un realismo quanto mai sfumato nei suoi contorni”.
[14] Sull’argomento della “cortesia” in Dante sempre valido A. Vallone, La “cortesia” dai provenzali a Dante, Palermo 1950.
[15] Per il termine “passione” da intendersi in senso “corporale” si rinvia a I. Baldelli, Realtà personale e corporale, cit, pp. 167-168.
[16] Cfr. G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 289.
[17] Sul “dialogo” nella V.N. valgano, ma non in questo caso, le parole di A. Vallone, Dante, cit., p.359: “Nella Vita Nuova, quasi in ogni capitolo, si possono cogliere battute di dialogo, domande e risposte, che hanno perduto ogni rilievo e sembrano immerse in un’atmosfera assorta e trasognata. Più spesso è un dialogare interno, come di persona che ha perduto i contatti umani e parla con se stessa e si cerca. Più che un dialogo è un colloquio con se stessi”. Qui, in realtà, è ben vivo lo spirito critico dell’Alighieri, che delega al dialogo con le donne gentili il compito di mostrare i termini della dialettica del “libello”.
[18] Cfr. M. Marti, Lo Stil nuovo di Dante e l’unità della Vita Nuova, in Storia dello Stil Nuovo, Lecce 1973, pp. 463-464, che proprio nelle “rime della lode” disinteressata e nell'”amore pago di sé” vede la sostanziale “novità” del Dante stilnovista rispetto alla tradizione cortese.
[19] M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit., p. 61.
[20] Cit. da L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, cit., p. 137.
[21] Cfr. V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova, cit., p. 132. Il riferimento a Virgilio, Eneide, VI, 237 sgg., 256 sgg lo dobbiamo a Paola Rigo, La discesa agli inferi nella Vita Nuova, in op. cit., p. 172.
[22] Il riferimento è ancora a V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova”, cit., p. 142: “Il desiderio tenero e struggente di un’altra vita fa ripetere allora a Dante le famose parole di Francesco: “Dolcissima morte vieni a me” (V.N. XXIII, 9); “Bene veniat soror mea dulcissima mors” (Cel. II 163); e gli fa visualizzare l’assunzione dell’anima di Beatrice nelle linee e nei colori più canonici dell’agiografia francescana (…)”.
[23] Per l’episodio (V.N. XXIV) si rinvia a M. Marti, Gli umori del critico militante, in Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, pp. 98-100, e a M. Marti, Introduzione alla Vita Nuova, in Studi su Dante, Galatina 1984, pp. 12-13, e da ultimo a M. Marti, “…L’ una appresso de l’ altra maraviglia”, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CLXVIII, 1991, p. 488 e seg.. Cfr. pure V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova”, cit. p. 132 e G. Gorni, Lettera numero nove. L’ordine delle cose in Dante, cit., pp. 28-31 e passim.