L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo IV. L’incominciamento

Tuttavia sarebbe impossibile parlare di sé, sia pure attraverso lo schermo d’un personaggio, e quando ancora la finzione narrativa non ha elaborato tutte le ragioni del parlare di sé espresse poi nel Convivio, se non  intervenisse una necessità esterna, o con segni precisi e inequivocabili non si manifestasse un volere divino tale da compensare d’autorità la narrazione autobiografica. Quanto di innegabilmente immotivato è presente in un’autobiografia (che diritto ha l’autore, difatti, a parlare di sé? – sarà, sulle soglie del Convivio, la domanda a cui l’Alighieri dovrà rispondere -) rischia di impedire il racconto se non è riassorbito dalla finzione dell’opera. Ecco allora la soluzione possibile: l’amore per Beatrice non è un comune amore (che sarebbe stato inutile e immotivato raccontare), ma è un amore che supera l’esperienza umana. Vediamone i segni:

“Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.” (V.N. II, 1-2)

Il numero nove[5] suggella l’ incontro o “apparimento”[6] e attesta che questo fatto così umano in realtà è posto sotto il segno della volontà divina. La coincidenza non è data dal caso – il lettore comprende subito -, anche perché il narratore riconosce immediatamente un intervento miracoloso. Tuttavia l'”apparimento” dà luogo ad un incontro tra due esseri umani, e dall’incontro nasce l’amore del protagonista[7], prima d’ogni cosa. D’ora innanzi la vicenda si snoderà secondo un preciso intreccio, attraverso il saluto di Beatrice (“unico rapporto possibile” tra Beatrice e il suo cantore, secondo la felice intuizione di G. Favati [8]) e – vedremo – il rifiuto del saluto, fino alla morte dell’amata[9]. Intanto, di Beatrice non sappiamo altro che il nome, un nome di donna, certo, ma dal significato più divino che umano: ella è beatrice, ovvero colei che dona beatitudine, tanto che, per analogia, la si può paragonare a Cristo[10]; e della “cittade” dove si svolge l’azione non sapremo mai il nome: “Firenze non è che una cittade e l’Arno è solo “un fiume bello e corrente e chiarissimo” “, scrive A. Schiaffini[11]. Vogliamo dire che l’ovvia sapienza del lettore moderno (chi mai direbbe che Beatrice non sia Bice figlia di Folco Portinari, e la “cittade” dove si svolge l’azione non sia Firenze, e il fiume proprio l’Arno?) non deve far dimenticare che questa omissione dell’Alighieri non è casuale, ma risponde al preciso scopo dell’autore di aumentare il grado di “ambivalenza” semantica del testo[12]; città terrena o città celeste? vien fatto di chiedersi. Se poi pensiamo che in una così ambivalente “cittade” avviene l’incontro con una donna di tal nome, tanto “analoga” alla figura di Cristo, e sotto gli auspici del numero nove[13], siamo già persuasi che nel libro della Vita Nuova il narratore stia raccontando accadimenti umani e divini insieme[14], e che il racconto autobiografico si renda necessario e legittimo perché il parlare di sé non è altro, in definitiva, che il parlare di Dio. Accadimenti umani e accadimenti divini non si elidono, bensì il narratore insistentemente, direi scientemente, mostra come essi collimino e siano indissolubilmente intrecciati, eventi d’una medesima storia esemplare. “La sua [di Dante] avventura amorosa, cioè, diventerà exemplum e paradigma del viaggio di raffinamento interiore con il quale un’intera cultura potrà finalmente identificarsi” [15].

“E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre da l’essemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.”(V.N. II, 9-10)

“In altre parole Dante allude chiaramente al superamento dell’intensità della baldanza d’Amore, ed anche alla difficoltà di esso superamento”[16]. Conviene allora tacere intorno alle passioni d’un amore giovanile, di cui pur molto potrebbe dirsi, conviene scrivere parole d’una superiore dignità, ricercandole magari “sotto maggiori paragrafi”. C’è molto di non detto nel passo che abbiamo su riportato (“…e trapassando molte cose…”); molti particolari del racconto dicono al lettore che la fabula della Vita Nuova tratta d’un amore giovanile. Leggiamo il saluto dell’amata ed il palpito del cuore dell’amante[17] che subito ricerca un luogo solitario:

“L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.” (V.N. III, 2)

L’accadimento terreno è sempre segnato dal numero nove che avvalora la purezza e nobiltà del saluto, cosicché ancora una volta il lettore ha la prova che doppio è il registro sul quale il narratore riporta le parole della sua “memoria”; siamo, cioè, in presenza di “un gioco prodigiosamente nuovo tra definito e indefinito, tra realtà e sogno”[18], in cui tutti i segni attestanti la sola vicenda spirituale non annullano, bensì vivificano l’esperienza terrena che sottostà e, compenetrandosi in essa, formano un testo composito e plurisignificativo, ambiguo[19], vorremmo dire, che proprio per questo motivo induce alla riflessione e all’interpretazione. Ed era nel giusto D. De Robertis quando rinveniva nella Vita Nuova il “continuo tentativo (e tentazione) di una consacrazione del profano”, e puntava l’attenzione sul “trasferimento “parodistico” per cui la storia è narrata in “altri” termini (…), cerca di proporsi come un'”altra” storia”[20]. Stiamo leggendo, difatti, un testo in cui si racconta una storia d’amore posta sotto il segno del miracolo; un amore, dunque, avente senza dubbio il carattere dell’eccezionalità[21].

Nel chiuso della sua camera, colto dal sonno, il personaggio autobiografico ha una “meravigliosa visione”, “il primo illustre sogno della letteratura italiana”[22]. Vede “uno segnore di pauroso aspetto” che porta in braccio “la donna de la salute”, Beatrice, dormiente e “nuda”, ovvero ricoperta solo da “un drappo sanguigno leggeramente”. Questo “segnore”, da identificarsi con Amore, sveglia la donna e le fa mangiare il cuore dell’amante., “cioè le fa sapere dell’amor suo”[23]. La donna volge la “letizia” in pianto e poi è condotta da Amore “verso lo cielo (V.N. III, 3-7):

“onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato.” (V.N. III, 7)

Naturalmente il protagonista riconosce il tempo sacro in cui avviene la visione:

“E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte.” (V.N. III, 8)

Il narratore della Vita Nuova, rievocando questa sacra visione dall’evidente carattere premonitore, sembra voler riassumere all’inizio del racconto, ed in forma simbolica, tutta la vicenda, finanche la morte di Beatrice[24].

Ecco che cosa il personaggio autobiografico decide di fare dopo questa visione:

“Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’ alma presa. (…) A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’ amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.” (V.N. III, 9-15)

Ai fedeli d’Amore il protagonista, che già conosce “l’arte del dire parole per rima” (si ricordi che addirittura il sonetto A ciascun’ alma presa risalirebbe agli anni 1283-84), comunica la sua visione, ma nessuno può comprendere il messaggio; neppure il “primo de li miei amici”, il Cavalcanti, a cui a cui la tradizione esegetica vuole che sia dedicata l’opera (in V.N. XXX, 3 è scritto: “… questo mio primo amico a cui io scrivo”[25], significativamente mai nominato nel libello), dice il narratore, ha intuito il senso della sacra visione, se è vero che “lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno”. L’esperienza amorosa del personaggio autobiografico si presenta come esclusiva, incomunicabile, unica nel suo genere. Ma in ciò noi riconosciamo il giudizio del narratore (“lo verace giudicio”), di colui che, postosi all’apice di quell’esperienza, rievoca e giudica, precisando al suo lettore che, nel tempo in cui egli è situato, cioè nel tempo in cui avviene il recupero memoriale dell’esperienza trascorsa, “lo verace giudicio del detto sogno (…) ora è manifestissimo a li più semplici”. Chiunque ora è in grado di capire la visione dantesca, la stessa che allora neppure i fedeli d’Amore, neppure Guido Cavalcanti capì[26]. Sicché appare chiaro che il significato della Vita Nuova, almeno stando a quanto esplicitamente è dato di comprendere dalle parole del narratore, è tutto nella interpretazione cui Dante retrospettivamente sottopone la vicenda giovanile, e questa è l’unica interpretazione che la strategia testuale autorizzi; a quella vicenda  noi lettori potremo accostarci, ma soltanto scortati dall’attento narratore, che di volta in volta dirà ciò che è vero e ciò che è falso, e come noi dovremo intendere le sue parole. Il lettore di fatto sta già seguendo un percorso obbligato, senza dubbio contraddistinto da un movimento oscillatorio (“dall’autobiografia all’agiografia, grosso modo”[27]), dove il commentatore, la cui funzione narrativa sarà teorizzata nel XXV cap., assolve proprio il compito di esperta guida che indica quale deve essere la corretta interpretazione della vicenda dell’attore. Seguire questo percorso obbligato significa pertanto accettare la finzione autobiografica dantesca, lasciarsi per così dire coinvolgere, senza porre in dubbio, per esempio, che l’amante amò “secondo lo consiglio de la ragione”, e non una “figliuola d’uomo mortale, ma di deo”, un’ “angiola giovanissima” (V.N., II, 8). Di queste verità l’Alighieri dovrà però convincere il lettore, che potrà ciecamente prestare fede al Poeta – come troppo spesso è accaduto nella tradizione critica dantesca -, oppure, come è compito del critico, resistergli.

Note


[1] Cfr. M. Guglielminetti, Biografia ed autobiografia, in Letteratura Italiana (a cura di A. Asor Rosa), V. Le Questioni,  Torino 1986, p. 839.

[2] Cfr. C. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova”, Bologna 1968, p. 16.

[3] Si ricordi, a questo proposito, la definizione di A. Vallone, Dante, cit., p. 38, già in Il sentimento animatore della Vita Nuova, in Dante Alighieri, Vita Nuova (Introduzione a cura di A. Vallone), Torino 1966, p. XIX: “La Vita Nuova (…) è l’espressione di un godimento spirituale, l’esercizio incantato di una memoria che ama rievocare”.

[4]G. Bàrberi Squarotti, L’ artificio dell’eternità, Verona 1972, p. 37

[5] Per il significato del numero nove che è simbolo del miracolo cfr. V.N. XXIX. Sull’argomento è di nuovo illuminante G. Bàrberi-Squarotti, cit., p.105: il “protagonista, non avendo di per sé nessuna possibilità o autorità di garante della verità di ciò che sostiene ed afferma, deve affidarsi alle prove escatologiche fuori di sé, costituite dalle visioni e dalle rivelazioni profetiche, obiettivamente sempre vere (…)”.

[6] Cfr. A. Schiaffini, Lo stil nuovo e la “Vita Nuova”, in Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 1943, p. 96: “Anteponendo il verbo apparve al soggetto e scegliendo appunto tale voce, il Poeta, come i chiosatori non trascurerano di notare, dà spicco al fatto dell’apparire di Beatrice e testimonia che all’incontro ha presieduto la divina volontà (…)”.

[7] Sulle reazioni del personaggio all’apparimento di Beatrice, si legga quanto scrive A. Asor Rosa, La fondazione del laico, in Letteratura Italiana, Le Questioni, V, cit., p. 54: “Quando a Dante appare per la prima volta Beatrice, tutto il suo essere ne risulta sconvolto, dallo “spirito della vita”, che dimora nel cervello e sovraintende alle sensazioni, allo “spirito naturale”, che dimora nello stomaco. Si converrà che, pur passando attraverso un certo schematismo dottrinario, questo impossessamento di Dante da parte dell’Amore, il quale ne sconvolge al tempo stesso il cervello, il cuore e lo stomaco, ha un’evidenza fortissima, molto fisica e materiale (…)”. Non a caso, insomma, G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 279, ci avvertiva: “(…) non si dimentichi che Dante era contemporaneo di Giotto”, intendendo con ciò sottolineare “il recupero di realtà”, “sensibilissimo” (rispetto alla lirica del Cavalcanti), presente nell’esperienza giovanile dantesca. Cfr. anche K. Vossler, La Divina Commedia, II. La genesi etico-politica, cit., p. 205, che già si era accorto della “sua [di Dante] sensualità e della sua utopia erotica onde ebbe vita Beatrice”. Infine riportiamo il giudizio di E. Gilson, Dante e la filosofia, cit., p. 62: ” È sicuramente l’amore di un uomo per una donna: né Dante né Beatrice sono anime disincarnate; è anche un amore profondamente carnale, visto che è accompagnato da emozioni fisiche d’una violenza inaudita, ma è un amore carnale il cui fine non è carnale e mira, molto più che alla donna, all’opera da lei ispirata; è l’amore insomma di un poeta per la donna che con la sua presenza libera il suo genio e fa sgorgare il suo canto”.

[8] G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., p. 287.

[9] Si rinvia a M. Marti che apre la sua Introduzione alla Vita Nuova, in Studi su Dante, Galatina 1984, pp. 3-18 (ma in particolare pp. 3-8) con una “analitica” ricostruzione delle “linee narrative del “libello”, tendente a dimostrare “la compattezza e la coerenza narrativa dell’ opera” (p. 8).

[10] Sul nome beatrice si legga L. Spitzer, Osservazioni sulla Vita Nuova di Dante, in Studi italiani, Milano 1976, pp. 95-103. Per Beatrice “analoga” alla figura di Cristo cfr. C. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova”, cit., pp. 154 e seg., e poi V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella “Vita Nuova”, in AA.VV., Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze 1966, p. 134, che ritiene Beatrice “conforme” alla figura di Cristo secondo l’idea francescana: “(…) Beatrice non poteva certo essere, per se stessa, la caritas, la gratia, la salus, la veritas, la vita; ma poteva ben essere analogicamente figura di tutto questo, quale esempio di “conformità” a Cristo, quale suo specchio”. Sul problema della tradizione agiografica nella V.N. cfr. da ultimo M. Pazzaglia, La “Vita Nuova”. Legenda sacra e historia poetica, Milano 1994 e le forti limitazioni-correzioni a questa impostazione interpretativa in M. Guglielminetti, Biografia ed autobiografia, Letteratura Italiana (a cura di A. Asor Rosa), V. Le Questioni, cit., pp. 837-840. Ci piace infine riportare il giudizio (che più ci convince) di D. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze 1961, p. 19, che definisce Beatrice “figura e presenza reale: una realtà poetica, beninteso, che non ha nulla che fare con la eventuale identità storica”.

[11] Cfr. A. Schiaffini, Lo Stil Nuovo e la “Vita Nuova”, in Tradizione e poesia, cit., p. 93. Quanto si è detto del luogo, vale anche per il tempo del recupero memoriale della V.N.. In proposito cfr. A. Vallone, Dante, cit., p. 43: “Tempo e luoghi sono sincronizzati sul registro della memoria. Non si poteva avere un tempo indeterminato in contrasto a un luogo che fosse fisico e concreto. L’uno segue l’altro. Ambedue divengono modi scadenze e incidenze spirituali”. Cfr. infine G. Gorni, Il numero di Beatrice, in Lettera numero nove. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1990, p. 75: “Non una data esplicita che circoscriva gli accadimenti: un solo giorno, mese e anno precisi, quelli della morte di Beatrice, 8 giugno 1290. Espressioni quali “Nove fiate appresso” (Vita Nuova III 1), e così via, sono lasciate senza referente esterno a una “vita nuova”, il cui incipit fonda un calendario esclusivo. Lo stesso discorso, si sa, vale anche per lo spazio: per Firenze o il suo fiume, mai nominati in alcun luogo del libro. Si assiste ad una riduzione delle coordinate spazio-temporali alle sole convenienze del soggetto: in principio è “lo mio nascimento”, posizione alfa a cui tutto si riconduce”.

[12] Cfr. Tibor Wlassics, Ambivalenze dantesche, in Dante narratore. Saggi sullo stile della Commedia, cit., pp. 7-34. L’analisi di questo fenomeno stilistico, limitata dal critico alla Divina Commedia, a nostro avviso è estendibile alla Vita Nuova, e così anche l’invito del Wlassics al lettore finalizzato all'”accettazione sincrona degli aspetti della parola che erano presenti nell’animo del poeta durante l’ispirazione e la concezione del poema” (p. 28).

[13] Felicissimo l’ossimoro di A. Vallone, Dante, cit., p. 401 che scrive della “divina terrestrità della “gentilissima””.

[14] Cfr. quanto scrive in proposito M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 201: “(…) la mimesi angelica è spesso, e con insistenza soverchia, capovolta nella mimesi donnesca, attenta a una conversazione mondana almeno quanto a una conversazione sacra (…)”.

[15] M. Picone, Rito e narratio nella Vita Nuova, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca, Firenze, 1983, p. 144. Secondo il critico “(…) nel libello si ha la descrizione di un rito di passaggio, il racconto di un rinnovamento spirituale: per cui il poeta, intenzionato a marcare l’inizio del suo iter perfettivo, della sua formazione amorosa, con un segno al tempo stesso paradigmatico e universalmente riconoscibile, ha sentito il bisogno di ricorrere a una sfera di significazione assoluta, quale quella offertagli dalla liturgia battesimale” (p. 149).

[16] I. Baldelli, Realtà personale e corporale di Beatrice, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CIX, 1992, p. 167. Da notare l’osservazione di K. Vossler, La Divina Commedia, II, La genesi etico-politica, cit., p. 169, secondo cui nella V.N. “la sensualità non è (…) superata, ma solo misticamente assopita”.

[17] In proposito si rinvia all’ottimo commento di N. Sapegno, Introduzione alla “Vita Nuova”, in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit., pp. 31-33, e poi si legga quanto scrive A. Accame Bobbio, Presagi di morte e rime della lode, ibidem, p. 58, circa gli “effetti passionali e insieme benefici del saluto (…). Passionali e benefici, ho detto, perché Dante stesso rileva la compresenza e fusione di passione e beatitudine”.

[18] Cfr. A. Vallone, La prosa della “Vita Nuova”, Firenze 1963, p. 71, poi in Dante, cit., p. 96. Così pure K. Vossler, La Divina Commedia, II. La genesi etico-politica, cit., p. 167 aveva scritto: “Visione e realtà, sogno e vita si confondono nell’enigmatica operetta sì da non potersi quasi distinguere”.

[19] Il riferimento è a Maria Corti, I percorsi dell’invenzione, Torino 1993, p. 41, che nota, a proposito di Beatrice, “una certa sua ambiguità” e definisce il “libello” come un “ambiguo referto memoriale su di lei”. Cfr. anche N. Mineo, Dante, Roma-Bari 1989, p. 55, che nella V.N. nota “un certo che di ambiguo derivante dalla contaminazione di tematica mondano-cortese e di tematica religiosa”.

[20] D. De Robertis, Il libro della “Vita Nuova“, cit., p. 44.

[21] Cfr. N. Sapegno, Introduzione alla “Vita Nuova”, in AA.VV. Nuove letture dantesche, VIII, cit., pp. 30-31, che definisce la Vita Nuova “un’opera tutta intesa a spersonalizzare il dato autobiografico, a conferirgli un significato che trascende ogni interesse individuale, a nobilitare cioè in termini di assolutezza intrinseca e formale il caso singolo modellandolo sulla schema di un processo ideale e tipico” (p.31).

[22] Sull’argomento del sogno e delle visioni, si legga I. Baldelli, Visione, immaginazione e fantasia nella Vita Nuova, in AA. VV., I sogni nel Medioevo, Roma 1985. La citazione è a p.1.

[23] Lo scrive M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 300.

[24] Cfr. L. Rossi, Il cuore, mistico pasto d’ amore: dal  “Lai Guirun” al Decameron, cit., pp. 28-128, ed in particolare le pp. 112-120. Vi si discute il rapporto tra Vita Nuova, vidas e razos provenzali, in riferimento al tema del “cuore, mistico pasto d’ amore”.

[25] Si ricordi che G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Varianti e altra linguistica, cit., p. 437, poi in Un’ idea di Dante, cit., p. 148, definiva la V.N. “questa specie di lettera o memoriale a Guido”.

[26] Per una disamina del  rapporto tra Dante e Cavalcanti si rinvia a M. Marti, Gli umori del critico militante, in Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, pp. 93-112. Ma si cfr. anche G. Favati, Dante Alighieri, in Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, cit., pp. 259-305. Cfr. quanto afferma A. Vallone, Dante, cit., p. 448: “La Vita Nuova è, da questa angolazione, la storia di un disimpegno da Guido Cavalcanti. Le canzoni e il Convivio vogliono essere l’effettiva consacrazione di questo distacco, la raggiunta maturità, per Dante, di essere solo se stesso”. Fornisce un’essenziale bibliografica sull’argomento F. Salsano, La lettura di Dante, in “Cultura e scuola”, a. XXIX, 115, Luglio-Settembre 1990, pp. 15-28, e in particolare pp. 18-20. Cfr. L. Cassata, Con Dante dalla parte di Guido, Introduzione alle Rime di Guido Cavalcanti, Roma 1995, pp. VII-XXXIV e da ultimo

[27] È la tesi di M. Guglielminetti, Biografia ed autobiografia, in op. cit., p. 840, secondo cui il libro della Vita Nuova è “non solo il resoconto dell’itinerario di Dante a Beatrice, ma il luogo della trasformazione di lei in strumento di salvezza: dall’autobiografia all’agiografia, grosso modo. Ma poiché di transito si tratta, è prevedibile subito appresso il momento di ritorno, dall’agiografia all’autobiografia”.

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