L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo III. La scelta del volgare

Come si sa, nel De Vulgari eloquentia l’Alighieri proporrà una diversa valutazione del rapporto tra latino e volgare, con la celebre formula nobilior est vulgaris (D.V.E., I, i, 4). Ora, senza voler esaurire l’argomento, poiché altro è l’attuale oggetto d’indagine, si consideri solo che nel De Vulgari eleoquentia cambia il punto di vista dell’Alighieri, non più impegnato nella giustificazione della scelta del volgare, le cui motivazioni nel Convivio sono d’ordine intrinseco (“lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile”) e, come ancora vedremo, personale ed autobiografico; nel De Vulgari eleoquentia l’Alighieri è bensì intento a ricondurre nel grande alveo della storia sacra anche il fatto linguistico (il racconto del primo parlante, Adamo, la torre di Babele, ecc.), sicché allora le motivazioni che suffragheranno la scelta del volgare (“(…) tum quia prima  fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa [la latina, già definita locutio secundaria (D.V.E., I, i, 3)] potius artificialis existat” (D.V.E., I, i, 4) [3]), pur essendo molto simili a quelle addotte nel Convivio, acquisteranno il loro significato proprio dal contesto teologico e biblico nel quale l’Alighieri le inquadra. La lingua volgare recante in sé una storia di decadenza, di peccato (la torre di Babele) e di dolore (la dispersione del genere umano sulla terra), sarà sì semplice strumento al servizio della verità, ma anche oggetto da ricercare, studiare e perfezionare, nella consapevolezza che il giudizio di valore sul linguaggio degli uomini dipende, come tutte le cose create, dalla valutazione della distanza che lo separa dal Creatore, e quindi dalla consapevolezza che l’intellettuale ha del significato ultimo del piano provvidenziale divino, e non dal riconoscimento della utilità pratica del linguaggio medesimo, cosa in sé caduca. È significativo il cambiamento del punto di vista, che già nel De Vulgari eleoquentia da umano diventa divino, da relativo diventa assoluto: non siamo ancora nell’orbita della Divina commedia, ma poco ci manca.

Per tornare al nostro assunto iniziale, un secondo motivo induce l’Alighieri a scrivere in volgare anziché in latino: è la “pronta liberalitade”, la quale si può “in tre cose notare (…). La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello” (Conv. I, viii 2). Seguiamo l’argomentare del narratore, estrapolando dal testo:

” (…) lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti (…).

Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d’utile dono che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in quanto è usata (…). Lo dono veramente di questo comento è la sentenza delle canzoni alle quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, (…).

Ancora, darà lo volgare dono non dimandato, che non l’averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato (…). E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che allo latino (…). (Conv. I, ix, 4-11)

La “cautela di disconvenevole ordinazione” e la “pronta liberalitade” ci conducono diritti al terzo motivo della “scusa”. Difatti

“l’ordine della intera scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propia loquela (…). Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad essere geloso di quello; l’altra è a difendere lui (…). E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo quale naturalmente ed accidentalmente amo ed ho amato (…)”. (Conv. I, x, 5-6)

Inizia qui la parte propriamente autobiografica della difesa del volgare. La scelta del commento in lingua volgare alle canzoni volgari e la dichiarazione della propria “pronta liberalitade” non bastano a dimostrare la validità della medesima scelta. Occorrono ragioni profonde, intrinseche alla finzione dantesca, se si vuol legittimare appieno l’uso del volgare. Queste ragioni sono ancora una volta rinvenute nell’autobiografia. Dante ora parla in qualità di amante che deve “magnificare”, deve “essere geloso” e “difendere” il proprio oggetto d’amore: il volgare, che egli ha amato e continua ad amare. Ma prim’ancora di mostrare la necessità della scelta del volgare sono passate in rassegna e biasimate le opinioni dei detrattori che, per “cinque abominevoli cagioni” (tali che veramente “tuonano come maledizioni”[4]), negano la “bontade” del volgare. Elenco le “cinque cagioni”, senza però seguirne la definizione, per la quale rimando il lettore al testo:

“La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e l’ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità.” (Conv. I, xi, 2)

Questa classificazione prelude alla conclusione della difesa della lingua volgare, annuciata da una similitudine, grazie alla quale l’Alighieri, con sottile e penetrante ironia, mostra come inevitabile la scelta del volgare:

“Se manifestamente per le finestre d’una casa uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi domandasse se amore alla mia loquela propria [sia] in me e io rispondessi di sì, appresso le su mostrate ragioni.” (Conv. I, xii, 1)

Con questa “scenetta francamente deliziosa” [5], che potrebbe essere addotta come “segno palpabile dell’umanissimo realismo di Dante” (si noti l’uso dello stilema colui), del suo “antropomorfismo”, così ben studiato nella Divina Commedia da Tibor Wlassics[6], l’autore dimostra di difendere  consapevolmente una causa già vinta in partenza. Un trattato scritto in prosa volgare è un fatto nuovo, strano, eppure necessario[7]. La tradizione non tollera l’evento nuovo, né sa in che modo vi si possa opporre. Dante immagina i suoi ipotetici lettori in preda a meraviglia e stupore, immobili e impotenti, e li paragona a due curiosi personaggi che, dinanzi a “fiamma di fuoco” che “uscisse per le finestre d’ una casa”, increduli nonostante ogni evidenza, si limitassero a rivolgersi domande a cui i fatti già danno una terribile ed inequivocabile risposta.

Segue la rivendicazione del diritto di scrivere in volgare, perché questa è la lingua dell’autore, per la quale egli sente “non solamente amore, ma perfettissimo amore”, acquisito e grazie a “cagioni generative” e grazie a “cagioni accrescitive”. Le une sono la “bontade” e la “prossimitade”, le altre “lo beneficio, lo studio e la consuetudine” (Conv. I, xii, 2-3). Non seguirò la dettagliata analisi di queste “cagioni”, rimandando per ciò il lettore al testo del Convivio. Analizzeremo invece un passo in cui Dante definisce la nozione di “bontade” del volgare. Leggiamo:

“Ancora, la bontade fece me a lei amico. E qui è da sapere che ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì com’è nella maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben pulita di barba in tutta la faccia; sì com’è nel bracco bene odorare, e sì com’è nel veltro ben correre. E quanto ella è più propria, tanto ancora è più amabile; onde, avegna che ciascuna vertù sia amabile ne l’uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente ne la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne la volontade. Questa è tanto amabile, che, come dice lo Filosofo nel quinto dell’Etica, li suoi nimici l’amano, sì come sono ladroni e rubatori; e però vedemo che ‘l suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno, e loro simili. Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sé de l’infamia di quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di sé, sì come detto è di sopra, e possa dire sé essere fedele e leale. Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato; e qui lasciando, torno al proposito. Provato è adunque la bontà della cosa più propria [più essere amabile in quella; per che a mostrare quale in essa è più propria,] è da vedere quella che più in essa è amata e commendata, e quella è essa. E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto è più amato e commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con ciò sia cosa che questa sia nel nostro volgare, sì come manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è ched ella è de le cagioni stata de l’ amore ch’ io porto ad esso; poi che, sì come detto è, la bontade è cagione d’amore generativa.” (Conv. I, xii, 8-13) [8]

Una “digressione” interviene tra il proposito di chiarire il significato di “bontade” del volgare e il chiarimento medesimo che si risolve in poche parole alla fine del capitolo citato. Se col termine “bontade” s’intende ciò che vi è d'”amabile” in “alcuna cosa”, la “bontade” dell’uomo sarà riconoscibile nella sua massima virtù: la giustizia. Il suo contrario, l’ingiustizia, induce l’uomo ad “iscusare sé dell’infamia” che l’accusa di vari delitti potrebbe arrecargli e, dunque, consente a chi ne fosse vittima, di parlare di sé, “sì come detto è di sopra, e possa dire sé essere fedele e leale”. Il chiaro ed esplicito riferimento testuale alle ragioni del “parlare di sé” ci autorizza a leggere questa “digressione” alla luce di Convivio I, ii. Certamente nella “digressione” citata non v’è nulla di nuovo, che cioè non sia stato già scritto in quel capitolo. Eppure la ripetizione, inserita quasi a conclusione del I trattato, dove Dante deve formulare le ultime e decisive ragioni della scelta del volgare, acquista un sapore tutto particolare, coerente senza dubbio con il resto del dettato dantesco, e ricco di verità per ciò che riguarda la difesa della propria “loquela”. La nostra interpretazione di Convivio I, ii ci fa ravvisare in questa “digressione” un pensiero onnipresente tra le righe dell’opera: la “scusa” per l'”infamia”, a cui il personaggio autobiografico soggiace a causa degli scritti precedenti (le canzoni, ma anche la Vita Nuova, cui si dovrà “giovare”) e della propria vicenda. Come non pensare, infatti, che l'”ingiustizia” di Conv. I, xii, 10 sia proprio l’ingiustizia di cui Dante si sente vittima, secondo quanto è detto in Conv. I ii, che egli sente di poter eliminare soltanto con la propria opera fondata sulla “bontade” che è la qualità propria della “giustizia” rivendicata dal poeta? Ed è forse un caso che nel Convivio l’autore dichiari che suo fine precipuo è quello di “inducere li uomini a scienza e a vertù” (Conv. I, ix, 7)? Nel momento in cui le vicende della vita costringono l’autore ad andare esule per le corti d’Italia, in quel preciso momento Dante fonda la propria finzione autobiografica (definizione, si badi, letteraria, non già moralistica), centrata su un ideale di giustizia, e pertanto contrapposta all’ingiustizia a torto subita. L’autore risponde alla durezza della realtà e degli uomini nell’unico modo propriamente letterario, fondando il mito dell’exul immeritus, e contemporaneamente, nel De vulgari eloquentia, del cantor rectitudinis. E già in questa pagina, la “bontade” propria dell’uomo, la giustizia, appare come una qualità intrinseca alla “loquela” volgare che pertanto ne riceve un’ulteriore legittimazione contro ogni tradizione linguistica. Se mai una “digressione”, che per sua natura sfugge agli schemi logici che sovrintendono di norma alla ricostruzione critica, può autorizzarci ad una simile affermazione, noi crediamo che la scelta del volgare sia una scelta autobiografica; difatti soltanto in volgare il personaggio dantesco può “iscusarsi della infamia” e rivendicare la propria “bontade”, cioè il proprio “essere fedele e leale”, perché il volgare, per la sua “bontade”, è riconosciuto come l’unica lingua adatta alla rivendicazione della virtù principale dell’uomo: la giustizia; e questa rivendicazione è strettamente connessa, come si è visto, alla finzione dantesca del parlare di sé.

La causa del volgare è già vinta. Manca la perorazione, il tocco finale, il motivo ultimo e sovrano che impedirà qualsiasi altra opposizione. Tutte le ragioni elencate, sia quelle riferite alla logica strutturale dell’opera (la “cautela di disconvenevole ordinazione”), sia quelle che mostrano la “liberalitade” di chi narra, preparano la conclusione di questo capitolo, in cui, è stato detto, “Dante ha scritto la sua apologia e una pagina autobiografica”[9], e incalzano l’autore perché innalzi, a conclusione del il I trattato del Convivio, il suo “canto d’amore”[10]: Leggiamo:

“Questo mio volgare fu congiungitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come il fuoco è disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. Ancora: questo mio volgare fu introduttore di me nella via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più innanzi andare. E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo benefattore.” (Conv. I, xiii, 4-5)

Parlano qui, in difesa del volgare, ragioni vitali ed imprescindibili, intimamente connesse alla vicenda autobiografica narrata, che danno quel “tono apologetico al Convivio[11] che non può non essere notato. Il volgare è la lingua trasmessa dai genitori, senza la quale l’Alighieri non sarebbe mai giunto al latino. Ecco il motivo per il quale, malgrado egli insista nel dire che il latino “poi mi fu via a più innanzi andare”, la scelta del volgare alla fine appare non solo giustificata, ma anche ineludibile; e questa scelta è, ripetiamo, legata alla necessità improrogabile di parlare di sé, all’autobiografia. “Gli è che alla radice della posizione linguistica del Convivio stanno ragioni affettive e personali piuttosto che argomentazioni tecniche: che muovono a sdegno il poeta contro “li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano” (I, xi, 1), lo avviano a confessioni personali, veri e propri ricordi, esami di coscienza da letterato” [12].

Comprendiamo a questo punto l’enfasi (si noti l’uso dell’anafora Questo… Questo… che innalza il tono già alto del discorso) motivata dalla consapevolezza d’aver vinto la propria causa, con la quale ha termine il I trattato del Convivio:

“Così, rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule, e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce.” (Conv. I, xiii, 11-12)

Con questa “appassionata profezia”[13] l’Alighieri ci ha convinto che la sua opera è necessaria e nel modo in cui è scritta (la struttura narrativa) e nella lingua che egli adopera per comunicare (il volgare). Ancora, ha dato corpo al suo personaggio autobiografico e lo ha arricchito di sempre nuovi contenuti, perché difendendo la particolare struttura dell’opera e la causa del volgare, Dante ha difeso (costruendo) se stesso in quanto personaggio autobiografico (dall'”apologia del volgare all’apologia sua propria” come voleva l’Apollonio[14]) e in quanto portatore di tutte quelle istanze che man mano è venuto disceverando dalle prime parole dell’opera fin qui. Il Convivio è questa finzione condotta dal sapiente autore fino ai suoi estremi limiti, alle possibilità immanenti, che si impongono via via con la forza della necessità; questa finzione è l’origine e il fondamento del “protagonismo intellettuale” dantesco, che fa di Dante il “primo intellettuale dell’età moderna”, come ben vide il Battaglia[15].

Abbiamo ripercorso il cammino impervio seguito dal personaggio autobiografico che afferma di dover commentare le proprie canzoni secondo i quattro sensi d’interpretazione della poesia, e di doverlo fare con “gravezza” e “durezza”, e in volgare, per scusarsi dell’infamia a cui soggiace, e a causa delle canzoni fraintese e dell’esilio. Vari fatti, istanze le più diverse tengono insieme e formano, complesso e coerente, il personaggio autobiografico dantesco. Chiuso in se stesso, inattaccabile come una torre medievale, eppure sempre pronto ad acquisire nuove idee e modi d’essere, può essere già considerato una forma matura, pur nella sua provvisorietà e inquietudine, del viator Dei che passerà per i regni dell’oltretomba, e dello scriba Dei che renderà conto, in volgare, del suo viaggio a Dio.

Conviene fermarci, ora, e tornare ad analizzare quel testo che è all’origine della formazione del personaggio autobiografico del Convivio e di tutta la finzione dell’opera: la Vita Nuova. Il Convivio, difatti, eredita la finzione della Vita Nuova e su di essa fonda la propria.

Note

[1] Sull’argomento cfr. A. Vallone, La prosa del “Convivio”, Firenze 1967, pp. 13-14 e relativa bibliografia.

[2] Sull’ argomento cfr. B. Nardi, Il linguaggio, in Dante e la cultura medievale, Roma-Bari 1984, pp. 178-182, pubblicato la prima volta nella Miscellanea dantesca del Giorn. stor. lett. ital. suppl. 19-21 (1921) pp. 245-264.

[3] “(…) intanto perché è stata adoperata per prima dal genere umano; poi perché il mondo intero ne fruisce, benché sia differenziata in vocaboli e pronunce diverse; infine per il fatto che ci è naturale, mentre l’altra è, piuttosto, artificiale” (traduzione di P. V. Mengaldo, in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, in Opere minori, vol. III, tomo I, Milano-Napoli 1996 (1979), p. 33).

[4] M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 476.

[5] La definizione è di Maria Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, cit., p. 72.

[6] Antropomorfismo dantesco, in Dante narratore. Saggi sullo stile della Commedia, Firenze 1975, pp. 141-164. La citazione è a p. 163.

[7] Scrive G. Gentile, Dante nella storia del pensierto italiano, in Studi su Dante, cit., pp. 15-16: “Certo è quello [il Convivio] il primo libro di filosofia scritto in italiano. E l’Autore ebbe consapevolezza dell’importanza di questo fatto; perché, a dire la ragione ond’era mosso all’uso del volgare anzi che del latino, consacra quasi tutto il primo trattato del libro (capp. 5-13)”.

[8] Il corsivo è nostro.

[9] G. Fallani, Dante autobiografico, Napoli 1975, p. 155. Concorda M. Guglielminetti, Memoria e scrittura, cit. p. 86, per il quale è questo il “momento autobiograficamente più radicato dell’ intero libro”.

[10] G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano, in Studi su Dante, cit., p. 18: “(…)[Dante] scioglie un canto d’amore che male è frenato dal procedimento raziocinativo e scolastico, con cui l’autore vuole provare il perché dell’amor suo (…). Il volgare Dante se lo sente proprio nell’anima; nel volgare vede dentro sé plasmato il suo pensiero filosofico;”.

[11] M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 461. Ma si leggano anche le pp. 463-464 in cui il critico individua “lo stretto legame tra il trattato e la situazione biografica e politica  che lo aveva determinato”.

[12] A.E. Quaglio, Convivio, in AA.VV., Dante minore, Firenze 1965, p. 54. Alla stessa conclusione giunge M. Marti, Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, p. 14, a proposito del De Vulgari eloquentia, quando afferma: “(…) se noi esplorassimo in profondità le ragioni dei giudizi danteschi (non quelle tecniche, irrefutabili, ma le critiche e di gusto) (…) ci accorgeremmo che alla loro origine c’è insomma un movente autobiografico e sentimentale, e dunque in buona parte irrazionale e tendenzioso (…)”. E ancora: “Quelle pagine [del De vulgari eloquentia] hanno solo l’apparenza di un trattato, ma in realtà sono un’autobiografia, ricca d’impulso e di umori, di simpatie e di antipatie, spesso irrazionali o almeno difficilmente spiegabili” (ibidem, p. 33). Peccato solo che il critico intenda il temine autobiografia come mero resoconto della propria esistenza, e non vi scorga, invece, la creazione da parte del poeta della propria finzione narrativa.

[13] A.E. Quaglio, Convivio, cit., p. 53.

[14] M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 476.

[15] Cfr. S. Battaglia, Mitografia del personaggio, pp. 513-514; si rimanda inoltre ai saggi dello stesso autore contenuti in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, cit., passim.

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