Non tutti è ovvio potevano farsi eremiti, ma bisognava assecondare in gruppo le esigenze che i villaggi declamavano per voce dei singoli individui accentratori di giurisdizioni e mercati contrabbandieri. Ne era d’altronde consapevole la società ecclesiastica delle grandi difficoltà economiche in cui versava la fascia, da loro così definita, dei laboratores (in cui nell’XI secolo probabilmente si comprendevano anche gli artigiani e i prebendari) e che li distanziava dapprima dalla cura spirituale e in secondo luogo, soprattutto dall’irraggiungibile rango nobiliare della santità. E certo un caso non doveva esserlo questa gestualità conservatoriale che promanava dai reliquiari, dai sermones, dai cartolarii e dalle chansons presso le gremite chiese e le affollate piazze, in un tempo in cui ogni ‘stato’ doveva trovarsi delimitato entro i suoi confini micro-regionali. Se si considera un tempo come quello che ci è comodo chiamare “altomedievale” che si obbligava a scansioni tipologiche anche spaziali, dove cioè ogni luogo che nello spazio governato da Dio fosse “posto”, doveva occupare gran rilevanza dogmatica la «religione di classe», attraverso ben permeate murature teologiche nelle case dell’intero laicato, fatte di crediti numerici e proporzioni debitrici alla sussistenza.
Alla dottrina apologetica del Cristianesimo degli albori (IV sec. d.C) che poggiava sulla antinomia ideologica dell’ecclesia, faceva riscontro adesso nel IX secolo, la dottrina della nascente teologia bizantinista che fonda sull’”armonia degli elementi nei sette cieli”, teorizzando ex cathedra il sistema (im)materiale della gerarchia di classe. Alla gerarchia angelica infatti, all’interno dell’assunto cattolico sanpetrino, corrispondeva sulla terra una cosiddetta ‘gerarchia degli ordini’, che bisognava mantenere intatta proprio attraverso il limite delle distanze, per cui il ruolo di ogni unità socio-economica, della famiglia[5], si sarebbe dovuto tramandare se non patrilineare, per eredità parentale.
Così era se nella tarda romanità Sant’Agostino parlava nel suo De Civitate Dei di una «perfetta sinfonia di ruoli» tra le anime del regno celeste, e se ciò, per lo schematismo aristotelico interpretato dalla tomistica, serviva a bloccare di fatto ogni accesso verticale nella scala gerarchica, e a blindare ogni eversione di classe proteggendo l’ordo del dominium feudale.
Teoria che non restava solo sui banchi degli scriptoria ma che si declinava sempre più fedelmente già in pieno X sec., sulla stessa organizzazione sociale del sistema vassallatico-beneficiario, siccome in quel servitium reciproco tra signore e vassus basato sulla fides, si intravede alla lente della storiografia odierna, quasi un tentativo di rappresentazione in terra del servitium Dei alla corte angelica.
Il sistema feudale che conosciamo nell’accezione illuminante di Francesco Violante[6], in relazione a una fase dov’era ormai già solidificato, detta fase pre-normanna, ci sembra riproduca nel suo generale andamento l’esatto microcosmo della Civitas Dei traslata alle sponde merovingiche, ossia condivisa poi come dell’intero universo presso i ceti medio-servili.
E, come anche sostiene Georges Dumézil, da qui si spiegherebbe la forte connessione ideologico-economica che unisce sistema curtense monastico e feudale dal VI al XII secolo, poggiando su una valenza tutta assoluta del concetto di fides[7]. Ovviamente a questo immobilismo statuale che irretisce ogni iniziativa di ampliamento sociale e progresso economico, e che non tarderà a ricevere i primi colpi dalla nascente borghesia cittadina (i burgenses dell’Italia centro-settentrionale), non corrisponde tuttavia una rigidità del tutto paralizzante gli scambi culturali e commerciali.
Seppure in lontano retroscena, la circolazione delle merci e degli uomini scorre, almeno nell’occidente, molto lentamente durante la cosiddetta peste di Giustiniano, ma riprendendo più intensamente dopo la pandemia nel VII secolo, con traffici sempre più frequenti con l’Oriente.
L’autosufficienza
delle stesse corti e dei monasteri, per quanto vogliano apparire di poter
astenersi dal “disonore dell’importazione”, del ricorrere a scambi con ciò che
è ad essi (strutture autarchiche) esterno, è pura apparenza, più propaganda
di potere che eccedenza. Oltre che falsità infatti, non è pensabile che nelle
raffinate villae franche e nelle
superbe curtes italiane
l’ostentazione nobiliare non abbia sin da subito provveduto a che il lusso
delle spezie e delle sete esotiche vi facesse ingresso dalle porte dei vicini
sobborghi.
I monasteri che amavano circondarsi di un alone di solitudine spirituale,
immersi nel deserto rurale e nelle boscaglie selvatiche lontano dalle città,
presto divennero il nuovo centro agglomerante dei villaggi e dei luoghi di
scambio.
Mete di lunghi pellegrinaggi e di incontri multietnici, crocevie di passaggi commerciali e di tappe militari, i monasteri furono i maggiori fautori del processo di conurbazione che si ebbe verso la fine del X secolo, all’indomani del fallimento politico carolingio. Il monastero sostituì la vecchia città, e più movimento circolava fuori dalle sue mura, più il sentimento di solitudine e ritiro dall’urbanità veniva nutrito sulla carta degli scriptoria.
C’era sempre stata pertanto una economia aperta nell’alto Medioevo, talora sull’orlo della chiusura, talora di massima fioritura, ma negarne affatto l’esistenza significherebbe negare anche l’apporto di alcuni centri cittadini che pur sono sempre resistiti almeno nello scenario geopolitico italiano e che hanno avuto un ruolo seppur minoritario di fronte alla grande crisi degli spazi ruralizzati.
Ma come queste contraddizioni hanno trovato soluzione nella propaganda ideologica e intellettuale dell’apparenza, così tutto il tessuto della società medievale è impregnato di una certa parvenza illusoria[8]. Ovvero tutto ciò che si vede è solo una parte di verità irrivelata, tutto quel che è dato leggere o ascoltare pertiene solo al piano umano della lettera, ma anche tutto quel che si abbatte sulla natura e sul mondo degli uomini, è solo un prodigio, un piccolo segno della provvidenza divina. Insomma è una realtà quella medievale dove tutto è simbolo.
A questo proposito Le Goff proponeva nel suo saggio di ripensare proprio all’etimologia della parola “simbolo” per comprendere «quale sia il posto occupato dal pensiero simbolico non soltanto nella teologia, nella letteratura e nell’arte dell’Occidente medievale, ma anche negli strumenti del pensiero».
Il σύμβολον lo definisce come due metà di un oggetto diviso tra due soggetti, che se l’una delle due mancasse o fosse perduta, attraverso soltanto una si riconoscerebbe quel che era l’oggetto integrale. Così si richiama da un solo segno una unità nascosta e superiore alla realtà.
Nel pensiero già altomedievale «ogni oggetto materiale era considerato come la raffigurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e diventava così il suo simbolo».[9] La parvenza delle cose sussisteva in funzione di una verità nascosta e universale, da carpire attraverso i simboli della superficie.
Ma non si deve confondere dunque una mentalità simbolista con quella superstiziosa, dal momento che sarebbero entrambi antitetiche, laddove nell’una prevale la forza raziocinante e nell’altra quella oscurantista, e per questo più facilmente attribuita consona alla sigla “Medioevo”. Un pregiudizio tarlato questo che potrebbe mettere a repentaglio persino la lucidità del nostro secolo, i cui spiragli di luce non certo sono sempre così flebili da essere dimenticati.
Dall’estrema
ragione deriva quindi l’ambiguità di un’epoca. E piena espressione di ciò è
senza dubbio il miracolo. Infatti «la storia aveva per essi il solo compito di
nutrire la meditazione dei fedeli, di stimolare la loro vigilanza, e perciò di
richiamare l’attenzione sugli avvertimenti che Dio largisce alle sue creature
con “miracoli”, con “presagi”, con “profezie”».[10] Proprio
i miracoli sono i segnali che avvertiranno dell’avvento dell’anno Mille, che
daranno fine all’attesa inquieta per l’Apocalisse, secondo il Vangelo di
Giovanni, che descrive i sintomi della profezia secondo
la quale Satana sarà liberato dalle catene dopo mille anni compiuti.
Ma dopo i numerosi segni e prodigi che si verificarono nel mondo, sia prima sia
dopo, comunque intorno al millesimo anno di Cristo Signore, non mancarono
uomini avveduti e ingegnosi, i quali ne predissero di non meno considerevoli
all’avvicinarsi del millenario della Passione del Signore; ciò che accadde in
effetti con evidenza.[11]
Questo quanto dice Rodolfo il Glabro a proposito dell’attesa dell’anno Mille, ma ancora sulla importanza dei miracoli come segni distintivi di un evento leggiamo:
Perciò, fin dagli inizi, i divini decreti del suo buon Creatore hanno suscitato per lui prodigiosi miracoli nelle cose, presagi straordinari negli elementi, e anche, sulla bocca dei più grandi saggi, profezie destinate a inculcargli per via divina nello stesso tempo la speranza e il timore. Quanto più la fine del mondo si avvicina, tanto più frequenti si vedono accadere queste cose di cui parlano gli uomini.[12]
Ciò che importa dunque «è decifrare i messaggi, “parole veridiche e prodigi” a un tempo, di cui sono ripieni l’universo visibile e la storia, e che abbondano nel testo della Sacra Scrittura»[13] e molto spesso si ricorre alla parola degli auctores pagani per meglio comprendere l’invisibile, dal momento che è pur sempre storia la cui veridicità è garantita dal Creatore, ma che bisogna però purificare dalle scorie pagane attraverso l’acqua battesimale, come afferma Rodolfo il Glabro in Storie V 1. Sappiamo inoltre sempre dalle sue cronache di una importante distinzione che molto probabilmente era largamente condivisa negli ambienti ecclesiastici e monastici, tra i segni del «mondo di quaggiù» e i segni del «mondo intellettuale», quasi a contrapporre la materialità irriducibile da cui l’uomo è attratto sulla terra, e dalla quale l’anima è corrotta e resa insensibile allo spirito, alla intelligentia angelica di cui Dante si fa testimone solo nel Paradiso, e dunque il mondo intellettuale. Questo è perlopiù inaccessibile e i suoi segni sono resi visibili a quei pochi che sanno decifrarli, ma rimane comunque troppo distante dalla gravità della terra che appesantisce la volontà dell’anima, motivo per il quale le corrispondenze si riducono a mere speculazioni ambigue, incapaci di reggere la complessità del verbum nel signum. Soltanto l’ascesi mistica potrebbe essere la via più diretta alla comprensione del prodigio divino, e non è un caso che si è registrato un notevole aumento di presenze di eremiti e monaci girovaganti proprio tra il X e XI secolo, per le foreste borgognone e per l’arco alpino sudorientale, nonché presso i boschi degli Appennini settentrionali, nel tempo d’attesa della profezia di san Giovanni.
La scienza dei
numeri era nelle arti del quadrivio, e permetteva più di tutte di disvelare i
più remoti meccanismi armonici che sottendono al reale. Ogni numero inoltre
possedeva, come tra l’altro ogni specie del mondo animato e inanimato, un suo
valore simbolico che rimandava ad una legge divina. Lo stesso schema tripartito
delle classi sociali, che Duby ha fatto derivare dalla consuetudine
indoeuropea, è lo specchio per il vescovo Adalberone di Laon della società
spirituale, ossia delle gerarchie del regno celeste, e pertanto è più che
legittimata l’arbitrarietà della suddivisione, tanto più quando afferma che
il vescovo e il re possono conoscere «la Gerusalemme celeste» con il dono della
«intelligenza della vera saggezza», e sopra questa anche «l’armonia divina»[14].
Prima di passare alla ambigua questione dei miracoli, più opportuno sarebbe
discutere sulla figura-oggetto che tutta l’epoca medievale ha dimostrato di
possedere a fondamento quasi della fede cristiana, ma che d’altra parte è per
noi uno dei massimi emblemi dell’apparenza in cui quegli uomini vivevano. La
reliquia è forse uno degli oggetti che ha conosciuto più grande fortuna nel
tempo della storia, sia per le sue confuse e remote origini, che per il mistero
e l’ammirazione dogmatica che evoca presso le folle dei fedeli. Un oggetto che
una volta consacrato come parte storica del locus sanctus diviene,
a garanzia della sua antichità, e dunque della sua autorità presso le dotte
opinioni della commissione episcopale, uno strumento di venerazione e di
testimonianza della santità, ma anche un oggetto dispensatore di poteri
soprannaturali, poiché derivati dal corpo del santo. «Questi oggetti sono ciò
che rimane dell’esistenza terrena dei santi, il loro corpo, le loro ossa, la
loro tomba: sono le reliquie» e ancora continua Duby «sul rispetto che ispirano
tali resti si fonda, in realtà, tutto l’ordine sociale, poiché tutti i
giuramenti che tentano di disciplinare il tumultuoso fermento feudale, si
prestano di fatto posando la mano su un reliquiario»[15]. La
reliquia dunque è uno degli aspetti in cui si presenta il miracolo, il
prodigio, essendo il santo l’incarnazione del miracolo divino in terra. Ma pur
non essendo stata talvolta completamente accertata la sua autenticità, è
quasi sufficiente il consenso unanime delle masse, la concordia entusiasta dei
fedeli per proclamarne la consacrazione. È importante per la Chiesa non che
l’oggetto sia davvero autentico, ma l’oggetto sia percepito come provvidenziale
dalla fede popolare, la quale indirettamente accresce il potere ecclesiastico e
affida ad essa sempre più controllo riconoscendole i fondamenti della
religione.
Altri eventi che potevano apparire miracolosi erano le carestie, o le epidemie, le eclissi solari e gli incendi, tutti eventi che innescavano un meccanismo di autogiustificazione provvidenziale. Significativi gli avvistamenti inoltre di corpi celesti in lotta nel cielo, visti come lotte tra le stelle o conflitti tra gli angeli e i demoni.
Ma è lecito chiedersi, così come lo facevano gli spettatori di questi eventi, quale sia il significato di questi segni, e poiché «questi uomini hanno in orrore i “manichei”»[16] sono sempre più pervasi da una insicurezza mentale, confrontando anche le Scritture, che assilla loro sulla presenza del diavolo, molte volte lo si vedeva anche autore nascosto dietro questi prodigi.
Ma si tendeva ad evitare, come dice Rodolfo il Glabro, di considerare Satana sullo stesso piano di Cristo. Pur essendo un angelo decaduto esso infondeva nella coscienza degli uomini medievali più terrore della punizione di Dio, e l’unica arma con cui difendersi da tale paura era il riconoscimento del segno di Dio, ovvero il consenso accordato dal Creatore al demonio di agire in una determinata situazione, che rientrava sempre nel disegno provvidenziale, almeno questo nell’apparenza del simbolo. Molti sono stati i casi riportati dalle cronache altomedievali in cui, per il conto di alcuni monaci, si è creduti di prestare ascolto alla parola degli angeli, all’interno di una apparitio [17] di circostanze oniriche, e si è invece inciampati nella trappola del Diavolo, sentendo sulle spalle la sua sentenza alle fiamme eterne. Lo stesso Rodolfo racconta nel libro V delle Storie il suo incontro col Diavolo, raffigurato come sui capitelli delle cattedrali:
Dunque proprio a me, non molto tempo fa, Dio ha voluto che un fatto simile capitasse più volte. Al tempo in cui vivevo nel monastero del beato martire Leodegario, che chiamano Champeaux, una notte, prima dell’ufficio di mattutino, comparve davanti a me ai piedi del mio letto una specie di nano orribile a vedersi. Egli era, per quanto posso giudicare, di statura mediocre, con un collo gracile, un volto emaciato, occhi nerissimi, la fronte rugosa e aggrinzata, il naso schiacciato, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento stretto e sfuggente, una barba caprina, le orecchie pelose e aguzze, i capelli irti e scomposti, denti di cane, il cranio appuntito, il petto gonfio, il dorso gibboso, le natiche frementi, vesti sordide, accaldato per lo sforzo, tutto il corpo chino in avanti. Egli afferrò l’estremità del materasso su cui riposavo, scuotendo terribilmente tutto il letto […][18]
Non sappiamo quanto veritiere possano essere le sue dichiarazioni, essendo egli un cronista, naturalmente, che a volte contamina la storia con leggende e altre fonti letterarie, per quanto limitato ne fosse al suo tempo l’accesso. Possiamo leggere però nelle sue parole una tendenza condivisa tra gli altri intellettuali e chierici del suo tempo, a individuare in questa tipologia di prodigi, quali apparizioni, comparse, incendi ed epidemie, con una certa facilità, la presenza del diavolo accanto a quella di Dio. Anzi quasi fosse sentito più corresponsabile il Diavolo che Dio, sotto il quale vediamo la profonda angoscia che grava sulle coscienze nel clima di una sempre più cupa perdita delle terre incolte di fronte alla voragine del feudo, si preferiva considerarli segni della provvidenza del Signore, e senza dover dubitare (cosa che appunto avveniva) continuare a prestare fede al giuramento per garantirsi la salvezza eterna.
Tuttavia era impossibile non pensare alla possibilità di smarrirsi dalla «retta via» in un mondo dove la distruzione e la devastazione delle guerre e delle ondate migratorie di natura offensivo-difensiva delle popolazioni barbariche provenienti da lotte di potere territoriale, aveva lasciato sulle città rase al suolo, e abbandonate, un tappeto enorme di foreste e radure boschive. «Anche in Italia, la realtà che più caratterizza il paesaggio dell’alto Medioevo è la foresta, diffusa quasi dappertutto»[19] e i piccoli borghi erano quasi sommersi a macchia d’olio dalle boscaglie. Ciò da un lato recava agli abitanti un’ottima comodità per l’allevamento suino e per la caccia alla selvaggina e altre tattiche di sussistenza spontanea. Da un lato però recava lo sconforto di grande insicurezza, disagio e spesso impossibilità di difesa contro belve feroci e «mostri della foresta». Motivo per il quale si abbandonarono anche quelle poche città abitate in mezzo al labirinto del bosco. La foresta formava come delle grandi macchie di verde intorno alle quali si attestavano i villaggi contadini e le aziende curtensi, e spesso costituiva parte integrante di queste […] nella prima metà del secolo XI, la corte di Formigosa, a 8 km. circa da Mantova, nella bassa pianura tra il Po e la città, misurava, sembra, 3.032 iugeri, cioè poco meno di 2.400 ettari»[20]. Fonte di grande attrazione e risorse, la foresta era il luogo dove i santi vagavano volentieri, come Colombano in peregrinazione (sec.VII) e Francesco d’Assisi (sec. XIII), che compie il prodigio del lupo ammansito. Ma qui san Francesco riceve anche le stimmate presso il monte della Verna. Santa Margherita di Cortona invece nel ‘200 si convertì dopo aver trovato il cadavere dell’amante nella boscaglia dove si era recato a cacciare. Dunque la foresta, che era vista come luogo perfetto per la solitudine, dedicato al contatto più intimo con lo spirito e alla meditazione, luogo di pace e serenità dei contadini, cuccagna nei fabliaux per i porcari e i cacciatori, oltre che spazio del miracolo divino, era anche, durante la notte, tempo questo della proibizione e del peccato, una «selva oscura» sede del maligno, animata da “mostri e lupi mannari”.
Teatro di ogni sorta di stregoneria, segnava il limite della ragione insieme al confine del visibile. Essa diventava metafora del luogo più addetto alla perdizione, deputato alla dannazione eterna.
Se il tempo cosiddetto medievale era concepito nella sua continuità, nel suo distacco spaziale, nella sua infinità fino alla morte, la selva costituiva difatti la frantumazione della quiete di cui l’uomo medievale era alla ricerca col suo tempo, l’offuscamento della luce esistenziale, e la paura della debolezza umana. La selva è lo specchio del costrutto razionale di una civiltà di fronte all’apparenza del reale. Era questa la vera immagine che quel lungo e non ancora meglio definito asse cronologico che il Rinascimento chiama “Medioevo” rifletteva di sé ai suoi viandanti, ai pellegrini, ai fedeli che continuamente inerpicavano in luoghi dove la ragione cristiana si perdeva insieme alla fede. Il loro riflesso più genuinamente immediato dello spazio medievale era proprio questo, il labirinto.
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normanno-sveve” (Bari, Barletta, Dubrovnik, 14 – 17 ottobre 2008), Bari 2010
[1] Con una chiara allusione del labirinto alla “gaste forêt” di Perceval le Gallois ou le Conte du Graal, di Chrétien de Troyes, v. 1185, nella traduzione di Lucien Foulet (La Légende arthurienne, Laffont, “Bouquins”, 1989, p. 8).
[2] Vd. Cartulario dell’Abbazia di San Vittore di Marsiglia, edizione di B. Guérard, in “Collection des Cartulaires de France”, tomo VIII, Paris 1837, vol. 1, pp. 99-100.
[3] Cfr. M. PAGLIERI, G. VIVACE (a cura di), J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, trad. di Adriana Menitoni, Torino, Einaudi 2013, p. 212: «Il ritiro del cavaliere che si fa eremita è inoltre uno dei grandi temi delle canzoni di gesta, le quali comprendono spesso l’episodio della «monacazione», la vestizione monastica del cavaliere prima di morire».
[4] Ibidem.
[5] Il manso che, come dice il Beda, è «terra unius familiae».
[6] Vd. F. VIOLANTE, Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel Mezzogiorno normanno (1130-1194): Atti delle diciassettesime giornate normanno-sveve, Bari, 10-13 ottobre, 2006. Si veda anche ID., F. RUSSO (a cura di), Élites fondiarie e ceti mercantili nella Puglia centro-settentrionale tra tardo medioevo e prima età moderna, in ‘I centri minori italiani nel tardo Medioevo. Cambiamento sociale, crescita economica, pp. 371-398.
[7] Ad essa si connette la nascita della cavalleria, che darà due esiti attitudinali in un unico ‘corpo’: miles senioris e miles Christi.
[8] Cfr. Le Goff, La civiltà, cit., pp. 396-397.
[9] Ibidem
[10] Cfr. G. DUBY, L’anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Jouvence, Milano, 2022, p. 41.
[11] Rodolfo il Glabro, Storie IV 1.
[12] Ivi, I 5
[13] Cfr. G. DUBY, Op. cit., pp. 60-61, e aggiunge subito dopo: «poiché la creazione, nelle sue dimensioni spaziali e temporali, appare come un tessuto di corrispondenze, la scoperta delle analogie e il ricorso ai simboli».
[14] Adalberone, edizione Hückel, pp. 148-56.
[15] Vd. DUBY, Op. cit., p. 80.
[16] Ivi, p. 126.
[17] Celebre il caso dell’Apparitio Sancti Michaelis in Monte Gargano e dell’interpretazione del vescovo di Siponto. Illuminante il saggio di A. LAGIOIA, Una versione greca inedita della “Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano” (BHG 1288h, Messan.gr. 29) in ‘Vetera Christianorum’ Anno 51-2014, Edipuglia, Bari, pp. 165-192. Anche L. CARNEVALE, L’episodio del toro nell’Apparitio Sancti Michaelis in monte Gargano: notizie storiche e percorsi interpretativi, in ‘Orma, v. 22, «Sacer Bos I. Usi cerimoniali di bovini in Italia e nelle aree romanze occidentali» a cura di Gianfranco SPITILLI e Vincenzo M. SPERA’, Risoprint edizioni, Cluj-Napoca, 2016, pp.48-72.
[18] A tal proposito cfr. il tema del sospetto e l’eresia in Ademaro di Chabannes, Cronaca 49 e 59.
[19] Cfr. V. FUMAGALLI, Città e campagna nell’Italia medievale, Patron Editore, Bologna, 1985, p. 31.
[20] Ibid.