di Gerardo Trisolino
«Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona»; «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»; «biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso»; «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!»; «Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato»; «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio».
Chi, almeno per una volta nella sua vita, non ha mai ascoltato o letto questi famosissimi versi della “Commedia” di Dante? Ancora Dante? Almeno non a sproposito, come l’astrusa affermazione dell’ex ministro Sangiuliano secondo cui il massimo poeta italiano sarebbe nientemeno che il fondatore della destra. Si parla continuamente di Dante perché aveva ragione Calvino quando sosteneva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. E aggiungeva: «Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso». E quale opera della letteratura italiana (e universale) può essere definita un classico più della “Commedia” di Dante? Una folta schiera di commentatori italiani e stranieri (a partire da Boccaccio, suo contemporaneo, fino agli eccellenti dantisti salentini Mario Marti, Aldo Vallone e Luigi Scorrano) si è cimentata e continua a cimentarsi con la complessità e la bellezza di un poema tradotto in quasi tutto il mondo e persino in molti dialetti italiani. Un poema pluristilistico, plurilinguistico e plurisemantico che richiede solide competenze interdisciplinari, se non altro per far fronte alla cultura enciclopedica dantesca.