Il tempo ritrovato in una vecchia cartolina

C’è chi ha sempre avuto l’abitudine di conservare tra le pagine dei libri, sul fondo dei cassetti, le cartoline che gli arrivano dalle persone care: dai loro viaggi, dalle loro vacanze in luoghi vicini o lontani. Mette nel libro preso a caso oppure inabissa nei cassetti immagini di paesaggi innevati, di monumenti, di albe e tramonti sul mare, e le lascia lì, un po’ dimenticate, fino a quando non gli capita di rovistare dentro i cassetti, di riprendere quel libro dagli scaffali.

Allora, all’improvviso, accade che si riavvolgano gli anni. Ritornano stagioni e creature. La memoria riannoda i suoi innumerevoli fili, a volte ricompone i suoi sfilacciamenti. Fa l’appello di tutti i suoi fantasmi. L’increspatura di un sorriso disegna una nostalgia o una tenerezza. A volte c’è una bellezza anche nel ricordo di un’attesa smaniosa, di un’ansia che si è provata, di una sofferenza. A volte, invece, ci si accorge, con stupore, di un sentimento di indifferenza nei confronti di storie alle quali si è consegnato un tempo lungo o breve della propria esistenza e che si pensava non dovessero mai perdere la straordinarietà del senso che ad esse si dava, che emozioni e sensazioni non dovessero – non potessero – mai dissolversi, né assopirsi. Invece succede che qualcosa diventi tanto lontana da sembrare la scena di un film   che si ricorda a stento.

In principio era un cartoncino stampato, emesso dalla Stato, con l’affrancatura compresa che costava più o meno la metà rispetto alla lettera, ma si rinunciava alla riservatezza della corrispondenza. Così, spesso si scriveva usando parole in codice e testi cifrati. C’erano due tipi di cartoline: quella semplice e quella doppia che includeva la risposta pagata. La prima costava 10 centesimi. L’altra con risposta pagata costava quindici.

Quando venne introdotta in Italia era il 1847. Cinque anni prima era stata l’Austria a adottarla ufficialmente.

Le cartoline sono ormai documenti del secolo passato. Icone di ricordi remoti. Pretesti per nostalgie di gente fuori tempo. Evocano figure di soldati ammalati di melanconia, di emigranti prigionieri dei quartieri dormitorio. Però viene in mente quello che diceva  Tacito nel libro undicesimo degli “Annales”: omnia quae  nunc vetustissima creduntur nova fuere. Tutte le cose che crediamo antichissime furono nuove. La nostra modernità vorace disintegra in pochi anni i frammenti delle storie. Ci sono cose che scompaiono all’improvviso, perché nessuno più le richiede, perché nessuno più ne avverte il bisogno, perché la tecnologia ci porta strumenti che consentono velocità, forse anche la perfezione di una tecnica fredda. Se oggi Guido Gozzano riscrivesse “L’amica di nonna Speranza”, ai fiori in cornice, alle scatole senza confetti, agli acquerelli un po’ scialbi, e alle stampe, le miniature, i dagherrotipi, il cucù delle ore che canta, alle sue buone cose di pessimo gusto, aggiungerebbe le cartoline conservate tra i libri e nei cassetti. Quelle con il duomo delle città, con il Vesuvio, la Torre di Pisa, Piazza San Marco, il Colosseo, Palazzo Vecchio.

(Ricordo una cartolina che non ritrovo più. Ho sfogliato libri,  rovistato nei cassetti,  inutilmente. Era una cartolina con le Torri Gemelle, spedita da New York l’11 settembre del 2001.)

Una decina di anni dopo la diffusione delle cartoline postali, venne il tempo delle cartoline illustrate anche da grafici e pittori famosi.  Il problema della riservatezza fu superato con un linguaggio che impiegava formule generiche di saluti e di circostanza: saluti da; saluti a; qui al mare (o in montagna o al lago) vi pensiamo sempre. 

Quando il figlio e la nuora tornarono dalla luna di miele, lei, la madre, neppure rivolse loro una parola. Quindici giorni erano stati in giro per l’alt’Italia, Venezia, Torino, Milano, Varese, Busto Arsizio. Lei, la madre, gli aveva messo taralli e fichi con le mandorle nella valigia, e loro nemmeno il pensiero di una cartolina. Una scostumatezza che non si poteva sopportare. Le cartoline si trovavano dappertutto anche nel paesino, alla cartoleria, al bar, al tabaccaio, figuriamoci a Venezia quante cartoline, e loro niente, non ci avevano pensato.

Passarono due mesi, forse più. Poi una mattina arrivò il postino con le cartoline per tutto il vicinato, una diversa dall’altra: c’era piazza San Marco, il Ponte dei sospiri, il Duomo, i Navigli, il lago di Varese. Le donne se le rigirarono ammirate tra le mani. Soltanto su di una ebbero da dire: su quella con il lago. Ebbero da dire che il lago era falso perché non si muoveva.

Mandami una cartolina, si diceva. La frase stringeva il senso dell’attesa della manifestazione di un pensiero che confermasse la reciprocità dell’esserci.

 Erano il segno di una presenza, di un affetto. Si conservavano come le foto, in un cassetto del comò, in una busta grande, uno scatolo, e quelle alle quali si teneva di più, si incastravano nella cornice di un angolo della specchiera, per poterle avere sempre sotto gli occhi. Per memoria.

Riguardare una cartolina significava recuperare un tempo, ritornare. Significava anche immaginare luoghi sconosciuti, costruirli nella propria fantasia, collocarsi in quei luoghi con il desiderio. In fondo era una parte che conteneva il tutto. Era come una pagina di un libro di viaggio, come una sola frase del “Piccolo principe” che riesce a portarti lontano, in un dove che non esiste, in un altrove fantasioso e straordinario. 

Simboli della fissità del tempo, della immobilità dei luoghi. Forse non c’era un paese, per piccolo che fosse, che non avesse la sua cartolina in bianco e nero. Anche solo la piazza con una palma al centro. Anche solo la chiesa o il monumento dei caduti.  Poi il luogo cambiava e la cartolina restava a rappresentarlo com’era stato. Poi le creature invecchiavano, andavano via, e la cartolina restava com’era, con l’inchiostro dei saluti un po’ stinto, con il ricordo sbiadito.

La cartolina era una testimonianza dell’essere stato in un luogo, una volta: in un luogo che forse non si sarebbe più rivisto, in un tempo di vacanza, di spensieratezza.

In qualche modo esprimeva un sentimento del tempo che si portava dentro una condizione di nostalgia per quello che era stato e non poteva più essere, per stagioni finite, per esperienze concluse, per storie passate, irripetibili.

Non ci sono più le cartoline. Tutte le cose hanno un tempo, come le creature. Di tanto in tanto ne ritroviamo qualcuna, dentro un libro, in un cassetto della scrivania, e con essa ritroviamo il volto di chi una volta ebbe un pensiero per noi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 20 ottobre 2024]

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