Matteotti: dal delitto alla dittatura

In un primo momento si era pensato di uccidere Matteotti in Austria, dove il segretario socialista aveva deciso di partecipare ai lavori del congresso della Seconda Internazionale, per far passare il delitto come opera di socialisti stessi a lui contrari. Ma, all’ultimo momento, egli cambiò programma e decise di rimanere a Roma per partecipare al dibattito sul bilancio dello Stato fissato alla seduta dell’11 giugno. Ecco perché non c’era tempo da perdere. Il giorno prima, 10 giugno, Matteotti fu sequestrato e ucciso.

A dire il vero Pietro Nenni, nel suo scritto, Vent’anni di fascismo, ritiene falsa la notizia secondo la quale Matteotti avrebbe sollevato la questione petroli in quella seduta che aveva all’ordine del giorno i conti dello Stato. Ma quella di Nenni, per quanto autorevole, è una sua opinione. Canali riconosce la frettolosità del delitto e la spiega con la necessità di togliere di mezzo Matteotti prima che parlasse un’altra volta alla Camera.

Che il delitto, comunque, nelle sue modalità, si presti a più di un dubbio è nei fatti. L’unico punto che fa pensare ad una pianificazione è il ritiro della Lancia da un noleggiatore il giorno prima, con cui gli uomini della Ceka avrebbero fatto il rapimento. Dopo è un susseguirsi di imprevisti, che pongono degli interrogativi.

Primo. Perché il rapimento fu eseguito in pieno giorno senza preoccupazione alcuna di farlo senza essere visti o lasciare tracce? Chiunque poteva vedere la targa della Lancia e riferirla alla polizia, come poi avvenne.

Secondo. Se l’intento era di ucciderlo, perché non fu previsto anche come sbarazzarsi del corpo e invece si andò in giro senza sapere che farne fino ad improvvisare la sepoltura, scavata con arnesi di fortuna, ai bordi di un boschetto, detto la Quartarella, a venti chilometri da Roma?

Terzo. Poteva l’abitudine di quegli uomini adusi a compiere atti delittuosi, in un contesto di violenze, far trascurare aspetti così importanti? La fretta di sbarazzarsi dell’uomo non basta a spiegare la sciatteria di un gesto che avrebbe avuto un seguito destabilizzante.

La Ceka che eseguì il delitto era un’organizzazione, sebbene non formalizzata, composta da due componenti, una deliberante e l’altra esecutiva. Quest’ultima era formata da un gruppo di una decina di squadristi, già arditi nella Grande guerra, che avevano il compito di punire i nemici del fascismo. Operavano sia in Italia che all’estero, in Francia soprattutto, dove spesso si erano scontrati con gli antifascisti di colà. Erano tutti molto giovani, poco più che trentenni. Al comando c’era Amerigo Dùmini, che prendeva ordini e soldi dal segretario amministrativo del partito fascista Giovanni Marinelli, che a sua volta prendeva ordini da Cesare Rossi, capo ufficio stampa di Mussolini. Alcuni di essi risultavano stipendiati come giornalisti del «Corriere Italiano», diretto da Filippo Filippelli, un quotidiano fondato per fiancheggiare il governo fascista, che di fatto però svolgeva il ruolo collaterale di copertura dell’organizzazione. Molto vicino a questa sorta di agenzia per la sicurezza del partito e del governo, era Aldo Finzi, sottosegretario all’interno, il più deciso avversario di Matteotti, essendo polesano come lui.

Quanto a Filippelli, Ennio De Simone, in un suo libro (Giuseppe Vigneri «Medico di valore, cittadino intemerato»), ci ricorda che è una nostra vecchia conoscenza, nostra cioè di noi leccesi. Calabrese di nascita visse a Lecce, dove il padre faceva l’usciere alla Banca d’Italia. Si laureò a Napoli in giurisprudenza e si sposò con Olga Moschettini, sorella di Consalvo, l’eroe di guerra, dopo una fuga avventurosa. Un tipo intraprendente e spregiudicato, che passava da colpi di fortuna a brutte cadute. Era stato segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, al «Popolo d’Italia», prima di essere direttore del «Corriere Italiano». A suo nome fu noleggiata la Lancia con la quale fu eseguito il rapimento del segretario socialista.

Il delitto Matteotti, che in un primo momento potè sembrare di una soluzione immediata, legandolo al discorso che aveva tenuto il 30 maggio, in un secondo momento rivelò motivazioni diverse. Più che punirlo per quanto aveva detto, Matteotti fu punito per quanto avrebbe potuto dire.  

Ma chi ordì il delitto poteva aver obbedito ad altri mandanti, i quali, all’interno del fascismo, non gradivano le aperture di Mussolini ai socialisti, la sua politica legalitaria e normalizzatrice?

Nel partito fascista, nel 1924, c’era l’ala più oltranzista, che faceva capo a Roberto Farinacci, e a una corrente di pensiero che predicava il cosiddetto fascismo integrale, che aveva il suo strumento di propaganda nella rivista «La conquista dello Stato» di cui era direttore Kurt Erich Suckert, poi diventato Curzio Malaparte. Questa sorta di opposizione interna, che Mussolini temeva più di quella esterna, potrebbe aver avuto interesse ad eliminare Matteotti per indurre il capo del fascismo a finirla con le sue posizioni aperturiste.

Si cercò anche, secondo la testimonianza al processo di Chieti del Suckert, di far passare il delitto Matteotti come una sorta di vendetta per l’uccisione in Francia di Nicola Bonservizi, che, sotto la copertura di corrispondente del «Popolo d’Italia», svolgeva in Francia azione politica e di spionaggio per colpire gli antifascisti. Nella sua uccisione si riteneva che Matteotti avesse avuto una parte.

C’era poi la questione della Sinclair Oil. È lecito chiedersi chi era interessato alla trattativa e chi erano i compromessi. Punto di domanda che va posto non foss’altro che per compiutezza di ipotesi in un caso ben più complesso di quanto appariva all’inizio. È un fatto che la vedova di Matteotti, signora Velia, e il figlio Matteo continuarono a prendersela con Vittorio Emanuele III, senza tuttavia dire mai il perché.

La colpa di Mussolini fu l’aver detto al suo capo ufficio stampa Cesare Rossi le tremende parole contro Matteotti «un tipo del genere non deve circolare», imbufalito per quello che il segretario socialista aveva detto alla Camera il 30 maggio; ma è pur vero che lo stesso Mussolini otto giorni dopo, il 7 di giugno, tenne alla Camera un discorso conciliante e perfino elogiativo dell’opposizione, con aperture ai socialisti e ai sindacati e col ritorno alla legalità. La maggior parte degli storici e gli stessi magistrati hanno ritenuto che si trattò di uno sfogo rabbioso, non configurabile come un “mandato” vero e proprio.

Perché mai Mussolini avrebbe dovuto far ammazzare Matteotti e creare una crisi dagli esiti incerti mentre perseguiva una politica di normalizzazione o, come a lui piaceva dire, di normalità?

Benedetto Croce non credeva in Mussolini “mandante”, il comunista Li Causi riteneva che era stato solo l’ispiratore, Renzo De Felice lo ha escluso. Così tantissimi altri, l’elenco è lunghissimo. Del resto non c’era alcun bisogno che Mussolini desse il mandato dal momento che la banda Dùmini aveva questo compito e Mussolini lo sapeva. Ecco perché a Cesare Rossi, dopo il famoso discorso di Matteotti, disse arrabbiatissimo «Ma questo Dùmini che fa», come a dire perché non ha provveduto?

L’assassinio di Matteotti fu un’iniziativa della cosiddetta Ceka e del gruppo che si aggirava dentro il «Corriere Italiano» di Filippo Filippelli, e operava senza mandato specifico. La Lancia, infatti, fu presa da Amerigo Dùmini, capo della squadra, a nome di Filippelli e fu poi nascosta nel garage di Nello Quilici, segretario di redazione del giornale, dopo essere stata parcheggiata nel Viminale.

Mussolini seppe del delitto dal suo segretario Arturo Fasciolo la mattina dopo e si rese conto della gravità della situazione. Nascose l’avvenuta morte di Matteotti alla moglie quando essa andò a trovarlo per chiedergli notizie del marito; né volle più incontrarla dopo quella prima volta.

Il Paese fu scosso dall’accaduto. Ci fu chi prese le distanze dal fascismo e da Mussolini. Egli incominciò a temere di un isolamento che poteva far precipitare il Paese nel disordine. Le testimonianze di chi lo vide in quei giorni dicono che si aggirava come un pazzo. E lui stesso confessò che in certi momenti pensava di essere rimasto solo a fronteggiare quanti avessero voluto perfino aggredirlo fisicamente. Tuttavia non perse il controllo. Inviava telegrammi ai prefetti, agli ambasciatori, ai federali di tenersi pronti per grandi manifestazioni in favore del fascismo. A Bologna ce ne fu una di cinquantamila Camicie nere.

Anche a Lecce il delitto Matteotti ebbe un’eco importante. Pietro Marti, che dirigeva la rivista «Fede», ebbe ripensamenti, poi negati. Si avvertiva nei socialisti e comunisti una ritrovata fiducia che si potesse riaprire la partita coi fascisti. Ci furono manifestazioni antifasciste e scontri. Chi tenne il punto fu Ernesto Alvino, il futuro direttore di «Vecchio e Nuovo», di «Vedetta Mediterranea» e nel dopoguerra di «Voce del Sud», che chiamò a sé i vecchi squadristi e respinse un’aggressione alla sua casa da parte di antifascisti.

Le opposizioni pensarono di ritirarsi dal Parlamento, fecero il cosiddetto Aventino, un’iniziativa che si rivelò subito sterile, se non controproducente, tanto che dopo un po’ la componente comunista tornò in Parlamento.

Mussolini mise mano alla legge sulla stampa, fino ad allora regolata dall’Editto albertino del 1848. Mise i giornali sotto il controllo dei prefetti, ai quali impartì disposizioni di prevenire disordini e comunque di reprimerli.

Quando fu trovato il corpo di Matteotti, il 16 agosto, ormai il peggio per Mussolini era passato. Secondo Canali fu tutta una messinscena, Mussolini sapeva perfettamente dove era stato sepolto. La data fu scelta sicuramente sapendo che il periodo estivo in genere la gente è più distratta. E in effetti non ci furono particolari iniziative. Ma il feretro, da Roma a Fratta Polesine, fu salutato da migliaia e migliaia di persone per tutto il tragitto.

I mesi che seguirono videro crescere l’impazienza degli intransigenti del Partito fascista, i quali erano infastiditi dalle indecisioni di Mussolini che finivano per favorire le opposizioni. Alla fine dell’anno alcuni consoli della Milizia si recarono da Mussolini con la scusa degli auguri per l’anno nuovo. In quella circostanza gli espressero la loro decisione di prendere in mano la situazione e di risolverla con la forza se lui non si fosse deciso ad uscire dagli equivoci. Mussolini, secondo De Felice, cercò di tergiversare, ma di fronte alla loro determinazione rispose che se ne sarebbe occupato lui. Pochi giorni dopo, il 3 gennaio del 1925, Mussolini pronunciò alla Camera lo storico discorso che diede inizio alla svolta autoritaria.


[Intervento al Convegno “Il delitto Matteotti e le ricadute politico-culturali nella periferia italiana – Nascita e consolidamento di una dittatura in Terra d’Otranto”. Lecce, Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini, 11 ottobre 2024]

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