Il tempo passa e cambia le cose degli uomini. La tecnologia trasforma i comportamenti. Così le poche cabine telefoniche rimaste sono i totem di una modernità ormai superata. Frequentate da quasi nessuno. Figure sul palcoscenico della memoria di quelli che ci hanno trascorso dentro il tempo migliore della loro vita. Nei pomeriggi d’estate quando diventavano roventi; nelle sere d’inverno quando si gelava. Hanno fatto la fila per ore durante la libera uscita del militare. In quello spazio esposto agli occhi di tutti, sono esplose felicità e si sono consumati dolori. Era quello l’unico ponte che congiungeva al mondo. Quando scattava il fuori servizio – ed era sempre al punto in cui si diceva o si ascoltava la cosa più importante di tutta la conversazione – quel ponte si alzava isolando un’esistenza. La cabina telefonica apparteneva alla loro dimensione quotidiana. Camminavano tintinnanti di monete e di gettoni. Erano campioni impareggiabili nelle telefonate al volo alle fermate dei treni. Non erano imprese facili: ci voleva allenamento, classe, fantasia, tecnica, un po’ di fiato, il guizzo. L’azzardo della sfida al fischio del capotreno.
La prima cabina telefonica fu installata in piazza San Babila a Milano il 10 febbraio del 1952. Alla fine degli anni Settanta, le cabine in Italia erano più di trentamila. Alla fine del 2011 erano 97.376. Arrivarono a 130.000. Intorno ad ogni cabina si radunava una folla, a volte paziente, a volte ansiosa. A volte furiosa.
Il tempo della telefonata era crudelmente scandito dalle monete o dai gettoni che precipitavano con una rapidità spaventosa ogni venti, trenta secondi.
Nella seconda metà degli anni Settanta arrivarono le schede telefoniche. Le prime erano gialle e blu; quando si esaurivano, l’apparecchio non le restituiva; più o meno dalla metà degli Ottanta si diffusero quelle che venivano restituite all’esaurimento del credito. Diventarono oggetti da collezione e qualche volta di rimpianto per i soldi spesi.
Poi la diffusione dei cellulari ha determinato la costante riduzione delle cabine. Ci sono ragazzi che se per caso ne vedono una stentano a capirne la funzione.
In un bellissimo libro che si intitola “La vita delle cose”, il filosofo Remo Bodei si domanda in che modo le nuove generazioni saranno capaci di comprendere i messaggi lasciati nelle cose dalle generazioni precedenti, sottraendoli al naufragio dell’oblio o al destino dell’insignificanza. Nelle cose, nella loro apparente immutabilità, scorrono le storie della vita, sono parte essenziale del nostro orizzonte esistenziale, emotivo. Fino a due o tre decenni fa erano condizioni di continuità tra padre e figlio, simboli che annodavano storie individuali e collettive, rappresentazioni di un passato che si riproponeva nel suo significato affettivo. Le cose erano eredità sentimentale, sentinelle della memoria. Il loro essere presenti in qualche modo conteneva la ruspa della Storia, arginava la dimenticanza.
C’era una réclame della Sip che diceva così: “Non sei mai solo quando sei vicino a un telefono”. Forse era vero. Forse è vero ancora. Ecco. La cabina telefonica è appartenuta alla nostra esistenza; è stata quel luogo dal quale abbiamo stabilito un contatto con il lontano. Qualche volta ha consentito a chi telefonava, a chi riceveva, oppure all’uno e all’altro nello stesso tempo, di sentirsi meno solo, di sentire che una voce costituiva un frammento della nostra vita: che sarebbe stata diversa senza quel frammento. Forse poco diversa, forse molto diversa, ma comunque diversa.
Qualche volta la cabina è servita da rifugio quando pioveva e non avevi l’ombrello. Qualche volta è stata un punto di riferimento per un appuntamento.
Di ogni storia che noi attraversiamo, di ogni stagione, ogni giorno, ogni minuto, di ogni persona che abbiamo conosciuto, che abbiamo amato per un tempo lungo o breve, che ha lasciato in noi memorie intense o lievi, ci restano delle cose. Talvolta solo quelle: un souvenir, un ninnolo, una lettera, un orologio fermo ad un’ora casuale; ci rimane un libro, la boccetta di un profumo, qualcosa che ci annoda al suo ricordo, che in qualche modo la riporta a noi, di tanto in tanto. Con un’acredine o una tenerezza. Con una reminiscenza dolceamara. Le cose non si fanno mai estranee, non ci diventano mai indifferenti; non si allontanano mai da noi definitivamente. Hanno una relazione profonda con i sentimenti che abbiamo provato e che proviamo. Perché, come diceva Pablo Neruda nell’“Oda a las cosas”, non solo ci hanno toccati o le ha toccate la nostra mano, ma hanno accompagnato la nostra esistenza, sono esistite con noi e sono state tanto esistenti che hanno vissuto con noi mezza vita e moriranno con noi mezza morte.
Di una storia qualche volta ci è rimasta una telefonata da una cabina.
Una cabina telefonica è una struttura in metallo e vetro. Ma se si dovesse indicarla con un termine generico, nessuno la definirebbe struttura; nessuno la definirebbe nemmeno come un oggetto. Probabilmente la chiamerebbe “cosa”. Direbbe: quella cosa ai bordi della piazza, per esempio.
Ma che cos’è una cosa.
Cosa, dicono i dizionari, è un vocabolo generico che sostituisce un termine proprio, concreto o astratto, ricevendo determinazione dal contesto.
Ma forse è proprio la genericità del vocabolo che ci dà la possibilità di contemperare la concretezza e l’astrazione, e a volte di arrivare finanche a rappresentare l’essenziale.
Basterebbe soltanto pensare all’espressione “le cose della vita”. E’ un’espressione che stringe il concreto e l’astratto: le conoscenze, le esperienze, i sogni, le illusioni, le delusioni, le felicità, i dolori, tutti i treni presi e tutti quelli persi, tutti i passi giusti e tutti quelli falsi. Sono cose che accadono nella vita, diciamo. Per significare anche l’imprevedibile. Spesso dentro questo vocabolo generico è racchiuso un universo di piccoli e grandi accadimenti, di idee, di sentimenti, di occasioni, di passioni. Ci sono le incertezze: non so che cosa dirti. Ci sono le convinzioni più profonde: a questa cosa non posso rinunciare. Ci sono rimpianti o disapprovazioni per le cose passate; attese e speranze per quelle future. L’italiano cosa, dice ancora Remo Bodei, è la contrazione del latino “causa”, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa. Per certi versi è l’equivalente concettuale del greco “pragma”, che nel suo ventaglio di significati include ciò in cui mi trovo implicato nella vita quotidiana.
La cabina telefonica è stata una cosa della nostra vita quotidiana.
Le cose della vita sono le cose che ci riguardano, che ci richiamano, ci interessano, ci coinvolgono. Quelle cose senza le quali forse non saremmo quello che siamo e non faremmo quello che facciamo. Forse neppure ameremmo quello che amiamo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 13 ottobre 2024]