“Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare; e in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: “Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui”; e nominandola, io intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista.” (V.N. V, 1-3)
In un luogo pubblico e sacro, una chiesa, accade il fatto decisivo, e dà il via ad un intreccio che rischiava di essere sacrificato ad una narrazione priva d’azione. Un equivoco, frutto del caso, ma i cui effetti sono previsti e voluti dall’amante, dà respiro all’azione e mette in moto la macchina del racconto dantesco:
“E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano.” (V.N. V, 3)
In realtà “le più persone” non sanno un bel niente, sono vittime d’un equivoco che l’amante a bella posta non fa nulla per dissolvere, poiché in questo modo può conservare il suo segreto. “La gentile donna schermo de la veritade” avvia un racconto che avrebbe dovuto essere segreto come il diario di un fanciullo, e il poeta-amante può ora, parlando d'”altro”, lodare Beatrice per interposta persona, mantenendo in questo modo celato il suo segreto. Di qui il proposito formulato dal narratore di escludere dal libello tutto quel che non riguarda Beatrice, e al contrario, di riportare le parole che ora, dissolto ogni equivoco, appaiono indubitabilmente come una lode di Beatrice.
“Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credere altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.” (V.N. V, 3)
È il narratore ad operare la selezione, ed evidentemente “scriverò” vale “trascriverò”, ovvero “copierò”, se si vuole dal “libro della memoria” o, più semplicemente, fuor di metafora, dal corpus poetico per la donna schermo. Nel libro della Vita nuova sarà riportato ciò che “facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice” e “che pare che sia loda di lei”, e non altro, secondo lo scopo preciso di omettere quanto esula dal fine principale dell’opera: la lode di Beatrice. In questa fase della Vita Nuova è dunque già operativa la poetica della lode di Beatrice, sebbene condizionata dagli schermi della finzione che stiamo qui considerando. Il narratore fa valere il suo punto di vista selettivo, in cui è già presente l’esito ultimo del “libello”, laddove, invece, il prosieguo dell’azione mostrerà puntualmente i vari passaggi attraverso cui l’ amante-poeta approderà alla poetica della lode teorizzata nel cap. XVIII[3]. Quel che importa è che d’ora innanzi l’amante-poeta coglierà ogni pretesto per lodare Beatrice, perché questo, solo questo, è il fine dell’opera.
Dopo l’esperienza della prima donna schermo, il protagonista è preso da “una volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima”, e per questo scrive un serventese in cui il nome di Beatrice è dissimulato tra quello di sessanta nomi delle “più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l’altissimo sire (…).” (V.N. VI, 1-2). Il personaggio autobiografico sa bene che nessuno tra i fedeli d’Amore farà caso al nome di Beatrice, confuso com’è tra i nomi di sessanta donne, “le più belle”; ma lui, intanto, ha trovato il modo, scrivendone semplicemente il nome (nomen omen), di lodare Beatrice, e la liceità e spiritualità del suo amore ancora una volta è confermata da ciò che “maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.” (V.N. VI, 2).
Partita “la donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade”, ossia la prima donna schermo, il poeta pensa “di farne alcuna lamentanza in uno sonetto”, perché “se de la partita io non parlasse alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere (…).” (V.N. VII, 1-2). Il sonetto O voi che per la via d’Amor passate, e soprattutto la seconda parte, che “comincia quivi: “Amor, non già” è scritta “con altro intendimento che l’estreme parti del sonetto non mostrano” (V.N. VII, 7). Cioè, crediamo di capire, i vv. 19-20: “di fuor mostro allegranza, / e dentro da lo core struggo e ploro”, ingannano i fedeli d’Amore che attribuiscono il dolore del poeta – che nel sonetto parla in prima persona – alla partenza della donna schermo (i fedeli d’ Amore difatti credono che essa sia la donna amata dal poeta), mentre è vero che “altro” è l'”intendimento” del poeta-amante: quei versi esprimono il suo timore d’essere scoperto dai fedeli d’Amore e l’angoscia di non avere più un pretesto, uno schermo, per lodare Beatrice. L’uso del discorso anfibologico si rende qui necessario perché salvaguarda il segreto e insieme consente la lode di Beatrice.
I sonetti che seguono, Piangete, amanti, poi che piange Amore, e Morte villana, di pietà nemica, in cui il poeta rispettivamente “si rifà alla tecnica del planh” ed al ” “Lugete o Veneres Cupidinesque” (se questo accostamento è sostenibile)”[4], sono scritti in occasione della morte di una “donna giovane e di gentile aspetto molto” (V.N. VIII, 1); in realtà costituiscono ancora una volta un pretesto per significare la lode di Beatrice.
“Allora, ricordandomi che già l’avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de la sua morte, in guiderdone di ciò che alcuna fiata l’avea veduta con la mia donna.” (V.N. VIII, 2)
Nessuna meraviglia: la morte della “donna giovane” (“annuncio di un evento più vasto e pauroso, qual è appunto la morte di Beatrice”[5]) è menzionata unicamente perché consente al poeta-amante di parlare, senza essere inteso, dunque di nuovo anfibologicamente, della sua donna. Le lacrime rigano il volto del protagonista solo quando questi ricorda di aver visto la defunta in compagnia di Beatrice, e i sonetti sono composti proprio per questo motivo, in ricompensa della compagnia fatta a Beatrice da colei che è morta. Naturalmente i fedeli d’Amore non capiranno tutto ciò, ma crederanno che il pianto del poeta sia causato semplicemente dalla scomparsa della “donna giovane”. La poesia della Vita Nuova paradossalmente richiede un falso dedicatario (la donna dello schermo), utile a escludere il destinatario (i fedeli d’Amore) dall'”intendimento” del suo vero significato; su questa ignoranza il narratore potrà innestare più avanti il discorso della verace interpretazione della propria poesia, il cui lettore, guidato dal commentatore (sicché, e converso, si spiegano ora le battute polemiche, per esempio, contro “chi non è di tanto ingegno che per queste [divisioni] che sono state fatte la [canzone] possa intendere (V.N. XIX, 22) o contro “quelli che così rimano stoltamente (V.N. XXV, 10) ) sarà in grado di capirne a fondo le implicazioni. Il che vuol dire, se le parole hanno un senso, che l’Alighieri è consapevole, già in questa fase dell’opera, dell’originalità e della grande novità della sua esperienza poetica, rispetto a un pubblico che di fatto la misconosce, e che dunque è necessario un nuovo pubblico, tutto da inventare, anzi direi da educare pazientemente (di qui la funzione assegnata all’esegeta).
La quarta ed ultima parte (secondo la divisione dantesca) del sonetto Morte villana, di pietà nemica, corrispondente ai vv. 19-20: “Chi non merta salute / non speri mai d’ aver sua compagnia”[6] è così commentata:
“ne la quarta mi volgo a parlare a indiffinita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita.” (V.N. VIII, 12)
La “persona” di certo rimane “indiffinita” nella mente dei fedeli d’Amore, mentre per il narratore della Vita Nuova e per il critico che segua la dialettica interna del “libello”, tale “persona” è al contrario “diffinita” e presto individuata negli stessi fedeli d’Amore che, non conoscendo la virtù benefica che promana da Beatrice, non possono neppure sperare di ottenere da lei “salute”. L'”ellissi” ovvero “il discorso similmente abbreviato” che G. Contini individuava col suo solito acume nel sonetto Morte villana, di pietà nemica, e a ragione estendeva a tutta la V.N. come “uso generale” [7], risponde alla necessità intrinseca alla fabula di tenere nascosto l’oggetto d’amore del personaggio autobiografico, ed è una conseguenza dell’impiego della tecnica anfibologica, per cui il destinatario è duplice: da una parte i fedeli d’Amore, ingannati sulla verità dell’esperienza del poeta-amante e che conoscono solo le poesie, e le interpretano in base a quanto l’amante fa credere loro, o in base a quanto essi presumono di sapere; dall’altra parte il lettore dell’opera, colui che continuamente è avvertito dal narratore (che non dimentichiamo, è posto all’apice dell’esperienza poetica della Vita Nuova, egli sa tutto ciò che è già accaduto), attraverso i canali della prosa e della selezione poetica, sul vero “intendimento” della poesia. La finzione autobiografica dantesca della Vita Nuova come presuppone la scissione di attore e narratore, così presuppone la duplicità del destinatario. E se la scissione narratore-attore non verrà mai meno fino all’ultimo canto del Paradiso, rivelando con ciò di essere il fondamento strutturale dell’opera volgare dell’Alighieri, il percorso dantesco passerà attraverso la ricomposizione del duplice destinatario, e ciò avverrà nel momento in cui il narratore della Divina Commedia avrà trasformato profondamente nella prospettiva escatologica cristiana (eliminando, dunque, ogni possibile ragione d’equivoco) la funzione del poeta-amante presente nella Vita Nuova.
Dopo la morte della “donna giovane” al poeta-amante “convenne partire de la sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov’era la gentile donna che era stata mia difesa (…).” (V.N. IX, 1)
L’amante deve essere vicino alla donna schermo perché solo la donna schermo può “difenderlo” dalla curiosità dei fedeli d’Amore, consentendogli, al contempo, come si è visto, la lode di Beatrice. Tuttavia la realtà è ben altra, e urge molto, cosicché il distacco da Beatrice provoca un forte dolore nell’animo dell’amante:
“E tutto ch’io fosse a la compagnia di molti quanto a la vista, l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che lo cuore sentia, però ch’io mi dilungava de la mia beatitudine.” (V.N. IX, 2)
E’ tanto importante salvaguardare il segreto dell’amore per Beatrice, che occorre spingere fino ai suoi estremi limiti l’inganno della donna schermo. L’amante si viene a trovare di nuovo in una situazione paradossale: per continuare ad amare e lodare Beatrice, deve allontanarsi da lei, e seguire un’altra donna. Lungo la strada riappare Amore:
“E però lo dolcissimo segnore, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gia lungo questo cammino là ov’io era.” (V.N. IX, 3-4)
L'”imaginazione”[8] del protagonista ha un evidente valore simbolico; essa rispecchia il suo stato d’animo, è il suo stato d’animo. Amore si mostra questa volta in abiti trascurati e nell’aspetto profondamente turbato, e guarda per terra come chi non sa o non può prendere una risoluzione. L’immagine del “fiume bello e corrente e chiarissimo” a cui Amore volge “talora gli occhi”, è l’unica ad avere valore positivo, e sembra voler simboleggiare – lo diciamo con tutte le cautele del caso- la speranza che l’attore nutre di superare questa impasse. Ma, ci chiediamo, come potrà l’amante continuare ad amare Beatrice, se, per mantenere celato il suo vero amore, deve allontanarsi da lei, e avvicinarsi ad una donna che in realtà non ama? La risposta ci è fornita dal consiglio di Amore, che, lungi dal risolvere la situazione paradossale in cui versa l’amante, in questo modo significativamente la ripropone:
” “Io vengo da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti facea avere a lei, io l’ho meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era”. E nominollami per nome, sì che io la conobbi bene.” (V.N. IX, 5-6)
Secondo il consiglio di Amore la prima donna schermo deve essere sostituita da una seconda donna schermo, anche questa anonima, ma conosciuta bene dal protagonista. Il motivo di questa sostituzione sta semplicemente nel fatto che l'”angoscia” per la separazione da Beatrice costringe l’amante ad un veloce riavvicinamento; standole vicino, sia pure dietro un altro “schermo de la veritade”, l’amante potrà continuare ad amare e lodare Beatrice, secondo la strategia già esaminata e che ora lo stesso Amore autorizza. Un’altra donna sarà “tua difensione”, dice Amore all’amante, ed aggiunge:
” “Ma tuttavia, di queste parole ch’io t’ho ragionate se alcuna cosa ne dicessi, dilla nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri”.” (V.N. IX, 6)
Qui Amore parla al poeta più che all’amante. Dopo aver autorizzato l’amante a simulare amore per una donna diversa da Beatrice, ora Amore autorizza il poeta a dire le “parole” che a lui ha “ragionate”, ma sempre in modo da tener nascosto ai fedeli d’Amore il vero oggetto d’amore del poeta. È forse inutile dirlo, ma Amore inganna i suoi fedeli. Il poeta “appresso lo giorno” scrive il sonetto Cavalcando l’altr’ier per un cammino, a fa dire ad Amore: “Io vegno di lontana parte, / ov’era lo tuo cor per mio volere; / e recolo a servir novo piacere” (vv.10-12).
I fedeli d’Amore crederanno che il poeta-amante, incostante e volubile, ora ami un’altra donna, e non sapranno che si tratta d’un’altra donna “schermo de la veritade”, laddove, naturalmente, la “veritade” è Beatrice. I versi appena citati, corrispondenti alla seconda parte del sonetto, secondo la divisione dantesca, sono così commentati:
“Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sì com’io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda parte dico quello ch’elli mi disse, avvegna che non compiutamente per tema ch’avea di discovrire lo mio secreto; ne la terza dico sì com’elli mi disparve (…)” (V.N. IX, 13) Il poeta-amante segue il consiglio d’Amore e – è il narratore a precisarlo -, se riporta le sue parole “non compiutamente”, ciò accade perché ha paura “di discovrire lo mio secreto”. In questo modo, coerentemente col resto della finzione fin qui esaminata, il poeta-amante seguita ad amare e lodare Beatrice secondo la strategia suggerita da Amore. I versi del poeta-amante ingannano i fedeli d’Amore, che fraintendono la vicenda del personaggio autobiografico, e rendono necessario il suo intervento riparatore, poiché egli, in qualità di narratore, dovrà (e non è appunto questo che già sta facendo?) “coonestare, innanzi ai propri occhi ed a quelli dei lettori, il fondo sensuale dei suoi sogni”[9].
Note
[1] Cfr. C. Singleton, Viaggio a Beatrice, Bologna 1968, p. 231. Cfr. anche la definizione di E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno [1929], in Studi su Dante, Milano 1990, p. 143, secondo cui “la vera figura (…) è insieme corpo e spirito”.
[2] Si legga quanto scrive A. Vallone, Apparizione e disdegno di Beatrice (Vita Nuova I-X), in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII cit., p. 44. Vedilo anche in Dante, cit., p. 45: “(…) il tema del “secreto”, non solo alimenta la vicenda interiore; ma serve anche (e questa volta non a Dante-protagonista) per tessere la tela narrativa e creare l’ azione “romanzesca” “.
[3] Cfr. D. De Robertis, Milano-Napoli, 1984, nota a V.N. V, 4: “Il termine [lode] (e il richiamo) suona come anticipazione del motivo e della scoperta fondamentale (quelle delle rime della loda) del libro”.
[4] Lo afferma L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, in op. cit., p. 133.
[5] A. Vallone, Apparizione e disdegno di Beatrice, in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit., p. 48, già in Dante, cit., p. 47. Cfr. anche Mirella D’ Ettorre, Il “pensamento forte”: Vita Nuova XV. Una lettura, in “Critica letteraria” (1995) 86-87, p. 74, che definisce l’episodio come “una sorta di situazione prolettica nei confronti della morte dell’ amata”.
[6] Si tenga presente il commento di L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, in op. cit., p. 111, all’emistichio finale: “Il duplice significato contenuto in sua compagnia può forse essere spiegato -per così dire grammaticalmente- come segue: compagnia è inteso sia attivamente (“il suo accompagnare”), “il suo far compagnia”, sia passivamente (“il suo essere accompagnata”, “il suo accompagnamento”= Beatrice)”.
[7] G. Contini, Un’interpretazione di Dante, in Varianti ed altra linguistica, cit., p. 391, poi in Un’idea di Dante, cit., p. 95.
[8] I. Baldelli, Visione, immaginazione e fantasia nella Vita Nuova, cit., p. 1 precisa in che modo bisogna intendere la parola immaginazione o fantasia rispetto alla parola visione: “(…) almeno nella Vita Nuova, si direbbe che Dante faccia distinzione fra apparizione nel sonno e nella veglia (sia pure durante l’infermità): egli usa, e frequentemente, la parola visione soltanto in riferimento agli accadimenti del sogno, mentre indica le apparizioni in veglia soltanto con immaginazione o fantasia.
[9] K. Vossler, La Divina Commedia, II, La genesi etico-politica, cit., p. 173. Cfr. inoltre quanto scrive E. Malato, Dante, Salerno Editrice, Roma 1999, p. 93 a proposito di V. N. IX (ma quanto scrive è estendibile a tutta la Vita Nuova): “Per la prima volta – salvo errore – nella letteratura volgare del ‘200, un poeta che discetta in materia d’amore in un’ottica “laica”, per così dire, si preoccupa di rimarcare che l’amore di cui subiva la signoria era un amore virtuoso, un amore di “nobilissima vertù”; e che tale signoria era non sottratta al controllo e a “lo fedele consiglio de la ragione”.”.