L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo IV. L’incominciamento

di Gianluca Virgilio

“In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenza.” (V.N. I)

Con questa “dichiarazione iniziale, che è autobiografica, o meglio di memoria personale”[1], lo scrittore assegna un ruolo all’io narrante, che afferma di trovare nella sua “memoria” una “rubrica” dal titolo “Incipit vita nova”, le cui parole è suo “intendimento” di “assemplare” nel presente “libello”, per sottoporre al lettore “almeno la loro sentenza”. L’Alighieri adotta un personaggio che parla di sé, il quale ha sin dall’inizio due funzioni: è il narratore che “conosce la fine, la metà e il principio di tutto ciò che è accaduto”, ed è l’attore della vicenda narrata in quanto “egli non sa mai quello che sta per accadere”, secondo l’efficace sintesi del Singleton [2].

Il parlare di sé evidentemente richiede una tal doppia funzione narrativa; il che ha come conseguenza che l’Alighieri si esime dalla diretta responsabilità del racconto, poiché essa è spostata sul personaggio autobiografico. Difatti, sebbene sia ovvio che l’autobiografia rimanda alla vicenda vissuta, a colui che è dietro le quinte e tira i fili della finzione, e cioè all’uomo Dante, vero è che il personaggio autobiografico attrae su di sé l’attenzione del lettore e su di esso è posto l’onere della narrazione e dell’azione. Questi, come l’autore, – per riprendere le parole del Singleton – conosce “la fine, la metà e il principio di tutto ciò che è accaduto” (egli è colui che riporta parole già inscritte nella sua “memoria”, cioè appartenenti al suo passato[3] ) e, come l’autore, è l’attore della propria vicenda; ma in tutto si distingue dall’autore per il semplice fatto che è un personaggio; e, dunque, dà ragione alla finzione dell’autore che quanto più crea, tanto più muore alla pagina e si sottrae a noi. In questo modo l’autobiografia, riassunta e fusa nel racconto, diviene elemento motore della finzione dantesca. E diamo atto a Bàrberi-Squarotti quando, sulle orme del Singleton, insiste sull’importanza che il lettore deve assegnare alla “duplicazione del protagonista e dell’autore”, e parla della “diversità dei “personaggi”, sì sempre ambiguamente intrecciati, non mai confusi” [4].

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