Scrive Giorgino immediatamente in apertura dell’Introduzione. Eterodossie meridiane nella poesia italiana contemporanea (pp. 7 e 8): «Il consenso riservato alle riflessioni attorno alla spazialità nelle discipline umanistiche – il cosiddetto spatial turn – nella particolare declinazione assunta di volta in volta negli studi letterari (geocritica, geopoetica, ecocriticism e dintorni) permette di riconsiderare l’attualità e la vitalità di alcune impostazioni metodologiche, anche ambiziose e di ampio respiro, che nel recente passato […] hanno indagato lo sviluppo di traiettorie, correnti o anche singole esperienze letterarie italiane osservandole dalla specola del rapporto centro vs. periferia; e anche del policentrismo, potremmo dire di secondo livello, che le metteva in relazione con poetiche “importate” da grandi centri di cultura d’oltreconfine come Parigi, Londra, Madrid ecc. Lontana dal favorire rigurgiti identitari e derive regionalistiche, questa chiave prospettica consente di studiare, forse più in profondità, il funzionamento del complesso meccanismo di fattori ambientali, stilistici, antropologici, sociologici, alla base del “prodotto letterario” […]. Una geografia della letteratura, o quanto meno un approccio geografico alla letteratura, chiarisce allora […] come la dialettica che si sviluppa sull’asse vettoriale Heimat-Weltliteratur, passando ovviamente per un confronto/scontro con i tradizionali centri irradiatori (Firenze, Roma, Torino, Milano) delle poetiche percepite come egemoni sul territorio nazionale – o alle quali viene comunque riconosciuta una funzione modellizzante, sia pure per ridiscuterla e rovesciarla – possa ricoprire un ruolo importante per la piena comprensione delle ragioni che soggiacciono alla formazione di nuove tendenze o perfino alla contestazione del canone fin lì invalso; e contribuire così alla sua messa in mora e alla sua rideterminazione».
Anche questo nuovo lavoro critico di Giorgino è teso, allora, a dimostrare come sia errata e fuorviante l’esclusione dei poeti salentini da un qual certo “canone del Novecento” (ma non si dimentichi che l’esistenza stessa di un tale canone è ormai fortemente messa in discussione a livello nazionale, specialmente nell’alveo del dibattito intorno alle scritture di ricerca, al cosiddeto “cambio di paradigma” e alle ricadute della Neoavanguardia, della poesia visiva, delle scritture asemiche, della letteratura cosiddetta elettronica, eccetera a partire almeno dagli anni Sessanta del Novecento): «Gli autori esaminati […] compaiono solo di rado nelle antologie, pur avendo partecipato al più aggiornato dibattito letterario e artistico della loro epoca» (p. 10) e, più avanti, lo studioso scrive: «La diversità di Bodini e degli altri poeti del Finisterre ha dunque a che fare con la loro dissidenza rispetto a una norma stabilita, manifestata con pratiche scrittorie anche radicalmente originali e una ricerca linuistica ora costruita sull’esercizio virtuosistico di sottili variazioni che increspano appena la superficie del dettato (in Comi e in Carrieri), ora caraterizzata da una hybris forsennata e metamorfica (in Bodini e in Pagano), o addirittura barbarica e deflagrante (in Bene), riconducibile nell’alveo del barocco, inteso ovviamento in senso più ampio come atteggiamento estetico contrapposto al classico; e inteso in senso “ambientale”, cioè come spirito del luogo, genius loci: un barocco “indossato”, nei loro versi, come una maschera, rigogliosa di efflorescenze, che nasconde la vacuità e caducità del reale, e sembra riflettere, a livello espressivo e figurale, l’oltranza decorativa che informa alcune mirabili architetture del loro territorio di appartenenza» (pp. 11 e 12).
Se il “canone” è quello degli autori pubblicati (e commercializzati – non si tralasci affatto l’aspetto economico-finanziario) dalle grande case editrici del Nord (o, per bene che vada, di Roma), se esso è quello costruito dall’attività di critici che hanno privilegiato alcuni poeti rispetto ad altri, ebbene Simone Giorgino torna a riflettere sulla questione facendo ricorso ad agguerriti e aggiornatissimi strumenti critici, assumendo una postura anti-provinciale e anti-sciovinista, dimostrando, al contrario, il respiro nazionale e ancor più sovranazionale (certamente europeo) dei poeti studiati – la sua non è affatto la solita lamentatio di chi proviene da contesti che si sentono ingiustamente esclusi e trascurati, ma è l’atteggiamento lucido e determinato di chi vuole rovesciare una situazione criticandola in maniera puntuale, decostruendone ogni aspetto al fine di costruire un discorso ben più corretto e fecondo.
È noto che sia stato Flavio Santi a proporre l’espressione e il concetto di “linea borbonica” per definire quei poeti d’origine meridionale i cui testi sono caratterizzati da scelte stilistiche e contenutistice nettamente diversi dalla (“vincente”) linea lombarda, mi auguro che sia altrettanto noto che sia stato Antonio Leonardo Verri a parlare di una “linea bizantina” riferendosi a un sentire e a un modo di scrivere che trovano nell’identità salentina (non escludente, ma includente) il proprio punto di partenza perché così stratificata, mediterranea, mescidata, profondamente intrisa di un senso del tempo storico che risale indietro fino a un’arcaicità da considerarsi nel senso etimologico di ἀρχή / origine e principio legato anche all’elemento naturale e mitico.
Simone Giorgino sceglie l’espressione “una linea meridiana” a mio avviso sia per contemperare le posizioni di Santi e di Verri, sia per riferirsi all’insegnamento di Franco Cassano, il cui nucleo vitale è l’invito a smettere di considerare il Sud quale terra della mancanza e del ritardo rispetto a un Nord “attivo” e “progredito” (modello coinsiderato da seguire o, in questo caso, da inseguire), cogliendo invece e coltivando quelle peculiarità delle civiltà meridiane che ancora sarebbero in grado di costruire un mondo non alienato né disumanizzato, dunque altro dal mondo assoggettato al dominio del capitale e del profitto.
Si tratta senza dubbio di un discorso di carattere antropologico, storico, sociale, culturale e politico cui il libro di Giorgino non si sottrae, ma che viene attuato passo dopo passo nel riflettere sui poeti presi in considerazione; per questo il concetto-figurazione di “barocco” risulta essere ancora più ricco e pregnante poiché rovescia quello che è stato finora considerato negativo e provinciale in una presenza feconda e aperta a realtà altre: il barocco visibile nelle migliaia di edifici sparsi in Terra d’Otranto, il barocco che lega Salento e Penisola iberica viene a essere, in più, un atteggiamento e una categoria del pensare e del sentire, una tendenza a eccedere i confini, a liberare l’immaginazione dalle briglie della razionalità (quella stabilita da istituzioni autoritarie e che per secoli hanno escluso e sfruttato le classi subalterne). Mi vengono in mente il pensiero eretico di Giordano Bruno (non si dimentichi anche scrittore eccelso nella sua inventività linguistico-sintattica davvero unica e forse irripetuta, a meno che non si possa accostargli l’eretico ed eccessivo e genialmente inventivo Carmelo Bene), il moto tellurico della poesia di Tommaso Campanella, l’immersione nella fecondità del dialetto di Giambattista Basile, la sapienza artigianale di anonime maestranze capaci di realizzare le visioni architettoniche di Giuseppe Zimbalo e di Giuseppe Cino, tra gli altri, che a mio parere costituiscono un possibile sostrato che nel Novecento figlia testi e libri nei quali, come efficacemente dimostra Simone Giorgino, è il corpo a corpo con la lingua (o con le lingue, compreso il dialetto, in taluni casi) l’elemento caratterizzante e spesso trascurato sia in sede critica che storico-letteraria. Non è di poco conto, mi permetto di suggerire, che dal Mezzogiorno provengano i testi “barocchi”, appunto, di Lucio Piccolo, un’opera-mondo come Horcynus Orca, le sperimentazioni linguistico-espressive di Jolanda Insana, l’immaginazione stratificata di esperienze culturali differenti di Giuseppe Bonaviri, le contaminazioni linguistiche di Vincenzo Consolo, il trilinguismo di Michele Sovente, il bilinguismo di Francesco Nappo, le ardue costruzioni linguistiche e concettuali che scavano nelle stratificazioni siculo-mediterranee di Maria Grazia Insinga, l’endecasillabo di lavica esuberanza di Alfonso Guida (e molti altri ne dimentico, del che mi scuso) – e perché non mettere nel conto anche la fotografia di Mimmo Jodice (specialmente quella che indaga il Mediterraneo e la sua archeologia tutt’altro che musealizzata), quella di Letizia Battaglia, di Ferdinando Scianna, di Giovanni Chiaramonte o la cinematografia di Mario Martone? Come dimenticare l’attività di Rina Durante e la fondazione del Canzoniere Grecanico Salentino o le incursioni di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret? È così che continua a prender corpo un “eretico barocco” copioso di nomi insigni e di alta qualità nei risultati e questo lavoro di Simone Giorgino si profila anche come una tessera aggiunta a una linea di ricerca complessa che attende ancora molte altre tessere capaci di svilupparla.
Girolamo Comi è una sorta di “patriarca” della poesia salentina del Novecento, colui che con generosità si spese per tanti poeti pù giovani di lui, il fondatore dell’Accademia Salentina e della rivista L’Albero, poeta che, dopo esperienze nei maggiori centri culturali italiani ed europei, decise di tornare nella sua Lucugnano per dedicarsi, con scelta quasi monacale, alla poesia.
Con ammirevole acribia Giorgino ripercorre la storia della poesia comiana e dei travagliati rapporti con la critica contemporanea e mi piace sottolineare come subito emerga la figura e l’attività meritoria di Donato Valli, uno degli allievi prediletti di Comi, instancabile studioso dei poeti salentini del XX Secolo cui va, insieme con Oreste Macrì e Mario Marti, l’indubbio merito di aver compreso l’originalità e l’importanza di tali poeti tracciando un solco fecondo per studiosi più giovani come Antonio Lucio Giannone e, appunto, Simone Giorgino – in qualche modo Eretico barocco salda in maniera eccellente il proprio debito nei confronti di quella che non esito a definire “devozione” di Valli ai poeti salentini frequentati di persona, letti, amati e perfettamente compresi e, seguendo le suggestioni che emergono dal libro di Giorgino, tutto è accaduto in controtendenza rispetto al silenzio o agli equivoci che per lungo tempo hanno circondato poeti come Girolamo Comi il quale, malgrado i suoi legami con alcune delle personalità più importanti e accreditate della poesia e dlela critica italiana, sembrò venire ignorato quando non osteggiato e disprezzato, cosa di cui egli molto ebbe a soffrire. A tal riguardo notevole è la sensibilità e la delicatezza con cui Simone Giorgino affronta il tema dei rapporti di Comi con i suoi contemporanei e dei sentimenti ch’egli nutrì, specialmente quando si sentiva dimenticato o trattato con sufficienza; egli pagò l’aristocratica scelta di vivere in un centro lontanissimo dai poli culturali dominanti, di coltivare amicizie e sodalizi poetico-culturali restando nella sua casa e, nello stesso tempo, dentro gli spazi raffinatissimi dei propri testi e (anche questo Giorgino mette magistralmente in evidenza) percepibili e apprezzabili soltanto per minime variazioni, per sprezzature del dire che avevano (hanno) bisogno di un orecchio molto attento e veramente disposto ad ascoltare. È in tal modo d’estremo interesse, seguendo lo snodarsi del macro-saggio, constatare quanto l’isolamento e la distanza dai centri culturali nazionali abbiano determinato un’esclusione e un’eclissi di presenze poetiche la cui “eresia” continua a costituirne, invece, la forza e il valore capaci di essere per generazioni più giovani ispirazione e incoraggiamento. Ecco perché l’espressione “Casa Comi” («Casa Comi diventa […] uno straordinario presidio culturale, frequentato da poeti, scrittori, critici illustri» scrive Giorgino a p. 21 riferendosi agli anni dell’Accademia salentina e dell’Albero) non è solo un’indicazione geografico-cronologica, ma anche una dimensione del pensare la poesia quale discorso radicalmente ed ereticamente altro rispetto agli usi utilitaristici e banausici del linguaggio, ospitale direbbe Antonio Prete – la riscoperta attualmente in atto della poesia di Girolamo Comi e le vicende della sua casa, della biblioteca e dell’imponente archivio costituiscono non casualmente la seconda parte del macro-saggio. Inoltre l’uso ricorrente nell’intero studio del sintagma “nel / del Finisterre” è spia linguistica che conferma la prospettiva entro cui si muovono le ricerche di Giorgino: il Salento (o Terra d’Otranto) è regione “ai confini della terra”, “margine”, distanza dalle varie capitali e la scelta dei suoi poeti di vivere e lavorare in quelle terre è scelta precisa e consapevole di muoversi nella periferia, trovandovi mezzi e ragioni per una scrittura non omologata e per niente incline a compiacenze e a compromessi.
Il macro-saggio dedicato a Raffaele Carrieri (il più breve dei cinque) rintraccia nella vita e nell’opera del poeta tarantino i molteplici rapporti in special modo con artisti figurativi, l’attitudine nomade e libertaria, il legame con la propria matrice magnogreca e con la Spagna; Eretico barocco percorrendo questi sentieri continua così a tratteggiare le caratteristiche peculiari della “linea meridiana” salentina sempre intesa a rapportarsi con esperienze di altri luoghi (anche molto distanti), a intessere relazioni amicali e artistiche, a farsi nomade pur restando tenacemente legata alle proprie radici geografiche, storiche e culturali. Appare questo un punto di forza che rende necessario riscoprire Carrieri, tornare a leggerlo, meditarlo, l’essere egli un Salentino figlio contemporaneamente del mare (anzi, di due mari) che senza interruzione lo richiama e di una terraferma antica per fondazione, miti e cultura, di una Taranto-Salento ancora profondamente magnogreca (Archita e Leonida sono certamente i padri nobili di Carrieri), ma anche spagnola, lorchiana (molto belli i passaggi che Giorgino dedica al sodalizio tra Carrieri e Cantatore e al loro lavoro comune consacrato alla Spagna, El cigarillo edito da Scheiwiller nel 1956).
«Le suggestioni lorchiane nella poesia di Carrieri si manifestano in vari modi e a diversi livelli, sia stilistici sia tematici: la predilezione per la cultura e le tradizioni (anche poetiche) popolari, magari prossime all’oralità e perciò cantabilissime; l’attenzione al territorio, che emerge, per esempio, anche attraverso il frequente uso di toponimi, ma che è soprattutto un territorio che si vuole rappresentare nel tentativo di isolarne la quintessenza, il segreto più nascosto, il duende; l’alone di magia che circonda la realtà, osservata con un innocente, fanciullesco candore: meccanismo che innesca e giustifica l’oltranza metaforica tipica dei loro componimenti; la predilezione per i versi esatti, compiuti in sé stessi, che si allungano solo raramente in enjambement» (p. 44) – si potrebbe trasformare Eretico barocco in un diagramma sul quale, seguendo lo sviluppo dei macro-saggi, annotare le caratteristiche distintive di questa “linea meridiana” e si avrebbe davvero la descrizione esauriente e lucida di una linea di poesia (ma non solo) peculiare, perfettamente identificabile, originale e feconda anche per il futuro. Il duende, per esempio, lo spirito dei luoghi, ciò che fa sì che un luogo sia proprio quello e nessun altro, l’identità non escludente, ma irrinunciabile, la radice profonda (che non impedisce il muoversi e l’incontro) è segnalazione preziosa specialmente in un tempo come l’attuale in cui tutto sembra svenduto in nome di una “industria” turistica di molto dubbio valore (e, in riferimento al mio Salento, sto pensando qui, per esempio, al tarantismo e alla pizzica, spesso ridotti a fenomeni da baraccone e a facili, stupide cartoline estive, là dove la sofferenza, la subalternità, la creatività, l’energia inconscia e tellurica, la continuità con la Grecia e le civiltà pre-greche di cui musica e tarantismo sono la manifestazione vengono ignorate). Chi si definisce poeta deve innanzi tutto studiare, imparare da chi lo precede, curare la memoria (che è anche conservazione molto concreta degli archivi, delle carte, delle biblioteche dei poeti) – – – anche tutto questo è Eretico barocco.
Non trascurabile è l’impostazione del macro-saggio dedicato a Vittorio Bodini perché ci si sofferma da un lato sulla genesi, il farsi e le ragioni di Metamor e dall’altro sull’amicizia tra il poeta leccese e Rafael Alberti. Trovo infatti interessante e necessario che si studi la produzione poetica bodiniana successiva alla Luna dei Borboni sia perché il poeta cercò con testardaggine (e anche con disperazione) un modo per mettere in relazione poesia e modernità industriale senza farsi arruolare da alcun movimento attivo negli anni Sessanta, ma perseguendo una propria personale ricerca che non fu aliena da dubbi, sofferenza, incertezze, sia perché proprio questa seconda stagione bodiniana è forse ancora poco indagata. Ecco: la “linea meridiana” non ignora affatto i radicali cambiamenti economici e sociali intervenuti con l’industrializzazione dell’Italia, ma, in Bodini, si confronta con essa, cerca nel linguaggio e attraverso il linguaggio la strada per dire in poesia (se è possibile) tale modernità e proprio da territori che o saranno ancora tenuti ai margini o che saranno forzosamente e tragicamente industrializzati (si pensi soltanto alle acciaierie di Taranto e al petrolchimico di Brindisi).
Il rigore filologico che costituisce l’ossatura di ogni macro-saggio si esplicita particolarmente in quei momenti in cui vengono segnalate, a ragione, le forzature e le imprecisioni commesse da Oreste Macrì nell’ordinare e nel pubblicare nel volume di Tutte le Poesie bodiniane riedite dall’Editore Besa di Nardò nel 2004 i testi in versi del “secondo” Bodini – anche in questo senso Eretico barocco assume l’ottimo ruolo di promemoria per i lavori da avviare nei confronti di un’opera qual è quella di Vittorio Bodini, tutta ancora aperta a un attento studio filologico, a una riconsiderazione delle sue premesse e dei suoi risultati (più o meno completi) – e mi sia permessa un’intrusione di carattere puramente sentimentale, ma tutti quei Salentini che amano la poesia bodiniana e vi si riconoscono auspicano che il loro poeta riceva finalmente la cura che merita dal momento che proprio Bodini rappresenta la coscienza lucidissima dell’essere meridiani, figli del Finisterre, tutti noi ancora sorpresi nel mezzo del guado (l’espressione è di Donato Valli, ci ricorda Giorgino) tra tradizione e modernità, tra ancestralità e post-posmoderno. Infatti gli affilati strumenti critici provenienti dai più aggiornati studi cui Simone Giorgino accenna nella Premessa possono essere, mi permetto di aggiungere, anche i postcolonial studies i quali, trovando nell’ormai classica e irrinunciabile Terra del rimorso di Ernesto De Martino un punto di partenza di assoluta efficacia, nello studiare la subalternità del Mezzogiorno possono restituire alla seconda stagione bodiniana, pur incompiuta a causa della morte precoce del poeta, un valore davvero alto di coscienza di quanto avveniva negli anni Sessanta del XX Secolo, anche in ragione della massiccia emigrazione che stava cambiando in maniera irreversibile il Salento e lo stesso rapporto delle genti salentine col proprio territorio e con il proprio passato.
L’amicizia con Rafael Alberti, trapuntata da gustosi aneddoti e retta da grande stima e affetto reciproci, mette in evidenza l’importanza dell’attività del Bodini traduttore, attività questa non secondaria rispetto alla poesia “in proprio”, anzi forse ancora più apprezzata a suo tempo che la stessa poesia bodiniana (Giorgino scrive dei rapporti tra Bodini e la Mondadori, tra Bodini e Sereni, dell’andirivieni delle missive e dei tempi, non sempre congrui rispetto agli accordi e ai progetti, delle diverse pubblicazioni); è Bodini a riconoscere un legame diretto tra la Spagna e il Salento, a prendere coscienza dell’esistenza di un Sud molto più vasto di quello geograficamente limitato alla penisola salentina.
Pure Vittorio Pagano si dedica a una valida attività traduttoria (dal francese), fatto anche questo non trascurabile perché tradurre in particolare i “poètes maudits” significa agganciare il Salento a esperienze significative sovranazionali che, in Pagano, trovano riflesso nella sua fedeltà all’Ermetismo fiorentino – e sarebbe un lunghissimo capitolo a sé riflettere sul rapporto tra la Firenze novecentesca, specialmente “ermetica” e la Terra d’Otranto (Luzi, Betocchi, Lisi, Parronchi ebbero rapporti stabili e stretti con i maggiori poeti salentini del Novecento). L’eresia barocca di Pagano consiste nel paradosso dell’aver coltivato profonde amicizie (in special modo con Gatto e Caproni), della sua collaborazione all’Albero, della sua direzione della rivista Il Critone e, malgrado tutto questo, nel silenzio (talvolta nell’indifferenza) che accolse i suoi libri in poesia provocando in lui sofferenza e rabbia; molti poeti e critici affermati gli rinnovavano in privato segni di stima e di ammirazione, senza che questo si traducesse in interventi ufficiali di peso. Un po’ come Comi Pagano sembra pagare la scelta di rimanere nella piccola patria salentina e di esercitare l’inossidabile fedeltà a una stagione letteraria tramontata senza cedere alle sirene del Neorealismo e, più tardi, della Neoavanguardia – la disamina precisa e puntuale che Giorgino fa delle vicende biografiche del poeta, della cronistoria delle sue pubblicazioni in versi, dei suoi rapporti con altri artisti a lui contemporanei dimostra che Pagano, come altri poeti salentini, si assunse in pieno anche nella sua stessa quotidianità il peso, la difficoltà e l’amarezza di rimanere coerente a un’idea precisa di poesia e di vita: «La poesia di Pagano risente dell’alchimia generata dall’interazione fra queste due “anime” complementari, quella meridionale, relativa alla terra d’origine dello scrittore, causa efficiente della vertigine barocca tanto frequente nella sua strategia stilistica così come della riappropriazione in chiave mitologica dell’elemento ctonio e terragno […]; e quella francese, relativa invece alla sua patria d’elezione, che agisce soprattutto attraverso la ricercatezza dell’impianto metrico-ritmico oltre che per il recupero e l’aggiornamento in chiave contemporanea del Mauditisme […] che aleggia nei suoi versi» scrive Giorgino (p. 81).
È forse con Carmelo Bene che l’eresia barocca dei poeti salentini rompe il cerchio dell’isolamento e della distanza dai centri culturali riconosciuti, entra con tutto il suo prestigio e autorevolezza nella contemporaneità determinandone, addirittura, alcune direzioni, rovesciando il rapporto tra centro e periferia, facendo proprio della periferia lo spazio geografico della contestazione e della rivolta.
Nella sua casa di Otranto tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 Bene compone, in un letterale corpo a corpo con la lingua e con la malattia, ‘l mal de’ fiori – «è il poema impossibile delle “cose che non sono”, il paradossale canzoniere di una “Voce che si ostina parlare nel deserto” […], che non cerca la comprensione o compassione del lettore, anzi se ne disinteressa sfacciatamente. Scrive Carmelo Bene: “Io non voglio, io non devo essere capito. La comprensione è dei cretini. La poesia bisogna intenderla con l’intelletto, non capirla con la grammatica. La grammatica recepisce solo il cadavere della poesia. […] ‘l mal de’ fiori è un’opera sfuggente e entropica» (pp. 99 e 100). Nella prima parte del macro-saggio Simone Giorgino studia, raggruppandoli in sezioni tematicamente affini, i 63 testi, compiendo dunque un’operazione che tenta di rendere perspicuo un corpo testuale abnorme, mi vien fatto di pensare barocco proprio nella proliferazione dei linguaggi e delle lingue, nell’invenzione di una sintassi sempre ardua e nuova, nella mescidanza di lessici anche tecnici e ancora di lingue – Simone Giorgino, che anche in questo caso dimostra quella che oserei chiamare una devozione per Carmelo Bene e per la sua opera, nell’innestare la poesia beniana entro la “linea meridiana” corrobora indirettamente, per esempio, la scelta fatta da parte di una personalità intellettuale e artistica qual è quella di Marco Giovenale che da anni propone Carmelo Bene come attore-scrittore-teorizzatore-dissacratore imprescindibile per quel “cambio di paradigma” necessario a che la poesia e la cultura italiane non restino arretrate e provinciali, conservatrici e reazionarie; mi sembra che Eretico barocco, pur riconoscendo e comprovando in sede scientifica gli indubbi meriti di Comi, Carrieri, Bodini e Pagano, attribuisca (correttamente e coerentemente) a Carmelo Bene la capacità di aver rotto definitivamente l’isolamento, di aver rovesciato una situazione da esclusione in presenza molto forte, polemica, agonica, in grado di porsi a un livello di parità (senza remore né complessi) con quanto si andava elaborando nei maggiori centri culturali d’Europa (si pensi soltanto al sodalizio umano, intellettuale e artistico con Gilles Deleuze e con Jean-Paul Manganaro). La voce di Carmelo Bene (o meglio la voce che si manifesta attraverso il corpo di Carmelo Bene) deflagrando sulla scena culturale contemporanea fa sì che niente possa restare com’era in precedenza e anche la linea meridiana viene condotta a un livello di eretico barocco ormai attestatosi dopo la poesia e contro i suoi paradigmi più largamente accettati e diffusi, attuandosi un processo di radicale messa in discussione dei canoni, dei valori, delle classificazioni che hanno permeato di sé la cultura occidentale.
L’intera opera beniana andrebbe riconsiderata nel suo poliedrico pulsare, ‘l mal de’ fiori andrebbe letto anche incrociandolo con i film e con le performance teatrali di Bene, vedendolo come risultato di una ricerca lunga un’intera esistenza e altrettanto andrebbe fatto con il poema Achilleis-Leggenda, ultimo lavoro di Carmelo Bene, quello in cui egli rinnova lo strappo dall’idea maggioritaria di “poesia” mettendo in atto il depensamento del sistema comunicativo istituzionalizzato (mittente-destinatario-messaggio) e inoltrandosi in territori che, se si accoglie la suggestione deleuziana, fanno di Bene un minore, un artista cioè che sceglie una posizione ampiamente e decisamente minoritaria rispetto a quella maggioritaria diffusa e difesa dall’accademia e dall’editoria mainstream – si spiega così la “devozione” beniana a San Giuseppe Desa da Copertino, agli spazi e ai simboli della Cattedrale d’Otranto, a un Barocco che è eccesso nel senso di un andare ben oltre l’ordine costituito, ben oltre la normalizzazione autoritaria sempre pronta a soffocare ogni empito libertario e contestatore. E leggendo il macro-saggio di Simone Giorgino mi è sembrato che Bene accolga anche gran parte delle premesse della poesia bodiniana (con Bodini egli ebbe un solido rapporto personale), portandone a compimento il processo (avvertibile soprattutto in Metamor, ma non senza l’irrinunciabile suggestione della Luna dei Borboni) che fa i conti con il corpo lacerato della lingua perché lacerato è il mondo in cui quella lingua si fa udire.
Segnalo i due capitoli dedicati alla “biblioteca ideale” e a quella reale di Carmelo Bene e alle vicende dell’Archivio Carmelo Bene perché Simone Giorgino anche in questo caso lavora in primis su documenti autografi e su materiali d’archivio, costruendo una solida ossatura filologica per quello che sarà, poi, il saggio nel corso del quale studiare il tema prescelto.
Si dipana così un affascinante viaggio attraverso opere e autori presenti nell’opera beniana e un confronto con volumi concretamente presenti nella biblioteca di Bene, spesso colmi di note a margine e di sottolineature, altrettanto spesso recanti la dedica d’autore, il che comprova le molte e altissime frequentazioni umane e intellettuali dell’artista salentino.
Simone Giorgino firma insieme con Alessio Paiano il corposo volume Da questo altrove. Carmelo Bene e il Sud del Sud dei Santi. Una cartografia (Kurumuny, Calimera 2024) che andrebbe letto in necessario dialogo con Eretico barocco e lo segnalo perché proprio Eretico barocco mi appare come un primo, concretissimo corpus di scritti che possono davvero mutare i paradigmi imperanti, contestare il canone (o i canoni), dischiudere nuovi orizzonti, specialmente ai più giovani tra coloro che vogliano dedicarsi alla scrittura creativa – ma anche per chi è già “navigato” non sarebbe nient’affatto male fermarsi a riconsiderare i parametri valoriali, stilistici, storici apparentemente acclarati e validi.
[“Via Lepsius” del 13 ottobre 2024]