di Guglielmo Forges Davanzati
Fin dal suo insediamento, il Governo Meloni ha annunciato la riduzione delle aliquote IRPEF come principale riforma – insieme alla flat tax – del sistema tributario italiano. Si tratta di un intervento non nuovo, che fa seguito a una lunga sequenza di riduzione degli scaglioni: del 1973 al 1982, l’Irpef prevedeva 32 aliquote comprese fra il 10% e il 72%; nel 1983 le aliquote si ridussero da 32 a 9, successivamente – dal 2003 – a 4 e, con l’attuale Governo a 3. A ciò occorre aggiungere che, in Italia, la pressione tributaria è costantemente aumentata (di circa l’11%) dal 1980 a oggi ed è aumentato soprattutto il peso delle imposte indirette, ovvero quelle che vengono pagate indipendentemente dal reddito e che, dunque, hanno natura regressiva (sono pagate allo stesso modo, in termini percentuali, da percettori di redditi alti e bassi).
La riforma attuale prevede che i primi due scaglioni IRPEF vengano accorpati in un’aliquota unica del 23% per i redditi fino a 28.000 euro, che si continuino ad applicare le aliquote del 35% per i redditi compresi fra i 28.000 e i 50.000 euro e del 43% per i redditi superiori a 50.000 euro. Il Governo ritiene necessario questo intervento, sia per la semplificazione del sistema tributario, sia perché sarebbe funzionale alla crescita economica.
Proveremo a mettere in evidenza che queste riforme reggono su basi scientifiche molto deboli, che producono effetti deleteri sulle diseguaglianze distributive e sulla mobilità sociale. Nel fare questo, è utile considerare inizialmente che, come documentato in uno studio recente (Massimo Baldini, Redistribution and progressivity of the Italian personal income tax, after 40 years, “Fiscal Studies”, 2020), la riduzione di lungo periodo del numero di aliquote ha prodotto, come principale effetto, un aumento complessivo del carico fiscale a danno soprattutto delle classi medie. Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani) ha rilevato che l’aumento della tassazione a danno delle classi medie, su scala globale, ha consentito e consente ai Governi di orientamento neo-liberista – (tendenzialmente di centro-destra) di prelevare risorse da gruppi sociali – le classi medie, appunto (che risultano, peraltro, statisticamente quelle con più alti livelli di istruzione) – le cui preferenze elettorali si muovono nella direzione del sostegno a gruppi politici favorevoli a misure di redistribuzione.