Aquiloni come sogni

Correva l’anno Millenovecentosessantotto.  Il Sessantotto, in Italia, comincia nel Sessantasette. Molti di noi facevano la scuola elementare. Qualcuno aveva iniziato da poco la media.

Tre astronauti americani erano morti bruciati nella capsula Apollo 1 durante un volo simulato.  Nino Benvenuti aveva battuto Emile Griffith.  Luigi Tenco si era sparato un colpo alla tempia tra i fiori e i lustrini di Sanremo. Quattro mesi dopo la morte di Tenco, a maggio, usciva la “Lettera a una professoressa”. Lorenzo Milani morì un mese dopo.

Il Sessantotto comincia quando esce la Lettera di Lorenzo Milani.  

Quella che comincia con queste parole: “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti”.  Quella in cui si dice che il problema degli altri è uguale al mio

Si pensa a un aquilone associandolo a Pascoli e agli Alunni del sole, dunque.   Finchè non si legge “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini: un’esperienza diversa, selvaggia, quasi un gioco tra la vita e la morte, tra virate con picchiata, spirali vorticose, duelli con il tempo.

Si dice che originariamente l’aquilone fosse impiegato solo in campo militare e che, intorno al 200 a. C., un generale cinese lo utilizzasse per calcolare le distanze tra il suo paese e quello nemico. In Italia l’aquilone fu introdotto verso la fine del XV secolo  da commercianti e marinai che tornavano dall’Asia. Negli anni che vanno dalla seconda metà dell’Ottocento al primo decennio del Novecento, gli aquiloni vennero usati per finalità di natura scientifica, soprattutto in aereonautica e meteorologia. 

Un ragazzo che lancia un aquilone diventa aquilone egli stesso. Non ha nessun altro pensiero. Ha soltanto quella cometa negli occhi, la tensione verso il suo equilibrio; si solleva da terra, si proietta nell’aria, si confonde con la luce. Stabilisce una relazione con il tempo circoscritta alla durata del volo, una relazione con lo spazio che coincide con il punto in cui si trova in quell’istante l’aquilone. 

Le condizioni del lontano e del vicino sono determinate esclusivamente dalla lunghezza del filo che va dalla mano al punto centrale di quell’astro di carta. Una delle esperienze dello sguardo più entusiasmanti è probabilmente quella di vedere un aquilone prima offuscarsi e poi lasciarsi assorbire dall’aria che imbruna. A quel punto si sente soltanto il suo tiraggio al polso, che testimonia ancora la sua esistenza, conferma il suo volo. A quel punto si comincia a ritirarlo. Senza strappi, con un alternarsi di mezzi giri del polso, ed è come se si guidasse il carro dell’Orsa.  

Alla voce aquiloni della Treccani si riferisce che durante la Prima guerra mondiale gli aquiloni furono utilizzati come mezzo di segnalazione e di osservazione delle linee nemiche. Nella Seconda guerra mondiale, invece, alcuni piloti d’aereo possedevano un kit contenente un aquilone da utilizzare per essere individuati e recuperati in caso di abbattimento del loro aereo.

Autunno e primavera erano le stagioni degli aquiloni. Il tempo del vento giusto, che non tirava forte, non strappava. Il tempo della luce giusta, che permetteva di guardare in alto, di seguire il movimento, l’ondulazione leggera nell’aria. Non c’erano gridi; a volte non c’erano neppure voci. Tra ogni ragazzo e ogni aquilone c’era un rapporto solitario e silenzioso. Non importava che ci si muovesse in molti: ognuno era da solo con il proprio aquilone, dal momento in cui cominciava a prepararlo, poi a lanciarlo, poi a ritirarlo, si dispiegava un linguaggio di sguardi e di dita che governavano gli spostamenti e il filo.

Si teneva l’aquilone in alto anche dopo che scuriva e non si vedeva più e lo si sentiva soltanto attraverso il filo, quasi che si fosse racchiuso nella mano.

Il ragazzo e l’aquilone si facevano di una sola natura. L’aquilone portava il ragazzo lontano, in alto, sempre più in alto, nel luogo dove sono le stelle e i sogni.

Forse era proprio questo il senso del lanciare un aquilone: il senso profondo, nascosto, inconsapevole. Forse il senso era poter dare un simbolo ai propri sogni. 

Ora dal cielo sono scomparsi gli aquiloni, come sulla terra sono scomparse le lucciole di Pasolini. I ragazzi hanno ancora sogni, certamente, e hanno simboli con cui rappresentarli, anche se noi stentiamo a vederli, anche se non li conosciamo. Volano in alto con il pensiero, i ragazzi, ancora. Probabilmente hanno aquiloni fantastici, diversi da quelli che avevano altri ragazzi alla loro età. Forse solo il cielo è un poco più triste. Forse al cielo, al suo azzurro, alla sua luce, manca il volo degli aquiloni. Chissà se non davano anch’essi una ragione al cielo, insieme alle stelle, al sole, alla luna.  Chissà se al cielo non mancano quelle stelle di carta, quei filamenti di nuvole colorate; chissà se non mancano quei movimenti che Pascoli stringe in quei sei verbi e gli Alunni del sole nei versi della canzone.

Poi veniva l’ora di ritirare l’aquilone: come quando viene l’ora di ritirare i sogni. Poi si aspettava di poterlo rilanciare un’altra volta, come si aspetta di rilanciare sempre i sogni, anche quando si pensa di non poterli più farli volare. Possono anche cambiare, i sogni, ma non sparire. Talvolta quando cambiano sono anche più concreti, più veri, più vicini. Talvolta quando i sogni cambiano con l’esperienza che porta la vita non si strappano più, non temono nessun vento, non si oscurano quando viene buio. Quando i sogni cambiano con l’esperienza non s’incoppano, non si avvitano, non precipitano. Quando cambiano con l’esperienza, allora si sa in che modo lanciarli bene, con sicurezza. A quel punto, a quell’età c’è il filo della maturità che li sostiene più forte.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 27 ottobre 2024]

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *